[11] House of gold
Lotor
La guardo inarcando un sopracciglio, mentre sorseggio il mio cappuccino da dieci dollari.
Solitamente preferisco non entrare in luoghi come Starbucks, questo per varie ragioni: la qualità dei prodotti, la disponibilità dei dipendenti e il livello di pulizia dei locali.
Le grandi catene tendono a non dare eccessiva importanza a questi particolari, per cui ho pagato dieci dollari per quello che sicuramente non è latte mischiato a quello che sicuramente non è caffè, bevendolo in una sala rumorosa seduto su un divanetto non esattamente splendente.
Ma chi sono io per giudicare, quando c'è gente a cui effettivamente piace.
«È inutile che fai quella faccia, è tutto vero» replica con voce stridula Acxa, mentre sbatte il suo caffè sul tavolo.
Ovviamente lei ha preso il suo solito caffè, nero, senza zucchero.
Storco le labbra al solo pensiero del sapore che deve avere, anche se pure io mi sono rifiutato di mettere lo zucchero nella mia bevanda.
Più che altro perché ho paura che siano granelli di bioplastica dolcificata e non veramente zucchero.
«Quindi tu mi stai dicendo che Zarkon, il nostro tutt'altro che amabile padre, ha intrattenuto una piacevole chiacchierata con te mostrandoti affetto e rispetto, per poi chiederti di invitare a cena la ragazza con cui scopi- perdonami, con cui ti vedi da alcune settimane» riassumo, per mostrarle apertamente il mio punto di vista. «Come puoi aspettarti che non mi preoccupi di un suo secondo fine?».
Si scosta una ciocca di capelli dal volto e noto che non si è ancora rifatta la tinta viola, visto che la radice corvina sta cominciando a risorgere dalle sue ceneri.
«Il fatto che tu abbia così poca fede in lui è ciò che mi ha fatto riflettere sulla questione» dice, prendendo un sorso del caldo liquido scuro. «Il modo in cui lo abbiamo allontanato da noi, considerandolo incapace di essere un padre...».
«Non è mai stato un padre per noi!» sbotto.
«Non gliene abbiamo mai dato l'occasione!» sibila in risposta. «Io non gliene ho mai dato l'occasione! Sono cresciuta in comunità educativa senza avere una vaga idea di come fosse avere una famiglia e quando ho sentito la distanza che Zarkon prendeva da noi... Non ho pensato alla causa di questa, mi sono solo sentita ferita e ho risposto di conseguenza. I capelli, i piercing, il fumo, è nato tutto dal mio desiderio di andargli contro-».
La interrompo appoggiando definitivamente il mio cappuccino sul tavolo, dato che so che non riuscirò a berlo. «Per questo non ti stai tingendo i capelli. Vuoi provare a compiacerlo».
«No» mi corregge, terminando il suo caffè e mettendolo da parte. «Voglio provare ad andargli in contro. Voglio dargli la possibilità di essere il padre che poteva essere, voglio darmi la possibilità di avere un padre. Non capisci quanto questo possa significare per me?».
La guardo e vedo il lume della disperazione nei suoi occhi. Ha un disperato bisogno di credere nell'amore di Zarkon e non credo di essere in grado di privarla di questo.
Ho giurato, da quando è stata adottata, che non avrei permesso a mio padre di rovinare la sua vita come aveva quasi provato a rovinare la mia.
Io stesso, quando ancora credevo in una possibilità di ricevere qualcosa di vagamente simile all'affetto da lui, avevo fatto cose che avevano come unico scopo il rendermi amabile ai suoi occhi. Anche se questo poteva rendermi infelice.
Quando ho capito che nulla avrebbe funzionato, che per quanto mi impegnassi quel freddo cuore da dinosauro non si sarebbe mai aperto per me, ho lasciato perdere. Ho cominciato a vivere la mia vita, ambendo a diventare una persona migliore di quanto lui potesse mai essere.
E nel frattempo avevo trovato Ezor e Zethrid, avevo trovato Allura e Romelle, avevo trovato i Paladini di Voltron, anche se con loro avevo un rapporto a dir poco complicato.
Avrei voluto dire ad Acxa che Zarkon non meritava che lei cambiasse, che c'erano molti altri che l'amavano così com'era, ma sapevo che non sarebbe servito.
Doveva capirlo da sola, o nulla avrebbe avuto significato.
Da fratello e da amico, l'unica cosa che potevo fare era starle vicino e vegliare su di lei come mi ero promesso di fare.
«Va bene» cedetti, massaggiandomi un sopracciglio. «Faccio fatica a crederci, ma sono davvero felice per te».
E il modo in cui esita nel silenzio per poi sorridermi è il motivo per cui sono ancora qui.
Mi passo una mano tra i capelli e sospiro, rivolgendole a mia volta un sorriso. «E invece, per quanto riguarda la tua carriera giornalistica?».
Così comincia a parlare a vanvera come non farebbe mai, perché scrivere è l'unica cosa che la coinvolge come nient'altro sa fare ed io amo vedere il modo in cui questo riesca a farle illuminare gli occhi.
Shiro
Non eri sicuro se il fatto che Katie si fosse riavvicinata così rapidamente a te fosse un bene oppure no, sta di fatto che però è un sollievo per te non stare in attesa da solo, davanti all'aeroporto.
Curtis aveva ricevuto una chiamata urgente ed era volato in centrale, scusandosi mille volte nell'uscire di casa.
Lo sapevi anche tu che non avevi ragioni per prendertela con lui, dopotutto anche tu avevi tenuto conto del suo lavoro quando gli avevi chiesto di sposarti. Avevi messo in conto che certe volte avrebbe dovuto scappare da te e che alcuni vostri impegni sarebbero saltati, ma ci tenevi davvero tanto che ci fosse anche lui ad accogliere i tuoi genitori.
Anche Keith ti ha dato buca, troppo occupato con l'officina Marmora per degnarsi di informare personalmente la vostra famiglia che non ci sarebbe stato per la cena della Vigilia.
Non che voi festeggiaste il Natale, questo è certo, ma Curtis sì ed i vostri genitori volevano condividere la festa con lui.
Erano sempre stati molto disponibili verso di lui, anche se ovviamente tua madre si preoccupava che facesse un lavoro troppo pericoloso. Tuo padre, al contrario, proprio per la sua occupazione lo aveva preso estremamente in simpatia.
«Ohi» ti chiamò Pidge, sollevando gli occhi dal suo telefono. «Non essere così nervoso, sono i tuoi genitori».
Sussultasti e stringesti i denti, sorpreso.
Non ti eri accorto di essere nervoso perché logicamente non avresti dovuto esserlo.
