[6] I'm so tired...
Hunk
Non sei sicuro del motivo che ti spinge a fremere, quando ti viene detto di voltare la prima pagina della piccola pila di carta davanti a te. Insomma, in fondo sei preparato. Non credi di essere mai arrivato impreparato a un esame, no, non esiste, perché altrimenti ti saresti sentito in colpa e non avresti più potuto guardare in faccia nessun membro della tua famiglia.
Però c'è qualcosa oggi che ti tiene con il fiato sospeso, come se anche il più minuscolo movimento sbagliato potesse cambiare l'assetto dell'asse terrestre. E forse è il fatto che Pidge non si sia messa gli occhiali da sole, forse è il genere di occhiate esitanti che si lanciano Keith e Lance, non lo sai.
Sospiri e stringi la penna blu tra le dita perché sì, questo esame andrà bene, sai di essere solamente molto molto ansioso.
Andrà bene.
E non devi farti influenzare da ciò che accade ai tuoi amici, in fondo sei completamente diverso da loro. Ti sembra quasi che sia sbagliato avere qualche debolezza mentre stai con quei tre, anzi, facciamo anche con quei cinque perché non è che Allura e Shiro siano poi tanto diversi dagli altri tuoi amici.
Solo che Shiro ha compiuto trent'anni quest'anno e Allura ventisette, quindi sono un po' più grandi di voi, ma non importa perché Pidge ne ha solo diciannove ed anche questo è molto strano.
Dici un sacco di perché ultimamente, e lo sai benissimo, ma almeno così ti sembra di avere mille e più risposte, anche se le domande non sono poste da nessuno.
Mettere un perché davanti a una frase ti fa sentire meno impotente e di sicuro meno in colpa nel guardare Lance mentre mastica il cappuccio della penna a una decina di posti da te, Keith che bucherella il banco di legno con la sua e Pidge rigorosamente in prima fila, che è già alla seconda pagina dell'esame.
Forse ti senti in colpa perché tu non hai problemi, non lo sai. Perché la tua famiglia è unita e tradizionale, perché sei riuscito a parlare con Shay e lei ne è sembrata più che contenta, perché puoi permetterti di frequentare la Garrison senza bisogno di nulla di più che l'onestissima borsa di studio che hai guadagnato al liceo con i tuoi voti.
Invece Allura ha il cancro, Pidge non fa che scappare da qualunque cosa, Keith è un orfano con problemi di abbandono, Shiro ha il fantasma di Adam a perseguitarlo e Lance è costretto a prostituirsi, senza contare che la sua situazione famigliare è un disastro.
Sì, sei piuttosto sicuro che è per questo che non puoi fallire. Devi essere perfetto, devi essere per tutti loro una solida certezza. E se puoi sopportare questo divario e sostenerli in tutti i loro crucci, allora di sicuro puoi anche prendere il massimo dei voti in questo maledettissimo esame.
Pidge
Quando uscirono tutti e quattro dall'immensa aula, Pidge si sentì rigenerata.
Era quello il suo ambiente, il posto più sicuro dove potesse stare, e nulla sarebbe riuscito a farle credere il contrario.
«L'unica cosa che ci vorrebbe adesso è un piatto di quella cosa, avete presente» disse, schermandosi gli occhi con le mani perché non era abituata alla luce del sole. «Quella cosa granulosa un po' giallina, con tutte le verdure e la carne dentro».
Hunk le lanciò un'occhiata dall'alto. «Il cous cous?» domandò, più per educazione che perché non sapesse di cosa parlava.
La ragazza non lo guardò nemmeno ed annuì ad un punto indefinito davanti a lei.
«Il cous cous» esordì, facendo un rapido gesto con le dita, gesto che di solito faceva Lance. «E visto che mi avete obbligato a dire ad alta voce che Hunk è il mio migliore amico -lo avete fatto- il minimo che può fare è prepararmi il cous cous perché sono stata bravissima e sicuramente prenderò il massimo».
Il ragazzo con il maglione giallo le sorrise e scosse appena la testa, visibilmente intenerito. «La mia sorellina faceva la stessa cosa quando aveva sei anni».
Pidge stava per ringhiargli contro, ma si accorse che quello era un comportamento che non l'avrebbe aiutata a difendersi. Così alzò gli occhi al cielo, infilando con forza le mani nelle tasche della felpa verde, gesto che invece era solito fare Keith.
«Posso sempre saltare il pranzo, se preferisci» lo provocò, pronta a tutto pur di dimostrare che quei tre erano tanto infantili quanto poteva essere lei.
Hunk si irrigidì visibilmente all'udire di quelle parole e le diede una spinta leggera sulla spalla, con sole due dita, perché era un ragazzo troppo buono per usare più forza di così su qualcuno. «E va bene, cous cous sia».
