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[4] Seashore

Lance

Rachel era di pessimo umore quella mattina, ma ehi, anche io ero di pessimo umore perciò non è che avesse da sentirsi tanto speciale.
Io ero di pessimo umore per motivazioni del tutto comprensibili: la mia gemella era rimasta a dormire da me, in un luogo tutto tranne che sicuro quando volevo solo che non si cacciasse nei guai, i nostri fratelli, nostra madre e Diego mi avevano riempito la testa con i loro strilli attraverso la cornetta del telefono e come se non bastasse ora Keith Kogane era arrabbiato con me.
Non ne capivo il motivo sinceramente, che gli avevo fatto di male? Era veramente offeso perché lo avevo costretto a intrattenere mia sorella?
Beh, che il signorino si mettesse il cuore in pace, perché se quella era la sua reazione non gli avrei più chiesto favori.
«Non ci voglio venire, okay?» brontolò Rachel dal sedile accanto al mio. «Perché semplicemente non mi hai lasciata in appartamento?»

«Forse perché non mi fido a lasciarti da sola da nessuna parte, pesadilla que no eres nada mas» le sibilai contro, rivolgendo un sorriso luminoso a un'anziana che ci squadrava sospettosa.
Mia sorella incrociò le braccia al petto ed incatenò lo sguardo fuori dal finestrino, decidendo di utilizzare contro di me il trattamento del silenzio.
Nemmeno io ero estremamente felice all'idea di dover prendere l'autobus così presto al mattino, ma l'appuntamento era fissato dal mese prima ed avevo veramente bisogno di entrare in quel maledetto ufficio.
Non sapevo se fossi più irritato dal comportamento di Rachel o da quello di Keith.
Intendo dire.
No.
Insomma.
Non ci si comporta così. Non poteva scegliere semplicemente di abbracciarmi per primo di punto in bianco, cosa che non aveva mai fatto, per poi sottrarsi a ogni possibile contatto come se stesse sfuggendo alla peste.
Non aveva mandato alcun messaggio per essere certo che Rachel fosse sotto controllo o che io stessi bene, al che mi era venuto da pensare che fossimo ritornati alla nostra solita routine, mio malgrado.
Ed era vero che ero sempre stato io a fare di tutto per riuscire a sfiorare il corvino, ma lui non si era mai allontanato così come se... Come se lo stessi ferendo.

«Quanto durerà la seduta?» mugugnò la ragazza quando il mezzo rallentò raggiungendo la nostra fermata.
Mi alzai dal sedile seguito da mia sorella e mi avviai verso le porte dell'autobus, che si aprirono con uno sbuffo.
«Okay, senti, tu non hai il diritto di essere arrabbiata. Sono io qui che sono arrabbiato. Quell'incoscente della mia gemella ha combinato di nuovo chissà cosa e ora me la devo portare dietro finché non arriverà Vera» le dissi, allungando il passo verso l'enorme infrastruttura che era il palazzo davanti a noi.
La sede principale delle Altea Industries era rivestita esternamente di vetro per la sua quasi totalità, senza contare ciò che invece era fatto in materiali bianchi ed azzurri che davano luce propria al grattacielo.
Sentii un versetto stizzito provenire da lei. «Scusami? Se sono così tanto un peso, allora- woah».

Non serviva un indovino per capire che gli occhi celesti della mia sorellina si erano finalmente posati sulla nostra meta, la cui presenza faceva rimanere quasi sempre tutti senza parole. Coran lo chiamava affettuosamente il Castello, in quanto era stata la casa ed il regno dei genitori di Allura prima che mancassero a causa del loro incidente d'auto.
«Non importa, non importa nemmeno se salterò un giorno intero in pedriatria» si corresse frettolosamente, a bocca semiaperta. «Voglio assolutamente entrare lì dentro».
Le rivolsi un sorrisetto di lato e le feci strada, conscio che forse avrei trovato la momentanea soluzione al mio problema.

La dottoressa Skye non era una di quelle persone che pressavano affinché tu ti aprissi con loro, più che altro perché non aveva bisogno di ricorrere a quei mezzi per scoprire quello che le serviva.
Mordeva lentamente la gomma da masticare intrattenendosi con il computer, i capelli indomabili raccolti un uno chignon che stava per cedere e con un paio di biro infilate sopra l'orecchio, per nulla influenzata dal mio insolito silenzio.
Per quanto il suo modo di fare fosse poco ortodosso e professionale, Allison Skye poteva entrarti nella testa in pochi minuti, solo che evitava di usare i suoi superpoteri per consentire ai pazienti di migliorare con i propri sforzi.
«Lance, sono passati dodici minuti senza che tu abbia aperto bocca» mi fece notare, dopo aver fatto una bolla con il chewing-gum. «Devo immaginare che tu sia riuscito a riavere una vita normale in questo mese di lontananza da me?»

Scossi piano la testa mortificato, come se la stessi in qualche modo deludendo. Tenni lo sguardo basso sulle mie Adidas di terza mano, facendo dondolare i miei piedi avanti e indietro.
Sentii la donna sospirare ed alzarsi dalla sua poltrona, stiracchiandosi una volta in piedi e guardando fuori dalla finestra del suo ufficio.
«Va bene, sai cosa? Ci facciamo qualcosa da bere ed io ti rivolgo qualche domanda» mi suggerì, con uno dei suoi sorrisi caldi. «Però dovrai darmi almeno una risposta monosillabica, perché altrimenti alla fine dell'ora mi pagherai per nulla».
Non aspettò la mia risposta e mi fece cenno di andarmi a sedere sul divano in mezzo alla stanza, e che stanza. Allison lavorava per la famiglia Altea sin da quando Alfor era ancora vivo, così quando i medici hanno detto ad Allura di procurare sia per lei che per noi un sostegno psicologico in modo da poter gestire la sua malattia, alla terapista di fiducia era stato offerto un ruolo fondamentale per il nostro percorso emotivo.

Erano passati venti minuti da quando io e Rachel avevamo varcato le porte girevoli dell'ingresso ed eravamo stati indirizzati verso il quindicesimo piano, nel cui corridoio avevo trovato la mia ancora di salvezza seduta sulle sedie della sala d'aspetto.
Pidge non era di certo la più mattiniera di noi, ma preferiva avere appuntamenti con la dottoressa molto presto per non dover interagire con gli altri pazienti durante l'attesa. Così ero riuscito a strappare alla mia reticente migliore amica la promessa che avrebbe tenuto d'occhio mia sorella durante la mia seduta.
«Succo di ribes, giusto?» domandò la Skye, aprendo il minifrigo accanto al muro.
Sorrisi alla sua smorfia disgustata mentre mi allungava la bevanda, per nulla intenzionata a fingere che le piacesse quanto piaceva a me. «Grazie, Doc».
Si lasciò cadere priva di alcuna grazia sul divanetto di ecopelle bianca, facendomi segno di imitarla su quello di fronte a lei.
Con la cannuccia infilzò il cartoncino del suo succo alla pesca e ne bevve avidamente il contenuto, senza finirlo.