«Non sono nervoso, i miei adorano Curtis» obbiettasti, più per convincere te stesso che lei.
La ragazza alzò gli occhi nocciola al cielo, spegnendo il telefono e infilandoselo nella tasca del parka.
«Di sicuro non è questo che ti preoccupa» osservò, infilandosi gli occhiali da sole. «E comunque non importa, stanno uscendo».
Rivolgesti lo sguardo alle porte scorrevoli dell'entrata e vedesti due figure estremamente familiari litigarsi silenziosamente delle borsine di carta colorata.
Alzasti una mano verso l'alto e facesti un largo sorriso, perché ti riconoscessero.
Gli occhi di tua madre si illuminarono quasi immediatamente, poiché dopotutto le mamme hanno un superpotere che permette loro di localizzare sempre i loro figli. La donna afferrò la manica di tuo padre e fece un cenno nella tua direzione con il capo, permettendo anche a lui di individuarti.
Con due sorrisi genuini i tuoi genitori si avvicinarono compostamente verso di te, anche se ancora si litigavano quelli che parevano regali di Natale, fino a fermarsi a un passo da voi.
Pidge li studiò con lo sguardo e tu immaginasti subito quello che poteva star pensando.
Non ci sono regali per me, sembrava dire la sua faccia.
«Mamma, papà, ben arrivati» dicesti, allungando una mano perché tua madre potesse porgerti la sua valigia.
«Siamo veramente felici di vederti, Takashi» rispose la donna, prendendoti le mani con le sue.
Tuo padre inarcò un sopracciglio e trasformò il suo sorriso in un ghigno divertito. «Già, tua madre non riusciva a calmarsi in aereo, al pensiero che ti avremmo rivisto dopo tanto tempo».
Tua madre gli lanciò un'occhiata di fuoco, che gli disintegrò la smorfia dalla faccia.
«Non capisco che c'è da vergognarsi se sono contenta di fare visita ai miei figli» obiettò, guardando poi Katie. «Ma dov'è tuo fratello? E perché non ci hai presentato questa bellissima ragazza?».
Ringraziasti che fino ad allora avevate parlato in giapponese, perché se Pidge avesse sentito il complimento probabilmente si sarebbe sentita a disagio.
Decidesti quindi di fare le presentazioni in inglese, per coinvolgerla nella conversazione.
«Mamma, papà, questa è Katherine Holt» dicesti, scostandoti perché si potessero guardare bene a vicenda.
Tua madre fu ovviamente la prima a sorriderle e a porgerle la mano, poiché aveva un debole per tutte le amiche le avevi mai presentato.
«È un piacere conoscerti Katherine, io sono Mitsua Shirogane» si presentò.
La giovane Holt ovviamente parve stordita all'inizio, ma poi le strinse la mano.
Era una tardoadolescente americana con tendenze all'asocialità, non era esattamente familiare con tutta quella faccenda del presentarsi educatamente.
Probabilmente aveva sempre ridotto tutto il processo a un borbottio del proprio nome e a un cenno del mento.
«Io invece sono Eijirou Shirogane. Ti stringerei la mano, ma» disse, indicando con lo sguardo le borse e le valigie che teneva.
«Nessun problema» replicò la castana, con un certo impaccio. «Il piacere è mio, comunque».
Le lanciasti un'occhiata di sbieco per capire come sarebbe riuscita a gestire il disagio che sentiva, per poi bloccarti immediatamente dal farlo.
Lo sapevi benissimo che Pidge aveva bisogno di uscire da quello stato di diffidenza e paura nei confronti del mondo, quindi sapevi anche che questa tua abitudine di proteggerla da ogni minuscolo inconveniente non l'avrebbe mai aiutata a liberarsi di quella condizione.
Perciò, per quanto ti risultasse difficile, dovevi trattenerti dal farle da scudo con il tuo corpo come se stesse affrontando la peggiore delle minacce e permetterle di farlo da sola.
«Keith ci raggiungerà per cena, oggi è rimasto in officina per aiutare Kolivan» spiegasti, ritraendo la mano dalla valigia di tua madre, che non ti avrebbe permesso di aiutarla nemmeno se ne fosse stato della sua vita. «Intanto noi possiamo andare a casa, Curtis tornerà tra qualche ora».
Tuo padre mantenne il tuo passo nel dirigersi alla macchina e fece un grande sospiro rassegnato ed intenerito.
«Tuo fratello non è mai riuscito a stare fermo un secondo, è quasi rassicurante il fatto che non sia cambiato per nulla» osservò, sorprendendoti leggermente. «E anche tu sei rimasto lo stesso, nonostante tutti i guai in cui ti sei cacciato. Spero che tu sappia che voi due siete la ragione di ogni nostro capello bianco».
Ridesti piano, perché da tuo padre non c'erano mai state parole d'affetto che non contenessero una critica, il che ti fece sentire improvvisamente sollevato.
Capivi il suo sentirsi così rassicurato nel sapere che alcune cose non cambiano mai.
Una volta caricate le valigie sull'auto ti fermasti davanti alla portiera del posto del guidatore e osservasti il viso corrucciato della giovane Holt.
La ragazza avrebbe di sicuro preferito tormentare il fratello per discutere di ciò che le avevate confessato in Minnesota, ma sfortunatamente per lei Matt aveva promesso che, dopo il turno alla Rebellion, avrebbe accompagnato Rachel in biblioteca a prendere i libri che la dottoressa Skye l'aveva incaricata di leggere.
Non che la cosa ti dispiacesse, dopotutto lei l'aveva capito: eri nervoso all'idea di incontrare i tuoi genitori.
La presenza di Katie al tuo fianco ti dava forza, in qualche modo.
«Mi aspettavo più, che ne so, espansività» ammise, quando la coppia si fu infilata nell'auto. «Voglio dire, non vedono i loro figli da un anno».
Per un attimo ti sentisti estremamente confuso, perché non vedevi dove fosse il punto. Poi capisti e ti lasciasti scappare un sorriso tenero.
«Sono fatti così, non darebbero mai dimostrazioni d'affetto in pubblico» rispondesti.
Lei si strinse nelle spalle ed entrò in macchina, apparentemente soddisfatta dalla breve spiegazione che le era stata data. Probabilmente essendo figlia di Sam e Calleen riusciva a capire cosa significasse avere dei genitori poco espansivi.
«Mi sono mancati, sai» dicesti, ma solo perché ormai non potevi più essere sentito.
«Gli sei mancato anche tu, Takashi» ti fece notare qualcuno.
Ormai non sussultavi nemmeno più quando sentivi improvvisamente la sua voce, anche se di sicuro non mancava di sorprenderti con le sue apparizioni.