Lance si schiarì la gola alle loro spalle e videro che aspettava di attirare la loro attenzione, mentre Keith strofinava la punta della scarpa per terra, senza guardarli.
«Veramente» cominciò il cubano, lanciando una rapida occhiata a quello a fianco. «Io e Keith avevamo già un impegno».
Allison aveva fatto fare a Pidge una classifica, per allenare la sua capacità di osservazione dei sentimenti altrui. In breve doveva fare la graduatoria di loro sei, da quello più empatico a quello più emotivamente miope ed ovviamente si era posizionata all'ultimo posto, con incredibile umiltà, se può aggiungere.
Appena sopra di lei c'era Keith, poi Lance ed in seguito Allura. Il più emotivamente percettivo era ovviamente Hunk, al quale Shiro arrivava secondo.
Perciò, dato che Allison aveva approvato la scelta delle posizioni, la ragazza sapeva di non essere sempre la persona migliore quando si trattava dei sentimenti altrui. Però si stava impegnando, davvero.
Guardò il ragazzo dal maglione giallo e pensò che se fosse stata una buona persona probabilmente si sarebbe comportata come lui, capendo ciò che accadeva e tenendo i commenti per sé.
Ma le pareva scontato che lei non fosse nemmeno lontanamente come Hunk.
«È un appuntamento?» chiese, rivolgendo al castano un sorriso malizioso.
Lance non arrossì, ovviamente, dopotutto solo Keith aveva il potere di farlo arrossire.
Le lanciò uno sguardo di sfida, anche se Pidge sospettava che fosse per reprimere l'imbarazzo che invece era esploso sul viso del corvino, completamente paonazzo. «Aggiungi qualcosa di più e dirò a Matt dell'incidente con la fotocopiatrice».
La castana sbiancò e tutta la sua spavalderia scomparve.
«Non oseresti» sibilò.
Il ragazzo le sorrise genuinamente facendola irritare come solo lui aveva la capacità di fare. «Mettimi alla prova, pidgeon».
Ci fu un lunghissimo e interminabile secondo in cui Hunk temette che lei gli avrebbe staccato la faccia a morsi, ma per sua fortuna il cubano venne miracolosamente salvato da un gesto del corvino accanto a lui, che attirò l'attenzione di tutti e tre.
Keith aveva le guance leggermente scarlatte e teneva la testa rivolta dall'altra parte, mentre la mano destra era infilata nella tasca della felpa rossa.
Quello che attirò la loro attenzione fu il suo gesto delicato di afferrare il bordo della manica di Lance con un paio di dita, come se agire più bruscamente avesse potuto infrangere qualche regola.
Non che a lui non piacesse infrangere le regole, comunque.
«Okay» disse piano, sempre senza guardarli. «Quindi noi andiamo?»
Pidge osservò il volto del castano distendersi nella sorpresa e la tenerezza del momento, al che quasi le venne la nausea nel vedere quante dichiarazioni implicite stavano aleggiando nell'aria che li divideva. Dio, che si prendessero una stanza se dovevano essere così imbarazzanti.
«Ugh, sì, quindi voi andate» rispose la ragazza, storcendo la bocca. «Non voglio assistere alle vostre effusioni, siete già abbastanza nauseanti così».
«Senti un po', piccola Gremlin-» qualsiasi cosa la castana avrebbe dovuto sentire non uscì dalle labbra del cubano, perché Keith sbuffò sonoramente e lo trascinò via per la manica.
Sentì Hunk picchiettare il piede sul pavimento e si dedicò per un secondo a guardare la sua espressione pensosa.
«Era ora che mettessero le cose in chiaro» dichiarò lui, una volta che i soggetti della sua frase si furono sufficientemente allontanati. «Anche se Lance nega ancora il loro momento di legame».
Pidge scosse la testa, teatralmente sconsolata. «Quell'idiota».
Keith
Il cubano sta parlando da un po' ormai, le sue parole che paiono scivolargli sulla lingua come nulla, con forse troppa facilità.
E a Keith di solito non piacciono le persone rumorose, le trova esageratamente egocentriche, ma questa volta è diverso, perché è Lance che sta parlando. Allura lo prende spesso in giro dicendo che a Lance permetterebbe qualsiasi cosa, ma il corvino sa che non è affatto vero.
O almeno, tenta di convincersi che non lo sia.
In realtà il suono della voce del ragazzo gli giunge quasi attutita e ovattata, mentre lo osserva di sbieco e nota che si accarezza la nuca con le dita, come se fosse nervoso.
Ha imparato, nel corso del tempo, a riconoscere i segnali che manifestano ognuno di loro quando è nervoso ed il cubano ne ha un repertorio tutto suo.