«Non può giudicare i miei ribes mentre beve un concentrato di acqua e zucchero» le feci notare, ricevendo un'occhiataccia.
Mi puntò il brick contro con fare di accusa. «No, mi rifiuto di affrontare di nuovo questa discussione. Tu e Keith avete torto, io ho ragione. È nell'ordine naturale delle cose».
Al sentire il nome del corvino feci una smorfia di disappunto, espressione che se anche avessi provato a reprimere alla dottoressa non sarebbe di certo sfuggita.
«Finalmente qualcosa su cui possiamo lavorare!» esclamò teatralmente, alzando le braccia al cielo. «Che succede con Kogane?»
Strinsi le labbra in preda al fastidio e rimasi in silenzio per qualche secondo in più, per poi bere un lungo sorso di succo di ribes e poggiarlo con forza sul tavolino di vetro (ovviamente sul sottobicchiere, altrimenti la donna delle pulizie ci avrebbe uccisi).

«Non succede niente con Kogane. Proprio nulla, niente di niente. A quanto pare è più facile odiarmi che interagire con me come una persona normale» sbottai, coricandomi sul divanetto per non mettermi a urlare. «Ieri Ciel è scappata di casa, Vera mi ha chiamato praticamente subito- lo sa che tipo di persona è Rachel. E lo sa che tipo di persona sono io, quindi può immaginare come...»
Mi si spezzò la voce, ridicolmente, perché tutto ciò era successo il giorno prima ed avrei dovuto affrontarlo con più dignità di così. Avevo più di vent'anni, cazzo, non avrei dovuto comportarmi in quel modo.
Coprii i miei occhi con la mano, solo per fingere di potermi calmare un secondo.

«Ero veramente preoccupato. Ho chiamato Hunk, Hunk era con Pidge, Hunk e Pidge mi hanno detto di chiamare Keith, ho chiamato Keith. E lui è corso subito da me, senza aspettare un secondo» aggiunsi scandendo ogni parola e lasciando cadere la mia mano accanto al divanetto. «Odio questa cosa. Odio che- Ugh». Strinsi le labbra con forza fissando il soffitto alto. «È corso da me perché gli importa di me? A quanto pare non lo saprò mai, perché lui correrebbe da chiunque abbia bisogno senza nessuna esitazione».
Sento il rumore delle sue scarpe da ginnastica contro il parquet, segno che sta pestando a terra ritmicamente pensosa. Non che gli costi molta concentrazione capire cosa pensano le persone, ma ha la decenza di fingersi perplessa nell'analizzare i suoi pazienti.
«Hai paura che attraverso i suoi occhi tu appaia come una persona qualunque» riassunse, esplicitando i miei pensieri. «Temi di non essere importante per lui».

Avrei tanto voluto che la sua espressione fosse meno impenetrabile, in modo che almeno potessi capire se il corvino le avesse detto qualcosa a riguardo, tuttavia Allison era brava a mantenere i segreti.
Mi sarei accontentato anche se avesse avuto capacità di comprendermi più mediocri, in modo che così non avremmo dovuto parlare di questo argomento imbarazzante.
Le rivolsi uno sguardo giusto per vedere qual'era la sua reazione alle mie parole, ma come al solito non riuscii a cogliere nulla dalla sua faccia.
«È stupido, lo so. Me l'ha detto che siamo amici, e dato che non ne ha molti dovrò pur contare qualcosa» borbottai, sospirando. «Ma, beh, lo sa».
La Skye piegò la testa di lato dopo aver preso un sorso di succo. «Certo che lo so. Il problema, Lance, è che lui non ne ha idea».
«Questa seduta si sta trasformando in un confessionale tra ragazzine quindicenni» osservai, mettendomi a sedere. «Cosa dovrei fare? Andare da lui e dire Hey Keithy, per te è okay se vorrei che fossimo più che amici?»
La dottoressa strinse la cannuccia tra i denti e mi rivolse un sorrisetto dei suoi. «Vuoi veramente che te lo dica?»

Scossi la testa, mettendomi a sedere. «Madre de Dios, mi sento davvero un quindicenne. Dovrei anche invitarlo al ballo scolastico?»
La donna mi lanciò contro il cartoncino vuoto del succo di frutta, al che le rivolsi una linguaccia indignata.
Quella unì con un sospiro le mani davanti a sé e si sporse verso di me, con fare partecipe.
«Lance» mi chiamò, con la stesso tono che avrebbe usato mia madre. «È passato più di un anno da quando ci siamo conosciuti ed hai fatto tanti progressi. Tutti e cinque avete fatto grandi progressi, ma non vuol dire che puoi fermarti ed accontentarti così. Abbiamo stabilito che più segreti hai e più tendi a farti del male».
«È solo una cotta, Doc, posso gestirla» la interruppi, incrociando le braccia al petto.
La donna mi fulminò con lo sguardo, facendomi ammutolire.
«Non importa quanto è grave il segreto, rimane comunque tale. Non è compito mio spingere un ventenne a chiedere di uscire al suo amichetto, francamente non potrebbe importarmi di meno delle vostre vite sentimentali» precisò. «Tuttavia siete così fragili, Lance. Se non avessi confessato loro il tipo di lavoro che sei costretto a fare saresti impazzito. E se non mi avessi parlato dei problemi nella tua famiglia saresti esploso» proseguì, ammorbidendo la voce come se stesse cercando di confortarmi. «Non ti fa bene avere dei segreti, perché ti spinge a reprimere tutto. E non vogliamo che succeda come l'altra volta».

Scossi nuovamente la testa, stavolta con più decisione. Non avrei potuto sopportare di attraversare ancora quel periodo.
«Molto bene. Visto che avete un esame domani, potresti aspettare e chiedergli di uscire, un giorno, no?» mi suggerì con dolcezza.
Distolsi lo sguardo e non risposi, giusto per avvalorare la sua tesi: reprimere tutto mi veniva decisamente più facile.
«Passiamo ora a parlare di Allura, ti va?» mi chiese, incrociando le gambe. «Prendi la penna e scrivi».

Keith

«Keith, calmati».
E Keith si ferma effettivamente, smette di percorrere a grandi passi il salotto dell'appartamento e smette anche di gesticolare.
Ma lo sguardo che rivolge ad Allura la fa sentire in pericolo, e questo lui lo capisce dalla sua espressione.
«Col cazzo» ringhia, stringendo i pugni. «Come faccio a calmarmi quando lui- Come ha potuto farmi questo? Come ha potuto fargli questo?»
Vorrebbe tanto colpire qualcosa, vorrebbe disperatamente colpire qualcosa ma non c'è nulla che resisterebbe alla sua rabbia. E deve uscire da lì, lo sa benissimo, prima che Allura gli si avvicini troppo.
«Keith» prova a ripetere con dolcezza pur mantenendo la voce ferma, cosa che gli ricorda vagamente Shiro. Ciò fa aumentare la sua collera e stringe di più i pugni, per imporsi di stare fermo. «Lo sai che le persone non possono stare per sempre ancorate al passato, non è giusto».
«Perché è giusto dimenticare e sostituire una persona come se nulla fosse?» replica.