Adam era fermo al tuo fianco, con le mani nelle tasche dei pantaloni beige e sguardo nostalgico, come se in realtà volesse dire che erano mancati a lui.
O forse che tu mancavi a lui.
Scuotesti la testa rapidamente cacciando quell'idea, perché era impossibile che tu mancassi a una proiezione del tuo inconscio.
Si lasciò andare in un lungo sospiro e voltò la testa verso di te.
«Devi stare attento a Katie, lo sai» ti disse, grattandosi il mento con il pollice. «Una volta che le avrete confermato che è per Zarkon che lavora Lance, non ci sarà più via di ritorno. È il suo migliore amico, ne parlerà con lui. E lui ne parlerà con Hunk e Keith. E tutte le persone che volevi proteggere da questa consapevolezza saranno invischiate tanto quanto tu e Matt».
Guardasti il ragazzo per qualche secondo negli occhi, diffidente come al solito. Ma poi decidesti che, vaffanculo, non avevi nulla da perderci.
Prendesti il cellulare dalla tasca e facesti segno ai tuoi genitori che dovevi rispondere, per poi portarlo al tuo orecchio e guardare l'apparizione senza il timore di essere giudicato pazzo.
«La stai sottovalutando, lo sai» replicasti. «Non è quel genere di ragazzina che ha un disperato bisogno di confidarsi con gli amici, questo ci è stato ampiamente dimostrato».
Adam inarcò un sopracciglio sorpreso e si appoggiò con la schiena dalla macchina. «Ma dai, quindi adesso mi parli?».
Allontanasti leggermente il telefono dalla faccia. «Posso sempre smettere, tranquillo».
Il castano alzò gli occhi al cielo e davvero, wow, estremamente maturo.
«Quello che sto dicendo è che lei è molto intelligente, Kashi, non perde di vista il punto focale della situazione. È ovvio che se tutti sapessero sarebbe meglio, non è con il silenzio e la remissione che si abbattono i criminali come lui» rettifica. «Per questo ne parlerà con Lance, per questo farà in modo che tutti e cinque lo sappiate, perché essere uniti è l'unica speranza che avete».
Lo osservasti per qualche istante, senza dire niente.
L'avevi sempre visto come era vestito il giorno in cui era morto, con la pelle più pallida e traslucida rispetto alla realtà, ma ora c'era qualcosa di diverso.
Gli abiti erano gli stessi, indossava lo stesso maglione verde bottiglia che gli aveva regalato Keith per il suo compleanno, la stessa camicia bianca che sbucava dalle maniche di questo, gli stessi pantaloni beige e le stesse scarpe con le rotelle sotto, che invece erano state un regalo tuo, una presa in giro.
Ma aveva una presenza più definita, meno ostile e più calda, rassicurante.
Non capivi il motivo di questo cambiamento, ma sorridesti.
«Mi stai citando» osservasti, giocosamente, perché era ciò che dicevi quando eravate solo tu, lui e Keith.
Essere uniti è l'unica speranza che abbiamo.
«È perché sono nella tua testa, non montarti troppo» sbuffò.
Ma stava specchiando il tuo sorriso.
Lance
Tutto il corpo mi doleva in modo spaventoso e nulla sembrava riuscire a darmi pace.
Rimasi fermo a osservare ogni ematoma emerso sulla mia pelle ancora un po', prima di spalmare la pomata sull'ultimo livido.
Da questo punto di vista, dal punto di vista del mio lavoro, preferivo di gran lunga le ragazze. Erano delicate e gentili, per quanto alcune avessero delle perversioni e delle manie che mi avevano fatto dubitare della mia già inesistente integrità, ma soprattutto spesso ricorrevano ai miei servizi in seguito a un evento che le aveva lasciate disperate. Difficilmente le donne diventavano clienti abituali, forse per questa loro ricerca di una versione migliore di loro stesse che in questo modo non avrebbero potuto trovare.
Mi ricordo che una volta ho fatto entrare una ragazza che era stata cacciata di casa dal fidanzato e voleva fare qualche follia, ma alla fine avevamo utilizzato l'ora da lei pagata per mangiare biscotti sul divano avvolti dalle coperte mentre le asciugavo le lacrime con dei tovaglioli di carta.
She asked me, "Son, when I grow old
Will you buy me a house of gold?
And when your father turns to stone
Will you take care of me?"
Si chiamava Emily ed aveva degli splendidi occhi color giada.
Un'altra volta ebbi come cliente una donna sui trent'anni, il tipo di donna in carriera che non ha tempo per i legami sentimentali ed ha solo occhi per il suo lavoro. Quella volta l'avevamo fatto eccome, e devo dire che mi era quasi piaciuto, ma non appena ebbi finito mi guardò come se fossi stato la causa di qualcosa di terribile.
Mi disse che avrebbe voluto tanto non averlo fatto perché si era ripromessa che non sarebbe mai stata all'ombra di un uomo e che venendo da me aveva cercato di barare, ignorando il suo giuramento.
Non si aprì di più a riguardo, ma capivo che era spaventata all'idea di perdere la sua libertà e la sua indipendenza, nonché il suo valore come persona. Non è un segreto che, purtroppo, quando una donna si sposa, spesso perde una parte di sé che la società non vedeva l'ora di strapparle via.
Si chiamava Anathema ed aveva un braccialetto di stoffa legato al polso.
She asked me, "Son, when I grow old
Will you buy me a house of gold?
And when your father turns to stone
Will you take care of me?"
Con questo non voglio dire che solo le donne sono provviste di una sfera emozionale complessa, la prova che non sarebbe vero è Aaron, che è in grado di parlare per ore e ore di sentimenti repressi e paure nascoste.
Ma le donne hanno qualcosa di bello che gli uomini non hanno.
In un momento di intimità, non ti farebbero mai del male.
Gli uomini, i ragazzi, i maschi in generale hanno qualcosa di marcio dentro, qualcosa che non capisco da dove venga.
Non tutti, per carità. Ho degli amici e un ragazzo stupendo che sono delle persone meravigliose, non potrei mai rinfacciar loro nulla.
Tuttavia mi guardavo allo specchio mentre mi rivestivo con gesti lenti e mi chiedevo silenziosamente perché. Perché avevano questo terribile bisogno di fare del male, di rovinare e distruggere tutto quello che trovavano?
Perché dovevano farlo?
Perché ne abbiamo il bisogno?
I will make you queen of everything you see
I'll put you on the map
I'll cure you of disease
E mi ci mettevo dentro con tutte le scarpe, perché sapevo di aver fatto cose, in passato, che mi definivano come tutt'altro che una brava persona.