Mentre Hunk si mangia le unghie ed Allura gioca con il braccialetto di stoffa che porta sempre al polso, Lance si preme le dita sulle labbra o si sfrega il collo con finta distrazione, a dipesa del tipo di situazione.
E non è che Keith sia un chissà quale genio o altro, ma è un buon osservatore.
«-e c'era questa lanterna gigante dietro alla scatola che proiettava l'ombra contro il tendone, no? Mi sono spaventato a morte e da quel giorno ho una paura irragionevole delle zucchine» conclude, alzando il mento e guardando verso l'altro.
Keith si accorge seguendo il suo sguardo che il cielo si è fatto nuvoloso, ma pare dalla sua espressione che non ne sia affatto contrariato.
Il corvino si infila le mani in tasca, nel giubbino che saggiamente si è deciso ha infilare prima di lasciare l'università. «Ma tu ti fai le maschere con i cetrioli».
Lance abbassa gli occhi su di lui ed inarca un sopracciglio. Nessuno ha più mimica facciale di lui.
«Sì?» fa, leggermente confuso. «Ma le zucchine non sono cetrioli».
«Hanno la stessa forma, però» obietta il più basso, girandosi verso di lui solo di poco. «Se tu hai visto solo l'ombra della zucchina, allora avresti dovuto essere spaventato anche dai cetrioli che sono praticamente uguali».
Forse un po' lo sta stuzzicando per vedere quella faccia, sì, sì, quella che sta facendo adesso mentre piega le labbra in quel modo innaturale e quasi gonfia le guance, indignato.
Gli piace un sacco quando ha quest'espressione perché è incredibilmente buffa ma anche perché gli brillano gli occhi. E Keith ha un'insana ossessione per quegli occhi blu mare.
«No, io- okay» comincia Lance, incrociando le braccia al petto e sbuffando. «Almeno sai qual'è la differenza tra una zucchina e un cetriolo?»
Il corvino scrolla le spalle e quasi gli fa strano non sentire i capelli strofinargli la pelle del collo: sotto consiglio di Acxa se li è legati e con suo stupore è stata una scelta che ha zittito il cubano per i primi dieci secondi in cui gli ha messo gli occhi addosso.
«Non credo di aver mai nemmeno mangiato una zucchina nella mia vita» ammette, con scarsa attenzione.
Gli occhi di Lance si spalancano teatralmente ed il ragazzo è diventato decisamente ridicolo, infatti Keith si sta mordendo forte il labbro inferiore per non sorridere di fronte a questo.
Il castano sembra notarlo e le sue orecchie prendono improvvisamente una sfumatura scarlatta, subito prima che gli afferri senza gentilezza il polso e se lo trascini dietro.
Okay, okay Keith, tranquillo, si dice, è solo contatto fisico.
Ma lui non è abituato per niente al contatto fisico, non riesce nemmeno farsi toccare i capelli da Allura senza teletrasportarsi dall'altra parte della stanza, quindi questo scatena una reazione nervosa che lo fa scoppiare a ridere.
Si copre la faccia con la mano libera mentre ride perché mio Dio, sto andando fuori di testa.
«Uno stupido, stupidissimo americano medio. Gli Shirogane non sono vengono dal Giappone?» borbotta Lance, aprendo davanti a sé una porta di vetro. «Non vi hanno insegnato a mangiare sano e a conoscere la differenza tra una verdura e una patatina fritta?»
Il campanello attaccato alla parete emette un trillo quando la porta sfiora il gancetto accanto ad esso, prima di chiudersi dietro di loro.
Keith abbassa la mano e si sfrega una guancia, come se gli facesse male dopo aver riso.
«Le patatine fritte sono patate» osserva con ancora l'ombra di un sorriso sulle labbra. «E le patate sono verdure, no?»
Lance sembra stia attentamente decidendo se lasciargli andare il polso o reciderlo completamente. «Le patate sono tuberi».
Lo dice con un tono di voce incredibilmente minaccioso, come se affermare il contrario potesse costare la vita di Keith.
Ed il corvino vorrebbe davvero salvarsi la vita -davvero- ma gli occhi del cubano stanno brillando. Perciò il più grande sorride, piegando la testa di lato.
«E non è la stessa cosa?» domanda.
Probabilmente la sua morte sarebbe potuta avvenire in quel momento preciso, se una cameriera non si fosse avvicinata con un sorriso di plastica sulla faccia.
«Posso farvi accomodare?» chiede, estraendo dalla tasca della gonna gialla un taccuino e una penna.
Lance molla la presa con aria disgustata e Keith alza gli occhi al cielo, mentre entrambi seguono la ragazza verso il tavolo.