Anzi, no, grida. Perché lo sa che sta gridando, lo sa bene, ma non riesce a calmarsi, non riesce a spegnere tutta questa rabbia.
Tra le dita della sua mano sinistra c'è ancora il biglietto di carta bianca e oro che lo ha fatto esplodere, così lo strappa cercando di farlo sparire.
«Dovevano sposarsi e Shiro è scappato» continuò, in preda all'astio e al rancore. «Ci ha lasciati soli ed è andato via per quasi un anno, scomparendo dalle nostre vite. Poi ha chiamato Adam -lo ha chiamato per telefono, il bastardo- e gli ha detto che gli dispiaceva, che se lo amava ancora sarebbe tornato a casa e gli avrebbe fatto di nuovo la proposta».
Non è odio, non lo è, Keith ne è sicuro. Non odia suo fratello, odia solo quello che gli ha fatto. Quello che ha fatto a tutta la sua famiglia.
«Ovviamente Adam l'ha perdonato ed anche io l'ho fatto, perché non saremmo riusciti a sopravvivere senza di lui per tutta la vita» urla, con le lacrime agli occhi. «E mentre andavamo a prenderlo in aeroporto c'è stato l'incidente. Adam non c'è più e lui si sente in diritto di sostituirlo con qualcun'altro».

Non vuole odiare Shiro, non può permettersi di farlo perché ha già sperimentato cosa si prova nel provare una cosa simile per il proprio fratello. Ha cominciato a bere per colpa sua, ha fatto cose orribili per colpa di quel sentimento, e si è promesso che non si sarebbe più lasciato andare.
Ma Curtis non può non essere il suo capro espiatorio.
«Keith, lo so che ti manca e sono sicura che manca anche a Shiro. Ma sono passati sei anni da quel giorno» gli dice Allura alzandosi dal divano e torcendosi le dita. «Tuo fratello sta solo cercando di andare avanti ed è più che giusto cercare di farlo».
«Da quando il tempo diminuisce l'importanza delle persone?» le grida contro, perché lei dovrebbe stare dalla sua parte. «Chi cazzo è Curtis per prendere il suo posto?»

La ragazza fa un passo verso di lui e Keith arretra di conseguenza, consapevole della brutta piega che potrebbe prendere la situazione se lei si avvicinasse troppo. Ha bisogno di bere.
Ha bisogno di bere, ha bisogno di bere, ha bisogno di bere.
«Nessuno può prendere il posto delle persone che vengono a mancare, è ovvio. Da quando i miei genitori sono morti Coran non è mai arrivato a sostituirli, ma ormai l'affetto che provo per lui è lo stesso che sentivo per loro» prova a dire. «Ed è questo che sta facendo Shiro...»
Il corvino le dà le spalle ed a grandi passi raggiunge la sua giacca appesa all'attaccapanni.
«Non provare a paragonare la tua vita perfetta con la mia, Allura» ringhia a denti stretti.
Sente la ragazza fare un verso indignato e sa già di averla fatta montare di collera in pochi istanti. Sono sempre stati loro due le teste calde del gruppo.
«Vita perfetta?» quasi strillò, perdendo la calma che cercava di mantenere per lui. «Porca puttana, Keith, ho il cancro».

«Oh ti prego, non giocare la carta del vittimismo con me» le ride in faccia, aspramente. «Mia madre ci ha abbandonato quando avevo sei anni e mio padre è morto l'anno dopo» sbotta, afferrando la giacca con una mano. «Sono stato messo in una comunità educativa dove tutti mi odiavano, a sedici anni è morto il fidanzato di mio fratello». Sta piangendo, lo sa, ma sa anche che riesce a far paura quando fa così e non si ferma, non ci riesce. «Sono innamorato di un ragazzo che non posso avere perché fa la prostituta, cazzo, non riesco nemmeno a toccarlo senza pensare a tutte quelle persone che lo hanno fatto prima di me» continua, fissandola in quei terrorizzati occhi celesti. «E come se non bastasse la mia migliore amica sta letteralmente morendo davanti ai miei occhi, senza che io possa farci niente». Si infila bruscamente le maniche della giacca e si strofina le guance con le mani. «Perciò congratulazioni, hai avuto diciotto anni interi da passare con i tuoi genitori, un ragazzo modello al tuo fianco e nessuno dei tuoi amici si sta consumando per poi finire a lasciarti sola».

Prende le chiavi dalla tasca e tira su con il naso, aprendo la porta dell'appartamento.
La voce di Allura trema quando gli parla e Keith sa di averla ferita più di quanto meritasse. «Keith, ti prego...»
«Vaffanculo» risponde prima di sbattersi la porta alle spalle.
Ha bisogno di bere, ha bisogno di bere, ha bisogno di bere.

Rachel

Non sono sicura di quello che sto facendo, ma d'altronde non è che lo sia mai stata.
Dovrei uccidere mio fratello, dovrei sotterrarlo sotto dieci metri di terra e se lo meriterebbe per avermi ignorato, e poi sgridato, e poi costretto a parlare con una psicologa per poi ignorarmi di nuovo.
L'unico pregio di questa giornata è che ho conosciuto il più grande dei fratelli Holt, gli stessi che ora sono seduti sulle sedie del corridoio ad aspettarmi.
Il che in realtà non è esattamente meraviglioso perché l'ho conosciuto solamente questa mattina e credo di amarlo perdutamente. Sto esagerando le mie sensazioni, vero?
«Ehi Rach, pronta a ingozzarti di schifezze?» mi domanda Matt, senza sollevare lo sguardo dal telefono su cui sta picchiando furiosamente le dita.
Storco la bocca, piacevolmente a mio agio nella nuova sensazione di leggerezza. «Rach?»

Lo so benissimo che è merito della tutt'altro che dolce signora Skye, tuttavia non l'ammetterò mai a mio fratello.
«Beh, volevo darti un soprannome» spiega sovrastando il rumore di una piccola esplosione virtuale, sollevando persino una gamba mentre piega il telefono di lato. «Beccati i miei laser, Peanut».
«Smettila di illuderti che vincerai, perché questa bomba ha appena fatto esplodere le tue navicelle» replica la sorella, avvicinandosi allo schermo con la faccia. «E comunque ti capisco Rachel, mio fratello fa schifo a dare i soprannomi».
Matt le rivolge un sorrisetto. «Così schifo che quello che ti ho dato dieci anni fa lo spacci come se fosse il tuo nome vero».
La sorella gli rivolge una sequela di imprecazioni decisamente non necessarie, così decido di avvicinarmi a loro per poter avere un pranzo decente.

«Il mio unico soprannome è stato Ciel, per cui avete il diritto di inventarne un altro» li informo con una smorfia, stringendomi nella felpa morbida di mio fratello.
Pidge molla un pugno sul braccio di Matt quando quello esulta per la vittoria e, wow, amo questo nerd che ho appena incontrato.
«Ciel?» domanda Pidge, mettendo il telefono in tasca ed infilandosi nel parka verde militare.
Sorrido distrattamente, giocherellando con la tracolla della borsa. «Lance da piccolo non riusciva a pronunciare il mio nome, così diceva solo l'ultima sillaba con una leggera inflessione cubana».
I due si scambiano un sorrisetto che solo loro sanno cosa significa, facendomi pensare che non è affatto carino escludere la propria futura moglie con silenzi segreti. Complimenti Matt, credevo che fossi un gentiluomo.