Mi arresi al fatto che non avrei trovato una risposta a quella domanda, non in quel momento, ed andai in cucina sentendo il telefono squillare.
A passi lenti, trascinando i piedi e portandomi una mano alle tempie raggiunsi il cellulare appoggiato al tavolo, per poi rispondere al contatto noto di mia madre.
«Hola mama» la salutai. «Como estas?».
La voce morbida della donna fu come una carezza al cuore dopo quella estenuante giornata.
«Hola Lancito, è tutto okay» mi rispose, abbandonando immediatamente lo spagnolo e tornando all'inglese.
Avendo vissuto a Cuba per anni ed avendo avuto a che fare con quella lingua l'aveva imparata quasi automaticamente, ma ciò che lei non riusciva ad accettare era che fosse anche la lingua di mio padre.
Let's say we up and left this town
And turned our future upside down
We'll make pretend that you and me
Lived ever after happily
L'unico motivo per cui i miei fratelli ed io non avevamo smesso di parlarla era Abuela, la madre esausta di un figlio che aveva sempre portato solo e soltanto caos, figlio che aveva ferito tutta la sua famiglia e che l'aveva poi abbandonata.
«Devo pensare che tu ti sia ricordata del tuo figlio preferito e volevi tanto ricordargli quanto gli vuoi bene o c'è una ragione nascosta che ti ha spinto a chiamarmi?» le chiedo, stuzzicandola con quel tono che io e Rachel abbiamo sempre usato per infastidirla.
«Veramente ti ho chiamato non solo perché volevo ricordarti che ti voglio bene e che devi fare la lavatrice -perché tanto lo so che non l'hai ancora fatta-, ma anche perché volevo dirti che devi venire ad aiutarmi a prepare tutto per la Vigilia» mi disse, usando un tono estremamente più perentorio dell'inizio della chiamata. «E comunque lo sai che il mio preferito è Luis».
Sbattei una mano sul tavolo, fingendomi profondamente sconvolto dalla sua affermazione. «Lo sapevo che non poteva essere Marco!».
She asked me, "Son, when I grow old
Will you buy me a house of gold?
And when your father turns to stone
Will you take care of me?"
Mia madre rise e quel suono lo percepii come il caldo abbraccio di cui avevo bisogno, un abbraccio che non lasciava lividi.
Mi passai una mano tra i capelli e premetti il pollice sulle mie labbra, cercando la forza di formulare la domanda che meditavo di porle da un po'.
«Ascolta, mama, volevo chiederti se potevo portare qualcuno a cena, la sera della Vigilia» scandii, torturandomi il labbro inferiore con il dito.
«Certo che puoi, lo sai che non c'è nessun problema. Si tratta di Hunk?» domandò.
«No, Hunk passerà la Vigilia con la famiglia di Shay, in Georgia. È tornata a casa due settimane fa e già non sopportano più la distanza» risposi, cercando di mantenere la calma. «Pensavo di portare Keith».
Ci fu una breve pausa confusa all'altro capo del telefono.
«Keith Kogane? Ma non è quello che non sopportavi?».
Oh, and since we know that dreams are dead
And life turns plans up on their head
I will plan to be a bum
So I just might become someone
Deglutii a fatica e premetti con più forza il pollice contro il labbro.
«Non è proprio così... più che altro non sopportavo che mi piacesse» ammisi.
«Oh, tranquillo mijo, è anche così che nascono le migliori amicizie» cercò, di tranquillizzarmi.
«No, c'è qualcosa di diverso dall'amicizia tra noi. Ci frequentiamo, mama» confessai, con tutto il coraggio che avevo a disposizione. «Keith mi piace piace. E anche tanto».
Rimase in silenzio per qualche secondo e poi sospirò, leggermente seccata.
«Lancito, ancora con questa storia?» domandò. «Non è ora di finirla con questa fase?».
Mi sentii improvvisamente privato della tiepida protezione che mi aveva inizialmente dato la sua voce.
«Ne abbiamo già parlato tante volte, lo sai che non è una fase» replicai, leggermente piccato.
«Sì, sì, lo so, non sei pronto per tornare sui tuoi passi, lo capisco» mi sminuì. «Comunque la risposta è la stessa, puoi portare Keith per la Vigilia. Non sarà un problema mettere un posto in più».
She asked me, "Son, when I grow old
Will you buy me a house of gold?
And when your father turns to stone
Will you take care of me?"
Inspirai profondamente e contai fino a cinque prima di parlare di nuovo.
«Va bene, grazie mama» dissi. «Ora devo andare, ho una lezione tra poco».
Aspettai che mi salutasse e poi chiusi rapidamente la chiamata, infilando il telefono nella tasca dei pantaloni della tuta.
Rimasi immobile a respirare, perché mi sentivo come se mi avessero tirato via la terra da sotto ai piedi.
Pur di non perdere l'affetto di mia madre, quando ero più piccolo, avevo cercato di costringermi a essere etero. Avevo ignorato la cotta per Terrence Cortez alle elementari e mi ero concentrato su quella che mi venne subito dopo per April Turner, avevo seguito tenendo per mano Sabrina Lyon alle medie quando non riuscivo a staccare gli occhi dal viso di Marcel Gale e alle superiori, dopo aver perso la testa per Josephine Ross mi ero innamorato pazzamente del quarterback, Noah Flint.
A quel punto non sono più riuscito ad andare avanti, con quel senso di oppressione e di odio per me stesso, per come sentivo di essere sbagliato.
Sapevo di non essere sbagliato in quel senso e volevo smettere di sentirmi così.
Diego e i miei fratelli mi hanno supportato attivamente, cercando di fare del loro meglio per capirmi, mentre mia madre ha sempre voluto convincersi che fosse qualcosa di passeggero dovuto all'adolescenza e non voleva concepirla come una circostanza concreta.
La sua ostinazione in questo senso ha quindi bloccato Veronica, che ora rimorchia ragazze nei bar di nascosto e si mantiene quanto più a distanza dalla mamma e dalle sue conoscenze.
Mi avvicinai al divano e mi ci accasciai sopra.
Ero così stanco di sentirmi da solo, così stanco di sentire come se stessi combattendo una guerra che non potevo vincere contro un nemico invisibile.
Mi coricai sul sofà e presi il telefono, aprendo la chat di Keith.
"Non per rovinarti
la giornata, ma
sappi che sei
invitato a casa mia
per la Vigilia ^^"
✔✔
Sifu Hotman
Accolsi il suo silenzio con un grugnito e mi coprii la faccia con le mani.
Bella giornata, una bella giornata davvero.