Una volta che quella si sposta di lato per farli sedere sulle poltroncine, l'uno davanti all'altro, sembra notare effettivamente Lance.
E Keith ovviamente nota di riflesso quanto le sue labbra siano state marcate dal rossetto e quanto la gonna della sua divisa sia corta.
«Sai già cosa ordinare o porto la lista dei piatti di oggi?» quasi trilla, sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli tinti d'azzurro.
Il corvino non riesce a pensare a qualcosa che lo metterebbe più a disagio che ricevere attenzioni di questo tipo da una ragazza, ma allo stesso tempo vorrebbe essere lui l'oggetto del suo interesse piuttosto che il cubano.
Lance infatti si gira verso di lei e le rivolge un sorriso luminoso, uno dei suoi, uno di quelli che l'altro avrebbe preferito non vedere rivolto a una cameriera qualsiasi.
Perché i sorrisi di Lance fanno sentire chiunque li riceva incredibilmente importante, e Keith non sa mai se quando sorride a lui è perché crede che sia veramente importante oppure no.
Oltretutto la stronza poteva fare almeno finta di prendere in considerazione il ragazzo com gli occhi screziati di viola, lo stesso ragazzo che ora sembra volerla uccidere con lo sguardo.
«Un piatto gigante di tamales vegetariani, così posso far capire al mio amico cosa sono le verdure. E due Pepsi» le risponde, abbassando gli occhi sul cartellino con il suo nome, che è pericolosamente vicino alla scollatura della maglietta. «Grazie, Luxia».
La ragazza scribacchia l'ordine sul suo taccuino e sorride al ragazzo, prima di dirigersi verso il frigorifero a vetro attaccato al muro.
Prese le bevande e consegnatele ai due seduti al tavolo, rivolge un'occhiolino al più alto. «Torno subito».
Keith continua a fissarla andarsene con sguardo torvo aspettando che, non so, cada di faccia contro il pavimento e si spalmi quel rossetto appariscente su tutto il viso. Purtroppo ciò non accade e lei raggiunge sana e salva le cucine, facendo emettere uno sbuffo al corvino.
Stappa la lattina davanti a lui e si accorge dell'espressione confusa di Lance, che ovviamente non ha capito il motivo del suo fastidio.
Keith alza gli occhi al cielo senza dargli alcuna spiegazione ed incrocia le braccia al petto. «Perché sono qui, Lance?»
Se il cubano è sorpreso dal tono di voce irritato del più grande non lo dà a vedere, però si preme il pollice della mano destra contro le labbra prima di parlare.
«Principalmente perché ti devo dire una cosa, ma anche perché sono preoccupato che tu non abbia ancora parlato con Shiro e Allura. Okay, no, anche Hunk è preoccupato a questo proposito e sarebbe molto deluso se non ti dicessi che lo è» risponde, correggendosi all'ultimo. «Sei tornato a casa, ieri?»
Keith arriccia le labbra e abbassa lo sguardo, prendendo una cannuccia dal contenitore vicino alla finestra.
Non è che si siano allontanati molto dall'università, ma nonostante questo si sente a chilometri e chilometri da qualsiasi cosa lui conosca. A eccezion fatta di Lance, certo.
L'ha portato in un locale di cibo messicano che il castano e Hunk avevano già citato un paio di volte, e Keith non sa bene come gestire la cosa.
Perché Lance non è mica messicano, è cubano e probabilmente è lì solo per vedere se riesce a capire la differenza, in modo da poterlo stuzzicare in maniera diversa dalle precedenti.
«Ho dormito da Acxa, tanto Lotor non c'era» mormora, lasciando cadere la cannuccia nella bibita e lanciando un'occhiata incerta al suo amico.
Il ragazzo dagli occhi blu mare aggrotta le sopraccigli sospirando.
«Lo sai che hai il permesso di andare avanti, vero?» domanda, sporgendosi in avanti come se quello fosse il loro segreto. «Ed anche Shiro ce l'ha, no?»
«È solo colpa sua se Adam ha avuto l'incidente, se Shiro non se ne fosse andato lui... No. Non ho voglia di parlarne» dice prima di prendere un sorso della bibita e stringere la cannuccia tra i denti.
Sospetta che Lance non abbia ancora intenzione di litigare con lui, perché alza le mani verso l'alto in segno di resa.
«Okay, come ti pare. Solo, non ignorare Allura, okay? Ha la tesi da finire per il master in Astronomia e non ha bisogno di altri casini» gli dice, piano, con gentilezza.
Perché è così accomodante? Perché non sfrutta ogni occasione per battibeccare come farebbe di solito, incapace di riconoscere quando fermarsi?
Keith comincia a insospettirsi ed aggrotta le sopracciglia.
«Hai detto che volevi anche dirmi una cosa» gli ricorda, prendendo un secondo sorso di Pepsi.