«Bene, andiamo ad avvelenare i nostri corpi prima che Shiro percepisca le nostre intenzioni e ci fermi» dice Matt, alzandosi ed appoggiandosi a me, mettendo un braccio attorno alle mie spalle. «KFC o McDonald's?»
Alzo un sopracciglio maliziosamente ed appoggio una mano sul mio fianco. «Mi porti fuori a mangiare e mi fai persino scegliere dove? Se volevi un appuntamento bastava chiedere».
Pidge ride con un adorabile grugnito alla fine, il che non pensavo fosse possibile.
«Wow, quindi il bisogno patologico di Lance di flirtare con chiunque è questione di genetica» constata divertita.
«Credi che questo sia il meglio che so fare?» le chiedo, prima di voltarmi verso suo fratello. «Tu sei un pilota di aerei, vero? Questo spiega perché quando ti guardo mi manca la terra sotto i piedi».

Matt arrossisce e sbatte un paio di volte le palpebre, guardandomi stupito. «Sono di nuovo attratto da un McClain e non so come gestire la cosa».
La castana accanto a me ride una seconda volta, mentre tutto questo mi fa sentire incredibilmente bene. Mi amano già, lo so, non sarà difficile convincere lui a sposarmi e lei ad accettarmi come cognata.
Aspetta, penso spalancando gli occhi.
Che significa attratto da un McClain di nuovo?

Lance

Non mi era mai piaciuto studiare, nemmeno alle superiori e soprattutto non alle elementari, quando essendomi appena trasferito da Veradero non ero molto pratico con l'inglese.
Mi piaceva il risultato finale però, ovvero il puro e semplice fatto di sapere, e per questo a mezzogiorno di domenica mattina, mentre mia sorella era stata rapita dagli Holt in seguito a una seduta con la mia psicologa, io ero chino sul libro di biochimica.
Studiare un mattone simile non era qualcosa in cui potevo riuscire, ma gli appunti di Hunk erano leggendari: in quei pochi corsi che avevamo in comune erano sempre i suoi schemi ed i suoi elenchi puntati a salvarmi negli esami.
Per quanto riguarda Pidge, beh, lei non prendeva mai appunti, bastava che stesse attenta a lezione per sapere ogni cosa sull'argomento, al contrario di Keith che invece era quel tipo di studente in grado di fare tutto all'ultimo e superare la sessione, studiandosi anche un volume di seicento pagine in un giorno.
Per questo motivo mi preoccupai quando arrivò la telefonata di Allura.

«Lance, Keith è uscito di casa un'ora fa e non è ancora tornato, ma abbiamo litigato di brutto» mi aveva detto, con un forte senso di colpa nella voce. «Ho paura che beva e si cacci nei guai, però non posso fare niente per aiutarlo».
Avevo annuito alla pagina 437 del libro come se avessi la ragazza davanti, inumidendomi il labbro inferiore. «Perché non hai chiamato Shiro?»
Le scappò un sospiro affranto, facendomi capire che il loro litigio era stato veramente orribile.
Il carattere prepotente di entrambi li spingeva a battibeccare spesso, ma solitamente la ragazza non ne usciva mai così scossa. «È a causa del suo matrimonio che Keith è sconvolto, non era pronto a lasciar andare Adam».

Ed è per questo che, mezz'ora dopo, ero davanti al secondo bar della lista di locali in cui mi aveva suggerito di controllare, sbuffando prima di aprire la porta e venire investito da una puzza di fumo e alcool.
Al rumore della campanella alcuni clienti si voltarono verso di me per inquadrarmi, ma i miei occhi erano già puntati su una terribile capigliatura anni '80 appartenente a un ragazzo seduto al bancone.
O meglio, a un ragazzo coricato sul bancone.
Avanzai a grandi passi verso di lui con un unico pensiero in testa, uno solo.
Ti prego, fa che non sia ubriaco, pensavo, perché non poteva permettersi di ricadere di nuovo nella dipendenza.
Non poteva lasciarsi andare quando così tante persone avevano bisogno di lui, era egoista.

«Hey, Cowboy» lo chiamai una volta di fianco allo sgabello su cui sedeva, cercando di intravedere anche parte del viso nascosto tra le sue braccia.
Un borbottio indistinto fu l'unica risposta che ottenni, al che mi sedetti accanto a lui e studiai con disgusto la serie di bicchieri vuoti sul bancone.
«Alzati e sorridi, splendore» gli dissi di nuovo, spingendogli appena una spalla. «Sono qui per portarti a casa».
Il ragazzo voltò la testa verso di me, abbastanza per lasciarmi scorgere le sue guance arrossate e gli occhi lucidi. «Vaffanculo, io a casa non ci torno».
«È un peccato, allora, perché ti porterò fuori di peso se serve» replicai, piegando la bocca in un sorriso.

Mi osservò in silenzio per qualche secondo, con i capelli neri che gli sfioravano le guance ed il suo labbro inferiore tra i denti, mentre gli occhi screziati di viola mi chiedevano disperatamente aiuto.
«Vai via, Lance» mugugnò, facendo a fatica nel mettere insieme una frase di senso compiuto. «Non voglio...»
Sospirai alzando gli occhi al cielo. «Non vuoi tornare a casa, ho capito».
Scosse la testa piano, contro le maniche della sua giacca di pelle. «No, non è... Non voglio fare del male anche a te. Vai via».
Mi irrigidii istantaneamente, squadrandolo sospettoso. «Hai messo le mani addosso ad Allura?»
Lui alzò la testa di scatto, guardandomi pieno di rammarico.
«No, no! Non potrei mai, sono uscito perché-» provò a dire, ma gli occhi gli si riempirono di lacrime e la voce si spezzò, impedendogli di concludere la frase. «Non lo farei mai. Ma non voglio andare a casa, Lance, ti prego».

Ricominciai a respirare, sollevato, e mi strofinai una mano contro la fronte.
«Non ti porto a casa, okay?» gli proposi, mentre una lacrima gli scivolava sulla guancia. «Però vieni via con me, senza discutere».
Prima che potessi fermarmi la mia mano era sul suo volto, premurandosi di raccogliere quel rivolo di tristezza solitario sulla sua pelle.
Inaspettatamente il ragazzo si appoggiò alle mie dita, rilassandosi. «Okay».
Lasciai dei soldi sul bancone e lo aiutai ad alzarsi, dato che non stava in piedi, per poi dirigermi all'esterno di quel locale ringraziando il cielo che non fosse capitato in alcuna rissa.
Passai un braccio attorno alla sua vita e lo strinsi a me, cercando di non farlo cadere, mentre un soffio di vento mi faceva respirare il suo profumo soffocato dall'odore di vodka alla menta. Com'è che quel ragazzo era fissato con la menta?
«La-ance» cantilenò, aggrappandosi con le dita al mio giaccone. «Dove mi stai portando?»
Con la mano libera chiamai un taxi, serrando di più la presa su di lui prima che scivolasse. «Ti porto al mio appartamento, così puoi dormire un po'».
Una volta che l'auto arrivò, feci scivolare il ragazzo al suo interno, sedendomici di fianco subito dopo.
Diedi rapide indicazioni all'autista e quello partì immediatamente, prima che il corvino gli vomitasse sui tappetini della macchina.