Allura
Guardo distrattamente Romelle che sta raccontando un aneddoto accaduto alla zia poco prima che lei partisse e sorrido vedendo l'impegno che Coran sta mettendo nel seguire i suoi gesti.
Ogni tanto lei si ferma per permettergli di ridere, perché non c'è nulla che lui trovi più esilarante di zia Dorotea, e si volta per lanciarmi uno sguardo complice, come se io sapessi esattamente cosa sta pensando.
Forse dovrei saperlo, effettivamente.
«Ed è per questo che ora nessuno avrà più il permesso di toccare del pudding» conclude la bionda, con gli ultimi gesti.
L'uomo dai capelli rossi si asciuga una lacrima all'angolo dell'occhio destro, sorridendo sotto i baffi.
«Quella donna non finirà mai per annoiarmi» afferma, con un sospiro profondo.
Se ci penso bene, credo che Dorotea sia sempre stato l'amore proibito del mio tutore. Ogni volta che si vedono sembra volino scintille nell'aria, ma c'è qualcosa che li frena dal dare un nome a quello che hanno.
Forse la paura?
Io e Romelle siamo rannicchiate sul divano del salotto di Coran, che è grande più della metà dell'appartamento che dividiamo io e Keith. Non che non glielo invidi, anzi, ma non credo che riuscirei a vivere in un posto così grande senza sentirmi schiacciata dal peso della solitudine.
L'uomo si alza dalla poltrona e ci accarezza i capelli con affetto, prima di stiracchiarsi.
«A questo punto il tè sarà pronto, ve lo vado a prendere» ci dice, dirigendosi verso la cucina.
Rimaniamo a guardarlo in silenzio e Romelle appoggia la testa sulla mia spalla, tirando più su la coperta.
«Credo che abbia bisogno di noi» mormora, storcendo il naso.
Di solito evita di parlare, dato che non può sentire molto bene la sua voce, ma con me se lo permette ancora, prima che smetta di sentire del tutto.
Non saprei come contestare questa sua affermazione, perché in un certo senso è una cosa che penso spesso anche io.
Da quando i miei genitori non ci sono più siamo stati sempre io e lui contro il mondo, occasionalmente affiancati dalla famiglia di mia madre che però stava a un oceano di distanza. Romelle aveva sempre fatto visite annuali che durassero almeno fino alla sera della Vigilia, ma negli ultimi anni aveva cercato di partire prima e rimanere per più tempo.
All'inizio pensavo lo facesse solo per me, però poi mi sono accorta di come Coran brillasse di più quando io e lei gli stavamo vicine, perché in fondo siamo una famiglia.
E ora che io vivo per conto mio, ora che ho degli impegni inderogabili e delle cose da fare, credo che lui si senta estremamente solo.
«Certo che ha bisogno di noi, ma anche noi abbiamo bisogno di lui» rispondo, muovendo rapidamente le mani. «E non credo che lui lo sappia».
La presenza di quell'uomo, nella mia vita, è sempre stata qualcosa di significativamente importante.
Il suo affetto e il suo supporto mi sono sempre sembrati in grado di illuminare le mie giornate di una luce calda, sui toni del sole al tramonto, il tipo di luce delicata che inonda il paesaggio e lo abbraccia con dolcezza solo per potergli dare una bellezza diversa.
Il tipo di luce che può dare un senso alla bellezza vuota del mondo.
Coran è sempre stato quel genere di persona che preferisce non ricevere ricompense per i propri gesti gentili, per questo cercava di non far risaltare quanto facesse per la mia famiglia anche quando i miei genitori erano in vita.
Ricordo delle notti insonni che ha passato con mia madre nel tentativo di trovare la strategia infallibile di cui aveva bisogno l'azienda, le giornate a seguire mio padre a destra e a manca per poterlo aiutare nei suoi infiniti impegni, gli innumerevoli cerotti che ha messo sulle mie ginocchia sbucciate e le fiabe che mi ha raccontato quando non ne volevo sapere di starmene ferma.
Sapere che una persona così devota, che una persona così speciale possa sentirsi sola mi fa sentire spaesata.
È l'ultimo di tutti gli esseri umani a meritarsi una cosa simile e io non credo di avere il potere di fare più di quanto già non faccia per stargli vicino.
Anche se.
Coran torna con le tre tazze di tè fumante, quello di Romelle tassativamente dolcificato con il miele.
Le appoggia sul tavolino che sovrasta il tappeto rosso sul pavimento e, prima che possa sedersi, mi viene un'idea.
Con un gesto della mano lo invito a sedersi tra me e la ragazza dai capelli biondi e lui, seppur con un certo stupore, esegue.
Non appena si adagia comodamente sul divano, mi appresto a circondargli le spalle con un braccio e ad appoggiargli la testa su una spalla.
«A cosa devo questo improvviso moto d'affetto?» domanda, con un sorriso bonario.
Romelle, che si è sporta in avanti per poter leggere le nostre labbra, sta guardando me in attesa di una spiegazione, con l'espressione di una che ha un gran brutto presentimento.
«Lo devi al fatto che devo estorcerti una promessa» rispondo, quindi, stringendo la mano sul suo braccio. «Ma giuro che sarà l'ultima cosa triste che dirò oggi».
«Temo di dovertelo dire, non mi piace affatto come premessa» commenta, spalleggiato dalle sopracciglia aggrottate di Romelle.
Non saprei come biasimarli, soprattutto dal momento che mi conoscono abbastanza bene da sapere di non essere mai al sicuro dai miei discorsi fatalisti.
Tant'è.
«Devi promettermi che quando me ne sarò andata, tornerai a Londra» gli dico.
Ecco, qui sento di dover fare una precisazione.
C'è un motivo se non vado più dalla dottoressa Skye, mentre i miei amici sì.
Io ho accettato la mia morte.
E questo non significa che mi ci sia rassegnata perché io non voglio morire.
Voglio vivere la mia vita e scrivere saggi di astronomia, dirigere film impegnati nei luoghi più desolati del mondo, svegliarmi alla mattina e sorridere al viso addormentato di Lotor, poter continuare a stare insieme alla mia famiglia e ai miei amici.
Ma, lasciatevelo dire, mentre sei nel bel mezzo di un ciclo di chemio, mentre i tuoi capelli cadono e le ossa ti dolgono come si stessero sciogliendo e spezzando contemporaneamente, mentre la gola ti brucia per i continui conati, mentre ti senti un'estranea nella tua stessa pelle che smette di calzarti a pennello come ha sempre fatto, mentre soffri come una dannata per restare in vita- la morte non sembra un'opzione così terribile.
Diciamo che ci sono momenti, momenti che possono equivalere a pochi secondi o a lunghe ore, in cui la morte diventa il tuo più grande desiderio proibito.