Perché, oltretutto, quell'idiota ha chiesto esplicitamente delle Pepsi quando la Coca-Cola è infinitamente meglio?
«Sì, giusto» borbotta Lance, schiarendosi piano la voce ed abbassando gli occhi sul tavolo di metallo.
E Keith non capisce perché abbia le orecchie arrossate e perché i suoi occhi brillino così tanto, perché la sua esperienza personale gli ha insegnato che il suo amico non arrossisce facilmente.
No, la verità non è questa.
La verità è che non capisce come comportarsi con questa versione così umana di Lance, perciò fa finta di non vedere.
È più facile, è indolore, ma soprattutto è qualcosa che sa fare molto bene.
Da piccolo non capiva quando suo padre gli leggeva una storia e saltava fuori l'espressione brillavano gli occhi.
Gli occhi, per quello che il bambino sapeva, non avevano la capacità di splendere al buio come una lampadina. Ma adesso lo sa cosa intendevano quei libriccini pieni di immagini colorate, perché lo vede.
Perché non è mai stato bravo con le persone ma Lance è un po' il suo modo di comprendere il mondo, perciò se grazie a Lance può capire gli altri allora potrà capire anche come comportarsi con lui.
Per adesso però continua a fingere di non vedere e riempie le guance di Pepsi, perché è più sicuro così, è più facile e fa meno paura.
Non ci sono molte cose che gli facciano paura come gliene fa il castano.
Il ragazzo davanti a lui fa una delle sue smorfie teatrali, prima di trovare il coraggio di guardarlo in faccia di nuovo.
«Mi ricordo del nostro momento di legame» ammette, piano e con incredibile timore.
Se il corvino non si fosse impegnato tanto a non vedere, forse avrebbe percepito arrivare questa frase, tuttavia la sorpresa di sentire quelle parole lasciare le labbra del cubano gli fece andare di traverso la bibita.
Ingoia il liquido fresco troppo velocemente e spalanca la bocca per cercare aria, mentre si abbandona in un eccesso di tosse e si aggrappa al bordo del tavolino.
Gli salgono le lacrime agli occhi e la sua faccia prende fuoco, facendo risultare il tutto più ridicolo di quanto non sia perché, Dio, anche mentre sta morendo soffocato Keith sente di essere veramente molto, molto arrabbiato.
Lo sa di essere emotivamente miope, okay, lui lo sa. Sa di non essere in grado di riconoscere i sentimenti degli altri e che ha una terribile difficoltà anche con i propri, ma con la rabbia ha una certa familiarità.
È stato un bambino arrabbiato, un adolescente arrabbiato e ora potrebbe quasi dire di essere in procinto di diventare un uomo, che è pur sempre arrabbiato.
«Oddio, Keith, no, non morire» comincia subito Lance, coprendosi la bocca con le mani. «No puedo ir a la cárcel por matar al tipo que me gusta- Mamá me hará pedazos».
Il corvino finalmente riesce a calmarsi il suo respiro e sente che le guance continuano a rimanere dello stesso colore, ma per una ragione differente dallo scampato soffocamento.
Io lo sapevo che si ricordava, il bastardo, pensa stringendo i denti.
«Lance» ringhia, facendo smettere il ragazzo di blaterare in spagnolo parole che lui non può capire.
Alza gli occhi su di lui e c'è un lungo istante in cui le iridi blu mare del castano sono l'unica cosa che riesce a vedere, mentre sente che quello trattiene timorosamente il respiro. «Ora ti faccio del male».
E c'è un altro interminabile secondo in cui le labbra di Lance si schiudono in un sorriso di sorpresa e di scusa, ma l'attimo dopo è già sfrecciato via dal suo posto, correndo per la sua salvezza.
Keith si sente veramente tanto arrabbiato, ma anche stranamente felice.
E se una persona caritatevole darebbe a Lance qualche secondo di vantaggio, lui si lancia subito all'inseguimento, fantasticando sul momento in cui gliela farà pagare per quell'ultimo anno d'inferno.
Lance
A volte mi chiedevo come sarebbe stata la fine della mia vita, in che eroiche circostanze me ne sarei andato lasciando Hunk e mia madre in lacrime, che in realtà potrebbero essere anche la stessa persona, e devo ammettere che tempo prima Keith era in cima alla lista delle mie possibili cause di morte.
Ma mentre correvo lungo il marciapiede saettando tra i passanti inseguito dal corvino che bramava il mio sangue, mi chiesi se era veramente quella la fine che meritavo.
Andiamo, credevo che per il mio ultimo respiro sarei stato vestito meglio.