Dopo quasi un minuto sentii la sua testa appoggiarsi alla mia spalla, mentre con le sue braccia si aggrappava al mio.
«La-ance» fece di nuovo, con la voce leggermente più impastata. «Oggi devi lavorare?»
Girai il capo verso di lui, inarcando un sopracciglio e pregando che non dicesse nulla di compromettente su di me davanti a un completo sconosciuto. «No, oggi non devo vedere nessuno».
Il corvino ridacchiò abbracciando saldamente il mio braccio e riaprendo gli occhi, per poi puntarmeli contro e confondermi veramente, ma veramente tanto.
«Quindi sarai tutto per me?» domandò, innocentemente.
Gli coprii la faccia con una mano, girando la mia nuovamente verso la strada per non dargli la possibilità di vedere che ero arrossito. Da quando arrossisco? «Sei strano quando sei ubriaco».
Rimanemmo in silenzio per il resto del viaggio, ovviamente sotto la costante osservazione dell'autista diffidente e preoccupato per i suoi tappetini.

Una volta davanti al mio condominio lo pagai con gli ultimi spiccioli che avevo in tasca e trascinai per le braccia il ragazzo mezzo assopito, facendolo uscire e conducendolo all'ascensore.
«Non svenire, okay?» lo ammonii quando lo vidi barcollare.
«Non sto svenendo» mi rispose, burbero, sembrando tuttavia molto attratto dall'idea.
Le porte si chiusero alle mie spalle e sospirai, perché finalmente Keith non era in pericolo per strada ma poteva essere in pericolo a casa mia.
Realizzai quello che avevo fatto.
Cazzo, pensai, portandomi una mano sul volto, ma che cosa mi è saltato in mente?
Quella era la settimana del pagamento, non era improbabile che un gruppo di energumeni armati illegalmente entrassero nel mio appartamento durante la giornata. Perché il mio cervello non si ricordava di particolari importanti come questo quando servivano?
Tenevo in piedi Keith in modo precario, così lo scossi appena per cercare una sua reazione.

Keith mugugnò in risposta dando segno di cedimento e proprio quando stavo per andare nel panico lui si sbilanciò verso di me, circondandomi il collo con le braccia e salendomi in braccio, impresa che non solo era stupefacente perché continuava a tenere gli occhi chiusi ma che mi costò anche una vertebra della spina dorsale, non preparata all'idea di dover sostenere il suo peso.
Strinsi i denti barcollando e gli misi le mani sotto le cosce per non farlo cadere, dandogli evidentemente l'impressione di essere anche solo vagamente stabile perché, invece di svegliarsi avvertendo il senso di pericolo, affondò la faccia nel mio collo.
Per qualche momento rimasi in piedi nel bel mezzo della cabina con Kitty Keith cercando di mantenere l'equilibrio e soprattutto di mantenerlo addormentato, visto che aveva preso a borbottare spaventato contro la mia pelle, mentre meditavo su quanto fosse ingiusta la mia vita.

Tutti mi trattavano sempre con sufficienza o come se fossi un tenero animaletto che però non può mai fare nulla di utile, eppure ero sempre io quello che si trovava in situazioni come quella, perché non era affatto la prima volta che mi capitava: cercando di aiutare gli altri senza che loro se ne accorgessero sono riuscito a compiere imprese molto più che eroiche (imprese delle quali non mi va molto di parlare, dato che spesso c'era di mezzo la bava di Hunk, il sudore di Coran ed i capelli crespi di Allura).
Le porte dell'ascensore si aprirono e, una volta accertatomi che non sarei stramazzato a terra percorrendo la distanza che mi separava dal mio appartamento, compii i primi passi, che mi costarono un'altra mezza vertebra. 
Tutto questo tempo a dargli del gatto, pensai, invece scopro che Keith è un fottuto Koala.
Sentii le sue sopracciglia che si aggrottavano e un brivido che lo percorreva, spingendomi a domandarmi cosa stesse pensando.

Con l'agilità che avevo appreso e che sapevo mi sarebbe tornata utile, aprii la porta di casa lanciando poi le chiavi al suo interno e chiudendola alle mie spalle con un piede, mentre respiravo aria filtrata direttamente dai capelli del corvino.
Le sue braccia mi strinsero più forte e tremò di nuovo, di puro e semplice terrore, preoccupando persino me.
«Devi scendere Samurai, forza» gli sussurrai, accarezzandogli la schiena per svegliarlo.
«No» borbottò contro il mio collo, facendomi sentire il suo fiato freddo contro la mia pelle. «Sei morbido».
«Saresti morbido anche tu se ti fossi messo un giaccone al posto del tuo stupido giubbino di pelle» sbuffai camminando fino alla mia stanza, prima di metterlo a terra contro la sua volontà.

Con un lamento si lasciò cadere all'indietro sul mio letto a braccia aperte, scrutandomi con i suoi occhi scuri mentre mi toglievo il giubbino e le scarpe.
«Lance» mi chiamò, senza alcuna cantilena nella voce. «Resta».
Alzai un sopracciglio guardandolo stranito togliersi le scarpe con i piedi. «È il mio appartamento, non me ne vado da nessuna parte».
«Intendo qui» disse, chiudendo gli occhi non appena il suo rossore si ravvivò. «Dormi con me».
Anche se sentivo tutto il sangue che avevo in corpo salirmi fino alle guance, avevo già la risposta pronta, chiara e semplice.
No.
Non mi piaceva condividere il mio letto con le persone, e non ci vuole molto a capire il perché.
Anche in quel momento, nonostante il ragazzo mi stesse rivolgendo gli occhi screziati di viola e qualcosa che assomigliava a un broncio.
Mi passai la mano tra i capelli e mi schiarii la voce, guardando da un'altra parte per riuscire a fingere di non essere ipnotizzato da quella visione.
Perché, diciamocelo chiaro, Keith era una visione.

«Non sei tu quello a cui non piace essere toccato?» osservai, portando l'attenzione sul suo comportamento piuttosto che sul mio. «Al tuo risveglio mi punteresti un coltello alla gola».
Si mise a sedere e mi osservò di sbieco con le testa a ciondoloni, strofinandosi la faccia con i palmi delle mani. «No, io... Lance-».
Non riusciva nemmeno a formulare una frase intera e così feci un passo indietro, leggermente ferito dal suo comportamento. Avevo già passato la mia dose di tempo con quel genere di Keith e sapevo che non mi piaceva per niente.
Prima che potessi allontanarmi ulteriormente allungò una mano verso di me, afferrandomi il polso, facendomi male.

Non fraintendetemi, non è che fosse la forza con cui aveva stretto le dita attorno alla mia pelle che mi aveva fatto male, quanto piuttosto il fatto che ero troppo abituato a essere trascinato di forza tra quelle lenzuola. Solo che non mi aspettavo che il corvino si trovasse a fare lo stesso, un giorno.
Mi voltai verso di lui lentamente ed incrociai il suo viso disperato. «Mi dispiace».
Aggrottai le sopracciglia perché di sicuro non era quello che mi aspettavo di sentire. «Scusa?»
Non abbassò lo sguardo nemmeno per un secondo, anche se le sue dita tremavano. Scosse la testa, come per scacciare un pensiero doloroso.
«Mi dispiace, mi sto comportando-» si interrompe a metà della frase e si morde il labbro inferiore. «Non sono pronto a lasciar perdere».
Lo dirò sinceramente, non ero per nulla sicuro di quello di cui stava parlando, ma avevo la sensazione che si trattasse del matrimonio di Shiro.
Quella mattina avevo trovato l'invito nella cassetta delle lettere e così era capitato anche agli altri, come al fratellino adottivo dello sposo che ora sembrava così disorientato.