E non sto dicendo, ripeto, che è questo che desidero, ma piuttosto che ci ho avuto abbastanza a che fare per scendere a patti con i miei sentimenti nei suoi confronti.
Non ho paura di morire, anche se ovviamente preferirei di gran lunga non farlo.
E quando l'altro giorno il medico mi ha detto che nessun ciclo di chemioterapia avrebbe potuto guarirmi, beh, ho sentito come un senso di sollievo alleggerirmi il petto.
Mi è stato dato tutto quello che poteva essermi concesso e nonostante questo aiuto il mio destino è quello che sospettavo che fosse.
È qualcosa che ho rivelato solo a Coran, Romelle e Lotor, qualcosa che non so come dire ai Paladini senza sentire i loro fragili cuori frantumarsi in mille pezzi.
Non che quelli dei tre a cui ho confidato questa realtà abbiano fatto meno rumore.
«Allura...» tenta di replicare l'uomo dai capelli rossi, senza alcuna convinzione.
«Lo so che hai lasciato tutto per seguire i miei genitori ed aiutarci, so che hai rinunciato a vivere vicino alla tua famiglia anche più avanti, quando hai dovuto prenderti cura di me. Ma quando non ci sarò più, voglio che tu te ne torni a casa e viva la tua vita» lo interrompo, premendo di più la guancia contro la sua spalla. «Dopo tutto quello che hai fatto per noi ti meriti di essere felice».
Coran allunga un braccio nella mia direzione e mi abbraccia di lato, sospirando.
«Ma Allura, io sono felice. Ero felice quando da piccola giocavi a fare Batman e io interpretavo la parte di Alfred, accompagnandoti nelle tue missioni di ricognizione nella stanza giochi, come sono felice adesso guardando la meravigliosa donna che sei diventata» mi dice, accarezzandomi il volto con una mano. «Con il tempo imparerò a essere felice anche senza di te, bambina, ma quello che so per certo è che non posso andarmene così. Questa è diventata casa mia, ho costruito qualcosa in questo posto e forse posso dargli l'occasione di restituirmi qualcosa di speciale».
Sento le lacrime pizzicarmi gli occhi e non riesco a dire nulla.
«Oltretutto, non sarà solo» aggiunge Romelle con la sua voce leggermente troppo roca e leggermente troppo stridula allo stesso tempo. «Era già da un po' di tempo che ci pensavo e, forse, la mia laurea in ingegneria restaurativa potrebbe far comodo alla Garrison. Dovevo solo convincere i miei genitori che fosse una buona idea lasciarmi andare».
Prima che possa dire qualsiasi altra cosa, Coran la prende e la trascina nell'abbraccio, baciando prima la sua testa e poi la mia.
«Ce la caveremo, Allura» mi assicura. «Ma fino al momento in cui dovremo affrontare quella situazione, non ci sarà bisogno di preoccuparsi».
Rimaniamo accovacciati tutti e tre sul divano, attorcigliati nella coperta e ignorando il freddo del mondo esterno.
Mi sento straordinariamente felice e so di non amare nessuno come amo loro.
«Dovremmo bere il tè prima che si raffreddi-» suggerisco.
«Il tè può aspettare» replica Coran, stringendomi di più.
Keith
«Sei Keith Kogane, giusto?».
Keith spegne il motore di Yorak e rimane a fissare con sguardo vuoto il volante davanti a lui.
Aveva riconosciuto quella voce, era l'ormai ex moglie di Kolivan che il ragazzo aveva visto solo tre volte, per di più girata di spalle e di sfuggita.
Li aveva sentiti discutere attraverso le pareti dell'ufficio, per cui la voce che aveva attribuito alla donna aveva un suono più ovattato di quello che aveva mentre lei gli stava parlando.
Il suono che aveva in quel momento spinse come un bottoncino nell'inconscio del corvino e lo spinse a voltarsi verso di lei.
La faccia di certe persone non la dimentichi. Non importa se le foto che la ritraggono bruciano e quelle che rimangono le strappi nella speranza di non vederle mai più, anche se il ricordo nella tua mente è offuscato, quando le vedi, è impossibile non ricordare.
«Sono Krolia Gale» aveva detto, poi. «E sono tua madre».
Può forse sembrare assurdo che non conoscesse l'identità della moglie del suo capo, ma in effetti Keith non si era mai interessato alle informazioni che la riguardavano. Semplicemente, non pensava fossero fatti suoi.
Ulaz non era solito sparlare delle persone in segreto, per cui non aveva mai nominato la donna in nessuna circostanza, mentre Kolivan, le poche volte che si lasciava scappare una lamentela a riguardo, la chiamava quella donna.
E Keith non aveva nessun motivo di sospettare che diciassette anni dopo fosse proprio lei, nella sua stessa città e nello stesso edificio.
«Ci sono tante cose che dovrei dirti a questo punto. Dovrei dirti perché me ne sono andata, dove sono stata, come ti ho trovato e per quale ragione ho la faccia tosta di parlarti, quando so che molto probabilmente sarai arrabbiato come non mai con me» aveva continuato, mordendosi un labbro ma senza avere alcun cedimento di voce. Sua madre non era mai stato un tipo emotivo. «Ma non voglio farlo senza che sia tu a volerlo. Non voglio impormi nella tua vita se non mi vuoi, però permettimi solo di dire, senza chiederti il permesso, che non avrei mai voluto lasciarla, la tua vita. Avrei voluto avere una possibilità di scegliere diversamente, ma non l'ho avuta. E mi dispiace».
Keith si guarda le mani che stringono il volante e vede che tra le dita della mano destra tiene un pezzo di carta, il biglietto con su scritto un numero di telefono che la donna gli porgeva mentre parlava.
Non ricorda di aver detto qualcosa.
Ricorda solo di essersene andato, mentre Ulaz gli urlava contro che non aveva finito il suo lavoro, ancora.
E adesso è qui, nella sua auto, lontano da quell'officina e da quella donna.
E non sta piangendo, ma quasi.
Il suo cuore batte talmente velocemente che sente un dolore terribile al petto, gli occhi gli bruciano ed il respiro è pesante, faticoso da trarre.
Avrebbe voluto chiamare qualcuno.
Avrebbe voluto chiamare Hunk, che lo avrebbe confortato con parole gentili che gli avrebbero rallentato il battito cardiaco. Ma quelle parole sarebbero sembrate tutte bugie e Keith le avrebbe odiate dalla prima all'ultima.
Avrebbe voluto chiamare Pidge, che l'avrebbe ascoltato senza dire una parola, facendo smettere i suoi occhi di bruciare così intensamente. Ma Keith non aveva voglia di parlare, non avrebbe saputo come esprimere quello che gli stava succedendo e quello che questo gli faceva provare.