«Scusi, signora-» dissi, aggirando un'anziana con in mano le borse della spesa senza nemmeno guardarmi indietro, perché l'ultima volta che avevo controllato Keith era molto più veloce di me e non volevo certo dargli un'occasione per recuperare terreno.
Mi precipitai lungo le scale che portavano al passaggio sotterraneo per arrivare al marciapiede dall'altra parte della strada, afferrando disperatamente lo scorrimano per recuperare l'equilibrio.
Dall'altra parte della strada c'era il parco, sì, potevo nascondermi in una giostra per i bambini e aspettare che il ragazzo si calmasse, in modo da affrontarlo quando avesse sbollito un po' la rabbia.
Superai correndo tutte le persone che mi stavano davanti ed in breve percorsi il tratto sotterraneo, raggiungendo gli scalini che mi avrebbero riportato in superficie.
Appoggiandomi alla parete cercai di riprendere fiato, perché probabilmente avevo attraversato di corsa due isolati interi e non ero più abituato a questo genere di cose. Mi domandai dove fosse finita la mia formidabile resistenza, ora che mi serviva.
Lanciai uno sguardo dietro di me, per debolezza immagino, e riconobbi quello stupido taglio vecchio stile appartenente a colui che mi avrebbe presto tolto la vita. Con un salto feci i primi due scalini e corsi su per la rampa, riemergendo alla luce del Sole e cercando con lo sguardo i cancelli del parco, mia unica speranza di salvezza.
Dopo aver esistato una frazione di secondo mi precipitai verso quel barlume di speranza, certo che una volta raggiunto il sentiero di ghiaia e polvere all'interno della recinzione sarei stato fuori pericolo.
Tuttavia una volta che le mie scarpe furono a contatto con i sassolini fastidiosi guardai di nuovo alle mie spalle, vedendo Keith in tutta la sua indomabile figura.
«Lance!» ringhiò, fermandosi nello stesso momento in cui lo feci io.
Mi lasciai scappare un gridolino poco virile e mi lanciai in un altro scatto, l'ultimo che la mia milza e i miei polmoni potessero sopportare.
Superai una panchina, una coppia di mamme con i loro figli ed un gruppetto di anziani che mi lanciò un'occhiata irritata, mentre le giostre per i bambini si facevano sempre più vicine, ovvero il punto centrale del parco.
Feci appena in tempo a posare un piede sull'erba ricoperta di foglie secche prima che una massa dall'incredibile velocità piombasse sulla mia schiena, aggrappandosi a me e facendomi ruzzolare a terra.
Riuscii a girarmi giusto per non cadere di faccia e Keith crollò con me, entrambi esausti e con il respiro corto.
Percepivo l'erba fredda sotto la mia felpa, perché ovviamente non mi aveva dato il tempo di prendere il giubbino, il pazzo omicida, e venni percorso da un brivido lungo la schiena.
Strinsi le palpebre per riprendere fiato e quando le riaprii vidi il viso di Keith sospeso sopra il mio, incorniciato dagli spettinati capelli neri.
Aveva le guance arrossate per lo sforzo ed ansimava a bocca semiaperta, piegata in quello che pareva un ghigno di sfida.
«Ho-» tentò di dire, deglutendo a fatica. «Ho vinto io».
Aveva ancora le sopracciglia aggrottate come se fosse seriamente arrabbiato con me, ma non riuscivo a capire come dovessi comportarmi, non quando la visione di lui in quelle condizioni mi metteva in seria difficoltà.
Sentii che le mie orecchie si scaldavano in modo innaturale ed avvicinai i palmi aperti vicino alla mia faccia, perché potesse vederli.
«Okay, hai vinto» gli concessi in un soffio, cercando di non abbassare lo sguardo sulle sue labbra. «Mi arrendo».
Keith sospirò e si coricò al mio fianco sull'erba, dandomi un calcio nello stinco che effettivamente potevo anche meritare.
«Ti odio» disse, piano, spingendomi a voltare il capo verso di lui.
Stava fissando il cielo grigio sopra di noi ed il sorriso che prima gli increspava il volto era scomparso.
Si mordeva il labbro con irritazione e tamburellava piano le dita contro il proprio petto, fermandosi quando ricambiò il mio sguardo girando la testa verso di me. «Perché hai detto che non ti ricordavi?»
«Perché sono un codardo» risposi di getto, pentendomene subito dopo.
Avrei voluto che non lo sapesse, avrei voluto che non capisse quanto ero vigliacco. Ma era anche vero che mentire a lui aveva sempre fatto un po' più male di quanto fossi abituato a sopportare.
Keith rimase in silenzio aspettando che elaborassi la frase, che gli dessi una spiegazione che lo soddisfasse in qualche modo.
Non c'era una spiegazione soddisfacente, però, e lo sapevamo entrambi.