«Forse lo odio» borbottò, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. «Non voglio odiarlo, Lance, non voglio».
Senza che potessi fare altro mi sedetti di fianco a lui e gli posai una mano sul capo, consentendogli di appoggiare la fronte sulla mia spalla.
Keith non era il tipo di persona che piange a singhiozzi, il suo pareva quasi il pianto silenzioso di qualcuno che non vuole farsi sentire.
«Non lo odi. Ci sono solo troppe emozioni confuse in quella tua testolina che di solito di emozioni non ne prova affatto» gli dissi, piano. «Dopotutto è tuo fratello: per quanto possa farti impazzire non riuscirai a smettere di volergli bene».
Forse un po' stavo parlando anche di me e Rachel, è vero, ma non mi ci focalizzai troppo.
Piuttosto rimasi stupito nel cambiamento delle mie intenzioni riguardo allo stargli vicino su quel materasso. Improvvisamente mi sembrava giusto che fossi lì, che fossi accanto a Keith dovunque lui si trovasse. Il pensiero mi spaventò a morte? Oh sì, decisamente.

«Puoi rimanere con me?» chiese di nuovo, debolmente. «Per favore».
Non ero sicuro di quello che stava succedendo, ma una cosa era certa: non sarei riuscito a negargli nulla nemmeno se avessi voluto.
Lo aiutai a togliersi il giubbotto ed a infilarsi sotto le coperte, coricandomi accanto a lui subito dopo.
Il ragazzo avvicinò il suo corpo al mio e mi circondò con le braccia, posando la testa contro il mio petto e strofinando una guancia contro la mia maglietta. «Sei caldo».

Ero immobile come un pezzo di legno e di certo a un passo dall'andare a fuoco, ogni suo movimento che scatenava dei brividi sulla mia pelle.
Così si addormentò senza aggiungere altro, mentre io mi permettevo di rilassarmi e attorcigliare i suoi capelli attorno alle mie dita. E di certo non mi sarei addormentato anche io, se Rachel non mi avesse tenuto sveglio tutta la notte con il suo russare.
Quindi, Rachel, se stai leggendo questa cosa sappi che è tutta colpa tua.

Keith

Keith si sveglia con un fortissimo mal di testa ed un terribile senso di nausea, al che cerca di ricordare dove si trovi perché da quello che ricorda le sue lenzuola non hanno mai profumato di ammorbidente al lime.
Sente un paio di braccia attorno alla sua vita ed improvvisamente si allarma perché, cazzo, se è andato a letto con uno sconosciuto da ubriaco Shiro lo ucciderà ed Allura dovrà attendere il suo turno.
Lentamente studia il colore familiare della pelle di queste e si gira, fino a riuscire a inquadrare il viso sereno di Lance, che lo tiene stretto nel sonno in un abbraccio a cucchiaino.
Oh porca troia, pensa e, davvero, forse dovrebbe modificare il suo linguaggio.
D'un tratto ricorda quello che è successo ed è vagamente sollevato, subito prima di realizzare tutto quello che ha detto al cubano.

Spera che il ragazzo si svegli quanto più tardi possibile, perché non è sicuro di come affrontare le conseguenze delle sue azioni, però una vertigine improvvisa lo fa scattare in piedi, gesto che probabilmente non lascerà Lance nel sonno.
Il corvino si lancia verso il bagno e riesce ad arrivare appena in tempo alla tazza prima che una cosa che sicuramente non è arcobaleno fuoriesca dal suo corpo.
Mentre è aggrappato al water sente una mano sulla sua fronte e l'altra sul suo fianco, al che si lascia andare in un altro conato prima di riuscire a riprendere a respirare affannosamente.
«Ben svegliato, Samurai» lo saluta il ragazzo che lo ha sostenuto, aiutandolo a mettersi seduto e passandogli un fazzoletto.
Keith distoglie lo sguardo mentre si pulisce la bocca, imbarazzato. «Che risveglio di merda».
«Dovresti essere più propositivo nella tua vita» gli disse, rivolgendogli un sorriso. «C'è uno spazzolino nuovo nel cassetto, io sono in cucina se vuoi».

Così il castano sparisce in modo incredibilmente rapido, lasciando Keith a fissare i cassetto che gli è stato indicato.
Che casino, pensa, strofinandosi gli occhi con le mani a pugno.
Prende lo spazzolino ancora impacchettato ed apre il rubinetto dell'acqua, facendola scorrere e sciacquandosi la faccia un paio di volte prima di lavarsi i denti.
Non gli mancava per niente il dopo sbornia, era riuscito a smettere di bere perché si era concentrato a lungo sugli effetti che questo poteva avere su di lui. E invece eccolo lì, nel bagno di uno dei suoi migliori amici a sputare nel lavandino.
Una volta finito si dirige trascinando i piedi in cucina, dove il cubano sta armeggiando con il microonde e dei piatti.
Keith si siede al tavolo ed ignora il proprio mal di testa per ascoltare Lance cantare stonando ogni nota My hips don't lie, canzone che probabilmente ha il solo scopo di irritarlo.

«Senti» dice il corvino, con voce rauca. «So che ascolti i Depeche Mode».
Il ragazzo si volta indignato e gli punta contro il cartone di succo d'arancia che ha appena preso dal frigorifero. «È stata quella stronzetta, vero?»
L'altro alza un angolo delle labbra, debolmente.
Il microonde emette un suono che attira l'attenzione di Lance e quello si volta verso l'elettrodomestico, tirandone fuori quattro waffle fumanti, la cui vista spinge Keith a cercare un orologio con lo sguardo.
«Sono quasi le due del pomeriggio, Lance» gli fa notare mentre si avvicina porgendogli il piatto.
Il cubano lo liquida con un gesto della mano. «Amico mio, lo sanno tutti che non c'è un orario sbagliato per i waffle».

Keith lo osserva allungare la mano verso il ketchup e spremerlo sulla propria porzione, proprio davanti agli occhi dello stesso ragazzo che vorrebbe dare di corpo di nuovo.
Lance si siede con nonchalance e prende un morso di quell'orrore senza nemmeno degnare l'altro di uno sguardo.
«Tu sei sbagliato» gli dice il corvino con una smorfia di disgusto.
«Disse il ragazzo che affrontò il fidanzamento del fratello con l'alcool» replica, rivolgendogli un sorriso a bocca piena.
Il più grande sente l'urgenza di distogliere lo sguardo, ma non lascerà vincere l'altro in questa sfida che nessuno ha lanciato. Senza staccare gli occhi assottigliati con fare intimidatorio da quelli del castano, allunga una mano verso il waffle caldo e se lo porta alle labbra.
Purtroppo anche solo la sensazione di cibo sulla sua lingua scatena una spiacevole reazione all'interno del suo stomaco, che lo spinge a spostare il piatto in avanti e piegare la faccia in una smorfia disgustata.