Avrebbe voluto chiamare Allura, che gli avrebbe detto di tornare a casa dove lei lo aspettava, dove sarebbe stato più facile riuscire a respirare. Ma l'idea di portare a casa anche solo il ricordo di quella donna terrorizzava Keith e non riusciva a pensare di varcare la soglia.
Avrebbe voluto chiamare Lance.
Lo stesso Lance che con uno sguardo, con il tocco della sua mano, con una sola parola avrebbe guarito le sue ferite. Avrebbe voluto chiamarlo, aveva bisogno di chiamarlo, ma non ci riusciva.
Perché aveva visto sua madre.
E una volta Krolia, lui se lo ricorda molto bene, soffriva terribilmente, una sofferenza che ha ferito suo marito.
E Keith non sopporterebbe di far soffrire Lance come sua madre ha fatto soffrire suo padre.
Avrebbe voluto chiamare Shiro.
Vuole chiamare Shiro, anche se sa che non è nemmeno lui quello di cui ha bisogno, ma c'è abbastanza vicino.
Ma non riesce a prendere il telefono.
Così ha guidato e basta, ed ora è di fronte al vialetto, scende dall'auto, apre il cancellino che il fratello non chiude mai e rimane fermo in giardino.
Keith non capisce, non capisce affatto.
Non capisce come dovrebbe sentirti, non capisce come si sente, non capisce se è sbagliato che si senta così.
Sente la testa pesante ed i suoni ovattati, ha ignorato i messaggi di Lance perché non saprebbe cosa rispondergli, non ora che riesce solo a pensare alle parole di quella donna.
Sua madre.
Sua madre.
Ha provato così tanti sentimenti contrastanti per lei durante la sua vita che ora non sa come affrontarli di nuovo.
L'ha amata, ovviamente, ha pochi ma vividi ricordi di quando guardava a lei come alla persona che l'avrebbe sempre protetto e che l'avrebbe guidato attraverso ogni sfida.
Poi è scomparsa e c'è stato lo sgomento, l'incredulità, perché Keith non riusciva ad accettare che sua madre, la sua guardiana li avesse abbandonati. Ha preso le distanze da suo padre in quel periodo ed ora come ora vorrebbe tanto non averlo fatto.
Quando suo padre è morto, si è odiato. Ricorda l'incendio, ricorda di aver visto suo padre lanciarsi su di lui per evitare che l'armadio in fiamme che stava cadendo ferisse suo figlio. E Keith ha pianto prima ancora di capire che suo padre sarebbe morto, perché sapeva che si era fatto male per colpa sua.
Si è preso la colpa per quello che era successo ai suoi genitori per anni, si è odiato fino a che non è stato più sopportabile.
Così ha cominciato a odiare sua madre, l'idea di quella donna che lo costringeva a sentirsi così terribilmente solo.
E ora? Cosa dovrebbe fare, come dovrebbe reagire?
Perché non riesce a trovare una soluzione che gli permetta di porre fine a questo turbinio di pensieri dolorosi?
«Keith, tesoro, sei tornato tardi» sente dire una voce.
Solleva lo sguardo dalle sue scarpe e vede la figura femminile illuminata dalla lampada appesa sulla porta d'ingresso che ha appena chiuso.
«Mi dispiace» dice, debolmente.
L'espressione sul volto della donna, che sta reggendo un sacco della spazzatura grande la metà di lei, si addolcisce.
«Non c'è ragione di scusarsi, ero solo preoccupata che tornassi a casa e che la cena fosse già fredda» mente.
È una bugia detta con amore, con tenerezza, perché Keith lo sa che lei si è sempre preoccupata per lui.
E forse è questo che gli fa pizzicare ancora di più gli occhi e lo fa finalmente scongelare, per poi correrle in contro e buttarle le braccia al collo.
Sente che appoggia per terra il sacco e gli cinge la vita con le braccia grassottelle, così lui si china sulla sua spalla e affonda la faccia nei suoi capelli.
Hanno il profumo del suo tipico shampoo alla magnolia e quello del katsudon che ha appena finito di preparare, cosa che fa sentire il ragazzo assurdamente al sicuro.
«Scusami» le dice, stringendola. «Scusa, mamma».
Non sa perché si sta scusando, forse per tutti gli anni di ansia, guai e capelli bianchi che le ha procurato.
O forse voleva solo chiamarla mamma.
Perché è lei la sua mamma.
C'è qualcosa di straordinario nell'amore di genitore.
È un'esplosione di affetto incondizionato che ti avvolge in un abbraccio tiepido, di un calore piacevole che è in grado di farti sentire al sicuro anche nei momenti peggiori.
«Su, su, non c'è nulla per cui agitarsi. Perché non mi aiuti a buttare la spazzatura, così andiamo tutti a cenare insieme?» ti dice, lasciandoti un buffetto sulla guancia, mentre si separa da te e ti sorride. «Prima però dovrai sbrigarti e farti una doccia, sei in condizioni indecenti».
La guardi anche tu e rimani in silenzio per qualche secondo, per poi specchiare il suo sorriso. «Sissignora».
Nadia
Quando entro in casa James sta parlando al telefono con aria grave, sotto gli occhi attenti di Ryan. Chiudo la porta alle mie spalle e guardo il ragazzo seduto sul divano con sguardo interrogativo, aspettandomi una spiegazione, che prontamente non arriva perché non esiste un universo dove Ryan parlerebbe sopra James.
Decido di passare oltre, perché comunque ha un'espressione che conosco molto bene. Allison Skye dice quell'espressione.
Attraverso l'entrata costituita dal salotto e dalla cucina insieme, per poi entrare nella nostra camera da letto e lasciar cadere la busta di Walmart sul materasso dove dormiamo io ed Ina.
Mi strofino una mano sulla faccia e sospiro, perché questa è già una giornata di merda e una chiamata della Skye significa sempre altra merda da spalare. Era proprio quello di cui avevamo bisogno.
Stringo con il braccio sinistro il pacco che non ho lasciato nemmeno per un secondo e lancio un'occhiata alla porta del bagno, mordendomi il labbro inferiore.
Non muoio dalla voglia di bussare e trovarmi la ragazza dai capelli biondi davanti, non dopo il brutto litigio che abbiamo avuto ieri sera.
Non voglio farlo perché so di aver avuto torto e di essermi comportata veramente male, soprattutto considerando che ho usato argomenti che sapevo potevano ferirla.
Rapportarmi con gli altri non è mai stato facile per nessuno di noi, questo è pacifico, ma credo che io abbia sviluppato un eccessivo disinteresse per i sentimenti di chi mi circonda.