«Quando mi sono svegliato credevo fosse stato semplicemente un sogno molto vivido, dovuto dai farmaci e dal mio senso di colpa per... non so, avervi mentito per tutto quel tempo, forse» ammisi, sfiorandomi il ponte del naso con i polpastrelli. «Quindi mi sono vergognato tantissimo perché, sì, mio fratello ha sempre detto che sognare qualcosa che non si può avere è da stupidi e chi sono io per contestare la saggezza di Marco? È sposato e ha dei figli, quindi un po' di sale in zucca probabilmente ce l'ha».
Il corvino fece la faccia, quella che serviva ad esprimere un muto queste sono tutte stronzate.
Deglutii distogliendo lo sguardo dal suo, perché almeno così sarebbe stato un po' più facile ammettere tutto quello che c'era da ammettere.
«Poi tu hai tirato fuori quella storia e, come posso dire, mi sono spaventato a morte perché non sapevo quanto avessi detto o fatto in quella mia specie di allucinazione da morfina fosse accaduto anche nella realtà. Quindi ho scelto la strada più facile e ho negato. E no, non puoi fare quella faccia, perché lo so che io cerco sempre la strada più facile e non puoi venirmi a dire che tu saresti facile» feci, senza nemmeno doverlo guardare immaginando la sua espressione. «Più il tempo passava e più avevo questa sensazione che fosse stato tutto terribilmente reale. Passavano i mesi e io continuavo a dirmi che era stata una fortuna poter fingere che non fosse successo niente, perché così tu avresti avuto quello che ti meritavi e non... Questo».
«Questo cosa?» chiese piano Keith, rabbrividendo nel freddo di novembre.
«Sai, non è che c'è bisogno di esplicitarlo. Io non sono tutto questo che, non sarei mai nemmeno lontanamente alla tua altezza anche se ci provassi. Ma con questo intendo-». Mi bloccai inumidendomi il labbro superiore e facendo una smorfia al cielo, che cominciava a riempirsi di nuvole scure. «Intendo quello che faccio. Intendo che per lavoro non potrei esserti fedele neanche se volessi. Senza contare che è pericoloso e stressante e- Non meriti questo. Forse io sì ma tu, tu no».
Ci fu una lunga pausa dopo le mie ultime parole, durante la quale cominciò ad avviarsi come un vento leggermente più pungente, che mi spinse a stringermi tra le braccia.
Avevo lasciato anche il mio telefono nella tasca del giubbino e potevo solo sperare che Luxia fosse così disponibile come sembrava anche nel tenere d'occhio la nostra roba.
Sentii la spalla di Keith entrare in contatto con la mia, facendomi capire che si era avvicinato a me.
«Sei un'idiota» borbottò a mezza voce. «Mi hai fatto passare un anno intero a chiedermi come riuscire a farti capire quello che mi prendeva e invece tu-».
Si strofinò con esasperazione gli occhi, probabilmente l'unica alternativa a vendicarsi di nuovo sul mio stinco. «Tu hai sempre saputo che mi piacevi e non hai detto niente?»
Mi lasciai scappare una risata e mi voltai verso di lui, che invece pareva sinceramente offeso.
«Io non sapevo di piacerti» gli feci notare, sorridendogli. «Non me l'hai mai detto».
«Lance, porca troia» mi interruppe e, wow, la finezza. «Ti ho baciato».
Arricciai le labbra perché no, non avrei lasciato che si prendesse il merito di questo. «Io ti ho baciato».
«Sì, ma io te l'ho permesso» osservò, aggrottando le sopracciglia scure.
Alzai gli occhi al cielo perché, va bene, se voleva convincersi di essere stato chiaro che lo facesse pure.
Tanto alla fine avevo ragione io.
Appoggiai un pollice sul mio labbro inferiore, chiedendomi se non fosse il caso di tornare al locale e riprendere le nostre giacche, prima che si mettesse a piovere.
«Perché mi hai detto queste cose?Avresti potuto continuare a fare finta di niente» mi disse, prima di arrossire e scuotere la testa contro l'erba. «Non che- Non che mi dispiaccia che tu me l'abbia detto, solo... Perché?»
Trattenni il respiro per qualche istante e mi permisi di guardarlo negli occhi come non avrei fatto se fosse stato un po' più vicino al mio livello, se non fosse stato così irraggiungibile.
È per questo che ci permettiamo di fissare le stelle, perché sono così lontane e ci appaiono così straordinarie che ci sentiamo come se fossero da ammirare e contemplare.
E se Keith fosse stato un po' più diverso da una stella forse non sarei riuscito a contemplarlo. Sapere di non poterlo avere aveva i suoi vantaggi, dopotutto.
«Perché mi piaci più di prima e la cosa va peggiorando» confessai, la voce ridotta a un sussurro nella speranza che non mi sentisse. «E perché pensavo che dovessi sapere che certe volte, certe volte vorrei davvero tanto fare alcune cose che avrebbero significati diversi che se fossero fatte da Hunk. E che quando non riesci nemmeno a toccarmi fa male in un modo diverso che se non ci riuscisse Pidge» proseguii, con lo stesso volume, osservandolo mentre pendeva dalle mie labbra. «E perché forse se sarai tu a mandarmi via, allora riuscirò a mettermi in testa che non può esistere niente».
Keith strinse lentamente le labbra in modo che a avrebbe dovuto esprimere pensosità, credo, ma che era solamente ridicolo e vanificava la serietà con cui cercavo di parlargli.
«Io non voglio mandarti via» mi rivelò. «Voglio riuscire a toccarti».
Le sue parole trafissero il mio petto con incredibile vigore, sprigionando una sensazione di calore davvero troppo intensa per poterla sopportare. Stavo per morire?
O era solo che quella mi pareva una cosa troppo importante detta da lui perché potesse essere rivolta a me?
«È una grandissima- okay, no, tu hai detto una cosa stupenda e io mi sento un po' morire, lo so, ma quello che vuoi fare è una grandissima cazzata» mi sentii in dovere di intervenire, parlando troppo veloce e balbettando nel processo.
Solo lui riusciva a farmi perdere la capacità di parlare normalmente ed era una cosa che odiavo.
«Lo sai come passo gran parte delle mie giornate e lo sai con chi. Non puoi passarci sopra e basta, non- oh mio Dio. Perché non può piacerti una persona fantastica e perfetta come Hunk?» dissi infine, sul punto di avere un crollo nervoso.
Keith non era il genere di persona al quale avrei augurato di finire con una prostituta, perché no, non era divertente.
Decine di persone si sarebbero messe in mezzo settimanalmente e ci sarebbe sempre stato un livello piuttosto alto nello starmi vicino, livello di pericolo che comunque non era inesistente anche solo essendomi amico.
«Hunk è troppo per chiunque, credo» osservò, chiudendo gli occhi. «E comunque è questo il fatto. È come stai parlando. È il modo in cui le orecchie ti diventano rosse ed il modo in cui ammorbidisci il sorriso. Queste cose le fai solo con me e lo so perché passo parecchio tempo a osservare queste stronzate» continuò, appoggiando la guancia sul dorso della mano.
«E sapere che ti faccio questo effetto mi fa sentire stranissimo. Ma strano in senso buono. Capisci cosa intendo?»
Allargai un po' gli occhi, perché decisamente non era da lui aprirsi così tanto e parlare esplicitamente di cose simili. «Per niente».
«Non è importante. Il punto è che mi piaci, Lance. E se me lo permetti, vorrei continuare a piacerti anche io» disse, nascondendo la faccia dietro alle dita, arrossendo visibilmente.
Keith era emotivamente miope in modo imbarazzante e per nulla abituato a gestire i propri sentimenti, ma anche in quel momento, mentre aveva utilizzato tutte le sue forze per dire qualcosa che a una persona normale non sarebbe sembrato niente, era comunque più coraggioso di me.
Sapeva che cosa voleva e quello che voleva ero io.
Era un idiota, non c'è altra spiegazione.
«Okay» mormorai quindi, facendogli scoprire gli occhi. «Va bene. Ma se te ne penti, promettimi che penserai a te stesso».
«Non me ne pentirò» asserì, costringendomi ad aggrottare le sopracciglia per il fastidio.
«Non ti sopporto quando fai così» replicai, tirandomi a sedere, anche se stavo sorridendo senza pudore. «Forse sarebbe meglio tornare al locale prima che si metta a piovere».
Il ragazzo si strinse nelle spalle e mi imitò, così entrambi ci alzammo in piedi e ci dirigemmo verso i cancelli da dove eravamo entrati, sotto gli sguardi di alcuni passanti che tornavano a casa prima che il cielo lasciasse cadere delle bombe d'acqua.
Mi resi conto che in realtà avevamo fatto del casino e basta, senza risolvere nulla e senza riuscire a dire qualcosa di senso compiuto.
Ma andava bene così, perché se non fossimo stati assurdi allora non saremmo stati noi.
In più, in realtà qualcosa era stato detto: voleva riuscire a toccarmi.
«Keith» lo chiamai, mentre camminavamo fianco a fianco. «Posso...?»
Non conclusi la frase e gli mostrai la mia mano, con il palmo rivolto verso l'alto in una domanda muta.
Percepii il suo sguardo indagatorio su di essa e dopo qualche secondo di esitazione la prese, stringendola nella sua decisamente più calda.
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