«Pensavo avessi una resistenza maggiore al disgusto, dopotutto continui a ripetere che non avrei una chance contro di te da questo punto di vista» lo prende in giro Lance, caritatevolmente a bocca chiusa.
Keith gli lancia uno sguardo di fuoco ed afferra il bicchiere pieno di succo d'arancia.
«Infatti non avresti una possibilità, normalmente» replica, seccamente. «Io e Acxa mangiavamo la terra da bambini».
Il cubano si lascia andare in una risatina di scherno e dalle sue labbra parte un pezzo di waffle, che si va a schiantare sul tavolo. Lo stomaco del corvino si contorce per il disgusto e si chiede se l'altro lo stia facendo apposta.
«Marco e Veronica preparavano intrugli con le piante del giardino ed io e Rachel facevamo a gara nel berli più velocemente» dice, piegando la testa e guardandolo come se fosse intenerito dal suo tentativo.
Keith alza gli occhi al cielo ed abbandona la conversazione, cercando nelle tasche dei pantaloni il telefono che miracolosamente riesce a trovare.

Mentre controlla le notifiche delle decine di chiamate da Shiro e Allura, sente senza difficoltà gli occhi di Lance incollati su di lui.
Alza le sopracciglia e gli rivolge un'occhiata infastidita. «Che c'è?»
«Sto aspettando» risponde quello, dando un altro morso al suo waffle profanato.
Keith è confuso ma va bene, dopotutto è in pieno dopo sbornia e non è che pretendesse chissà cosa.
«Che cosa?» domanda. «Che ti ringrazi?»
«Sarebbe un ottimo inizio, effettivamente, ma no» precisa, pulendosi le mani in un pezzo di carta. «Sto aspettando che ti scusi».
Se non fosse distratto dalle lentiggini quasi sbiadite sul naso del castano, il ragazzo dagli occhi scuri probabilmente sarebbe estremamente infastidito e finirebbe con lo scappare da quell'appartamento prima che la conversazione possa proseguire.
Ma il punto è che non ha mai notato le lentiggini sul naso di Lance, perché non ho mai notato le sue lentiggini?
«Per aver bevuto?» dice con cautela, mettendosi sulla difensiva.

«Sì, anche per quello» sbotta il ragazzo, improvvisamente arrabbiato.
Si porta le braccia incrociate al petto e, Dio, Keith si sta già irritando senza che nemmeno sia iniziato il litigio che aleggia nell'aria.
Odia quel suo fare melodrammatico e infantile, quel suo costante incrociare le braccia e piantare il muso come se fosse un moccioso.
«E per cosa altro dovrei scusarmi?» sibila, stringendo le dita attorno al bicchiere. «Ignorando il fatto che quanto e quando io beva non sono affari tuoi».
Gli occhi azzurri di Lance lo osservano con indignazione. «Avevi promesso!»
«Beh, le promesse vengono infrante a volte, benvenuto nel mondo reale» ringhia il ragazzo. «Puoi smettere di comportarti come un bambino per cinque secondi?»

«Io mi sto comportando come un bambino?»
Una delle differenze tra Keith e Lance è anche il loro modo di gestire la rabbia. Solitamente il primo esplode e viene travolto dal sentimento senza riuscire a pensare a quello che fa, mentre il secondo tende a reprimerlo e a schiacciarlo finché non si trasforma in qualcosa di più doloroso, ma innocuo.
E invece in questo momento il cubano si è alzato in piedi ed ha colpito il tavolo con una mano aperta, gesto che ovviamente non spaventa l'altro ma riesce a sorprenderlo.
«Sei tu quello che è andato a ubriacarsi perché l'idea che suo fratello si sposi gli ha fatto male» lo accusa, allargando leggermente gli occhi.
Keith si spinge indietro con la sedia e si alza, voltando il capo da un'altra parte. «Non voglio parlarne».

Lance rimane senza parole per un secondo e poi si lascia andare in una specie di lamento, mettendosi le mani nei capelli.
«Beh, non è più una tua scelta!» esclama, senza essere degnato di uno sguardo. «Tu mi hai lasciato scelta quando si è trattato di parlare di Rachel?»
Il corvino serra la mascella, per trattenersi dall'urlare. «Tu mi avevi chiesto aiuto, dovevo sapere cosa stava succedendo. Io non voglio l'aiuto di nessuno».
«Non me ne frega un cazzo, okay?» Lance non è il tipo di persona che si comporta così, lo sa Lance stesso e lo sa anche Keith, che si domanda perché gli importi così tanto. «Questa discussione proseguirà fino a che non ti sarai scusato».

«Mi dispiace!» urla allora il più grande, afferrandosi la maglia con la mano e guardando l'altro negli occhi.
Non l'avesse mai fatto.
Una volta che le iridi color mare incontrano le sue, sente gli occhi riempirsi di lacrime di rabbia, rancore e senso di colpa.
«Mi dispiace se non ho mai imparato a gestire le mie emozioni in modo sano, mi dispiace se qualsiasi cosa faccia ferisco qualcuno» continua e le lacrime non scendono, grazie a Dio. «Mi dispiace se ho bevuto, cazzo, mi dispiace che sia stata l'unica cosa che riuscivo a fare».
D'un tratto il viso abbronzato del cubano si adombra ed aggrotta appena le sopracciglia, solo di poco.
«Non parlavo di questo».
Keith sente che sta per impazzire, che quel ragazzo lo sta facendo impazzire. «E allora di cosa? Quale altro madornale errore ho commesso che ti ha ferito, Lance?»

Lo capisce nel momento esatto in cui ha terminato la frase, perché si accorge della distanza tra lui ed il più alto.
Vede come i suoi occhi azzurri sono puntati su di lui come se lo stessero accusando e come si spostano rapidamente sui due metri che li separano.
Il corvino lo sa che cosa sta succedendo ed improvvisamente preferirebbe esserne all'oscuro.
È sempre stato un ragazzo con problemi a gestire la rabbia e diversi episodi tutt'altro che non violenti lo hanno evidenziato anche ai suoi amici, quindi Lance avrebbe tutto il diritto di allontanarsi fisicamente da lui ed avere paura.
Il vero problema, è che non è Lance ad essersi allontanato, perché Lance non è spaventato da lui. E Keith si accorge di aver fatto una cazzata.
«Vorrei che ti scusassi, Keith, per essere un ipocrita di merda» scandisce lentamente il cubano.
La rabbia del ragazzo svanisce e distende le spalle, prima leggermente incurvate con fare protettivo. «Lance...»
«Perché non puoi dire che quello che faccio non definisce chi sono, per poi comportarti come se starmi troppo vicino potesse contagiarti» lo interrompe, rimanendo immobile dove si trova come per voler esporre le prove di quello che diceva. «Se ti faccio schifo, dillo e basta».

Keith capisce di aver fatto una cazzata anche perché questa cosa a lui sembra terribilmente stupida. Vuole solo dire, se lui fosse stato al posto del cubano non si sarebbe nemmeno accorto di questo indietreggiare furtivo dell'altro, almeno fino a quando non sarebbe stato più evidente.
Detesta questo suo essere più emotivamente intelligente di lui, perché ogni volta Lance riesce a capire quello che prova anche se cerca di nasconderlo.
«Non è così, è solo...» prova a giustificarsi, piano. «Non voglio farti del male».
È difficile per lui parlarne, perché fino a qualche istante fa non aveva ben chiaro come dare un senso logico alle sue emozioni e non ha mai avuto il tempo di formulare un discorso nella sua mente prima d'ora.
Leggermente sorpreso Lance alza un sopracciglio. «Vedo che stai facendo un ottimo lavoro».
Il corvino lo incenerisce con lo sguardo. «Oh, non provare a fare finta di niente. Mi ricordo bene ogni cosa che ho fatto prima di addormentarmi, sai? E mi ricordo anche la tua faccia quando ti ho toccato».
A questo punto il cubano non ha nulla con cui obbiettare, perché entrambi non possono negare come lui si sia irrigidito e sentito a disagio in quell'istante.
«È diverso» ribatte piano, abbassando lo sguardo.
Al più grande scappa una risatina isterica, mentre scuote la testa. «Certo, come vuoi. Sta di fatto che ti ho fatto male solo sfiorandoti, pensa se...» si interrompe mordendosi il labbro inferiore e ahahah, Keith, chiudi quella cazzo di bocca. «Comunque mi dispiace. Per aver bevuto».

C'è qualche secondo di silenzio, prima che il castano sospiri e si passi una mano tra i capelli.
«Okay. Dispiace anche a me» risponde, rivolgendogli un sorriso morbido che irrazionalmente riesce a scaldargli il cuore. «Vuoi che chiami Allura per farti venire a prendere?»
Il ragazzo si sta dirigendo sul divano e ci si lascia cadere sopra con uno sbuffo esausto.
«Lascia stare, mando un messaggio ad Acxa» gli fa, prendendo il telefono dalla tasca mentre il cubano accende la televisione.

Ti compro degli
spaghetti buonissimi
se vieni a prendermi
a casa di Lance”.

“Stronzo. Non usare
gli spaghetti contro
di me”.
Al-acxa

“Mandami la tua
posizione”.
Al-acxa

Una volta inviato l'indirizzo, il ragazzo si permette di osservare Lance senza doversi nascondere, mentre quello canticchia sottovoce la sigla di Miraculous tenendo gli occhi incollati allo schermo.
Vorrebbe tanto toccarlo, vorrebbe davvero farlo. Sfiorargli una guancia, accarezzargli una spalla, baciare ognuna delle lentiggini sul suo naso.
Sa solo che non può, ma non è sicuro se sia perché gli farebbe del male o perché ha paura di fargli del male.
Prende un respiro profondo e senza permettersi di esitare muove i primi passi, dirigendosi verso il divano.
Vede Lance guardarlo con la coda dell'occhio, così decide di non fermarsi fino a quando non si siede letteralmente accanto e lui, rubandogli il telecomando dalle mani.
«Ti proibisco di vedere questa roba mentre io sono qui» borbotta, cambiando canale.
Si è seduto veramente tanto vicino a lui e adesso le loro gambe si stanno toccando, sotto lo sguardo del cubano che le soppesa con un sorriso compiaciuto sul volto.
Keith è innamorato di un idiota e lo sa perfettamente, ma d'altra parte non è questo il punto. Il punto è che sono molto vicini e Lance sta sorridendo per questo.
Istintivamente, continuando a guardare lo schermo del televisore, Keith fa lo stesso.

Rachel

You're talkin' to me like a child
Hey I've got news, I'm not a little girl
And no I won't give you a little twirl
You're talkin' to me like I'm sad
Hey I've got news, I'm not doin' too bad
Even though sometimes I might get real mad
You're talkin' to me like a child

È da un po' che sono qua fuori, ma non potevo entrare mentre si urlavano contro.

But my words are growin' stronger
And my legs keep gettin' longer

Si urlavano contro talmente forte, sembravano quasi mamma e papà quando eravamo piccoli.

I'm like nobody else, so you can just go fuck yourself
I do a lot of stupid stuff but don't act like you're so tough

Con l'unica differenza, certo, che mamma urlava contro a papà perché voleva sfogarsi per l'inferno che le faceva passare e papà replicava con tutto l'odio che provava per noi.

You're talkin' to me like I'm dumb

Well I've got news, I've got a lot to say
There's nothing you can do to take that away
You're talkin' to me like I'm hurt
At least I'm not six feet in the dirt
And I'll still kick your ass even in my skirt

Papà non la voleva una famiglia. Mia madre è rimasta in cinta di Marco a diciassette anni e da allora il signor Serrano si era adattato alla situazione egregiamente, senza dare sospetti. Hanno avuto altri figli, io e Lance gli ultimi della covata, ma tutti sapevano che lui la tradiva.
La tradiva con chiunque, stava via di casa per giorni, si ubriacava e non aveva riguardo per i soldi che servivano a tutta la famiglia.

You're talkin' to me like a child
But I'm not a helpless baby
Not waitin' on you to come save me

Lance invece sembrava davvero preoccupato per Keith e Keith sembrava davvero dispiaciuto di aver ferito Lance.
Li sento battibeccare da dietro la porta, le voci provenienti dal divano vicino all'ingresso che mi fanno capire che sono seduti vicini.

I'm like nobody else, so you can just go fuck yourself
I do a lot of stupid stuff but don't act like you're so tough
Fight fire with fire and you'll get burned
Hey I think right about now is your turn
Earplugs won't save you anymore
They'll leave you washed up on the seashore

Mi stringo le ginocchia al petto, sedendomi con la schiena contro la porta. Mi sono sentita in colpa per tutta la vita, perché non ero riuscita a salvare mamma dall'umiliazione ed i miei fratelli dal dolore.

You're talkin' to me like a bitch
Do you ever hear the way that you speak?
Don't have to be so mean just 'cause you're weak

La dottoressa Skye era stata sorprendentemente utile però, anche se non l'avrei mai ammesso.
Perché non è colpa mia, però l'ho realizzato solo questa mattina.
E non mi devo sentire in colpa perché voglio fare quello che ritengo giusto, perché voglio andarmene di casa e essere libera.
Non mi devo sentire in colpa perché voglio essere forte.

I'm like nobody else, so you can just go fuck yourself
I do a lot of stupid stuff but don't act like you're so tough

Ed anche se Veronica arriverà tra poco pronta a darmi fuoco con lo sguardo, fa lo stesso. Perché avrà anche ragione, ma finalmente non mi sento più in colpa.

Mix fire with fire and you'll get burned
Hey I think right about now is your turn
Earplugs won't save you anymore
They'll leave you washed up on the seashore

E mi sento ripulita, come se tutta la confusione che avevo dentro fossero parole scritte sul bagnasciuga e le onde le avessero cancellate.
Mi sento bene.







Pulsamte 1) scrivere capitoli corti ed aggiornare spesso, accelerando anche l'evoluzione della klance

Pulsante 2) scrivere capitoli infiniti, aggiungere particolari alle backstory, aggiungere fluff Klance e far evolvere personaggi secondari

Io: *comincia a saltare sul secondo pulsante*

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