Non li ritengo utili e quindi non li rispetto.
So che sbaglio, lo so davvero, ma se non mi fermo qualche secondo prima di parlare questa consapevolezza è inutile. E ieri sera, volendo dare la colpa allo stress o alla stanchezza, non mi sono fermata.
Raccolgo tutto il coraggio che ho a disposizione ed attraverso la stanza, per appoggiare le nocche sulla porta senza fare alcun rumore.
Non riuscirei nemmeno a dirle che mi dispiace per quello che ho detto, perché era tutto vero. Non ho usato bugie o inganni, è questa la parte peggiore.
Per qualcosa mi dispiace, però.
Mi dispiace che lei ne abbia sofferto. Sì, un po' mi dispiace per questo.
Prendo un respiro profondo e busso, attendendo la risposta.
«Sì?» dice la sua voce ovattata.
«Sono io» le rispondo, tenendo comunque la mano appoggiata sulla porta. «Sono stata in farmacia».
La ragazza apre la porta e si affaccia dallo spiraglio che mi concede, allungando la mano verso il pacco che sto stringendo.
Mi sposto abbastanza perché la porta si possa aprire di più e lei possa farci passare la scatola, al che i nostri sguardi si incontrano e rimaniamo in silenzio.
Mi dispiace, penso, ma non lo dico.
«Grazie» mi concede, prima di chiudersi di nuovo dentro al bagno.
Sorrido al nulla e mi volto, appoggiando la schiena alla tavola di legno e lasciandomi scivolare piano a terra, raccogliendo le ginocchia al petto.
Non le dico che mi dispiace perché non sono sicura sia vero.
Perché non è colpa mia se le fa male sapere di star facendo soffrire James, non è colpa mia se avrebbe preferito non sapere e ignorare la cosa.
Non è colpa mia se ha paura.
«Com'è andata in autobus?» mi domanda, attraverso la porta.
Sono leggermente sorpresa dal suono della sua voce, ma nemmeno tanto.
«Niente mal d'auto, stranamente, questo lo devo concedere» le racconto, guardandomi le mani. «Ma ha fatto schifo comunque».
«Come mai?» chiede ancora, coprendo il suono di un barattolo che si apre.
So che mi sta usando per distrarsi e francamente mi sta bene, per cui piego le labbra in una smorfia e rievoco il fastidioso ricordo.
«C'era un anziano, salito una fermata dopo di me, che una volta visto che l'unico posto libero era vicino al mio è andato a lamentarsi con il conducente. Andava sbraitando che non si sarebbe mai seduto di fianco a una come me e che avrei dovuto starmene in piedi come si addiceva a quelli della mia razza» le spiegai, con ancora il sapore acido di quel momento sulla lingua, quel senso immeritato di vergogna e imbarazzo che nessuno dovrebbe provare per qualcosa di simile. «Credo che, onestamente, fossi a tanto così dall'alzarmi e mettermi a urlare. Non ci posso credere che esistano persone di questo genere, persone che fanno così tanto schifo e che camminano liberamente per strada a distribuire odio gratuito. Fortunatamente per me e per la sua incolumità, una ragazza incinta si è offerta di cedergli il suo posto, per poi venirsi a sedere vicino a me».
Mentre ci ripenso, sorrido genuinamente al pensiero di quella ragazza e ai suoi brillanti occhi color giada, anche se mi fa male al cuore ricordare il livido che le ho visto sbucare da sotto il maglione.
«Non potevo lasciare che quello stronzo si sedesse vicino a te, sarebbe stato un crimine contro l'umanità, mi ha detto. Poi mi ha persino chiesto se potesse aiutarmi a portare qualcosa e lì ho pensato che fosse un angelo sceso dal cielo o qualcosa di simile».
«Non le avrai fatto portare la borsina di Walmart, mi auguro» dice subito, perentoria.
Lo sa che è in quella borsa che mettiamo sempre i proiettili quando andiamo a comprarli, nascosti strategicamente sotto una maglietta che ci portiamo da casa.
«Sei pazza, non le ho fatto portare niente, aveva un pancione grande quanto la mia testa» replicai, indignata. «Si chiama Emily e credo proprio che subisca violenza domestica. Ho il suo numero, forse potrei scoprire dove abita e fare una visita al suo compagno».
«E forse... potrei accompagnarti» aggiunge, piano.
Rimaniamo in silenzio per qualche secondo e stringo le dita tra di loro, affondando la faccia nel giubbino che non mi sono tolta.
«Mi piacerebbe» rispondo, confortata dal suono della sua schiena contro la porta.
Nessuna della due dice più nulla e va bene così.
Sono comunque arrabbiata per ciò che è successo in autobus, perché cose di questo genere non dovrebbero mai accadere.
Questo clima di odio e disprezzo in cui le persone crescono è terribilmente tossico, non porterà mai a nulla di buono e vanifica tutte le lotte che in passato hanno cercato di portare uguaglianza. Per colpa di esseri insensibili e ignoranti come quel signore che potrei non incontrare mai più, migliaia di persone vengono discriminate e provano una vergogna che non dovrebbero provare.
È inconcepibile che per il colore della pelle di qualcuno, per il suo orientamento sessuale, per la sua religione o per qualsiasi altra piccola particolarità che non rientra nei canoni della società del diciannovesimo secolo, si debba subire una tale umiliazione pubblica. E ciò che mi fa ancora più schifo è che so di essere stata fortunata, perché questi atti d'odio spesso sfociano nella violenza più indiscriminata.
Sono ancora arrabbiata e disgustata per questo, ma ora so che anche Ina è al mio fianco. E questo è già qualcosa.
La porta della camera si apre e i due ragazzi fanno il loro ingresso, con la faccia di qualcuno al quale è morto il gatto.
«Ho una notizia buona e una cattiva» premette subito James, al che lo gelo con un'occhiataccia.
Le sue notizie buone lasciano sempre a desiderare.
«Voglio sentire prima quella buona» urla dal bagno la bionda, non ancora nelle condizioni di uscire.
Ryan si schiarisce la voce e sorride, sollevando i pollici in aria.
«Il debito con Zarkon, per questo mese, sarà coperto dalla dottoressa Skye» afferma, con finto entusiasmo.
James lancia un ultimo sguardo al telefono e poi lo mette in tasca, con un sospiro amareggiato. «Però abbiamo il compito di rapire Keith Kogane».
Li guardo senza dire una parola, i nostri uccellacci del malaugurio.
Appoggio di nuovo la testa contro la porta e sento che Ina fa lo stesso.
Ma che meravigliosa giornata di merda.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro