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Stardust

Capitolo II. Stardust

Harley non ha idea cosa la commemorazione della morte di Tony possa portare in quella casa. È passato un anno esatto e le cose non hanno fatto altro che peggiorare; almeno per Peter Parker, sta andando così. La cosa paradossale è che, se non è Spider-Man a fare un passo avanti, nessuno ci riesce. Harley non si capacita di come sia possibile, ma Peter sembra – e in effetti è – il centro di tutto. Sembra quasi che abbia rimpiazzato Tony, sotto quel punto di vista. L'unica pecca è che non ne è consapevole, nemmeno un po'. Sono tutti dannatamente coscienti che quel ragazzo, in qualsivoglia modo, abbia avuto un legame speciale con Iron-Man, che è andato oltre ogni immaginazione – in qualunque senso lo si volesse interpretare, ma tutti hanno travisato la realtà dei fatti. Tutti a parte Harley e Pepper, e sapere quali siano i veri sentimenti di Peter, fa molto più male di quanto dovrebbe. Per questo motivo Harley ha avuto bisogno di raggiungere il cottage degli Stark, prima dell'arrivo di Spider-Man. Ha bisogno della signorina Potts – signora Stark, in realtà, ma è così difficile chiamarla a quel modo – e di condividere insieme quella cosa che sanno, ma che nessuno dei due ha mai avuto il coraggio di affrontare e di ammettere.

 «Mi dà l'impressione di essere inarrivabile. Mi tende la mano perché vuole aiuto e poi la tira via. Ogni volta che sembriamo arrivare ad un punto di svolta, fa dieci passi indietro. Non so che devo fare, con lui.»

Pepper sospira. Si siede su una delle sedie in vimini che decorano la veranda che dà sul lago – di fronte a lui. Harley la guarda. Poggia i gomiti sulle ginocchia e congiunge le mani. Si allunga verso di lei, in attesa di un poco di saggezza che, dal basso dei suoi ventitré anni, non può possedere. Harley è stato fortunato. Non è stato vittima dello schiocco di Thanos. A differenza di molti altri – a differenza di Peter, non ha perso cinque anni della sua vita, in un secondo durato troppo, per chi è rimasto. Avrebbero avuto la stessa età, se Spider-Man non fosse sparito. Assurdo solo pensarla, una cosa del genere. Assurdo.

 «Stiamo cercando tutti di metterci del nostro. È ovvio che non è facile per nessuno ma, per quanto il dolore della perdita di Tony mi faccia male come il primo giorno, ho Morgan con me. Lei è tutto ciò che mi spinge a non crollare. Ma Peter... cosa gli è rimasto?»

Una vita davanti, risponderebbe Harley, se solo avesse un briciolo di coraggio nel farlo, e invece sospira. Abbassa la testa e si guarda la punta delle scarpe nere, laccate, eleganti. Porta lo stesso abito nero che indossava al funerale di Tony Stark. È passato un anno preciso da quel giorno, e mentre il mondo lo ricorda sui telegiornali e programmi televisivi dedicati a lui, Pepper ha spento il mondo e ha aperto la sua casa per non dimenticarlo mai. Come se fosse possibile... un anno senza Iron-Man. Sembra assurdo solo immaginarlo. E Peter? Non ha idea in che condizioni sia. Gli ha mandato un messaggio per dirgli che non avrebbero preso l'autobus insieme; Peter ha risposto che non c'è problema, come sempre senza chiedere spiegazioni. È troppo difficile leggere tra le righe di un messaggio risicato, ma dentro di sé Harley sa che è stato vuoto. Come la sua anima; e lui è sempre più ossessionato dall'idea di volerlo – doverlo aiutare. Ancora si chiede perché, dato che Peter non fa altro che chiudergli porte – su porte, in faccia.

 «Era davvero un rapporto così stretto?», azzarda, anche se sa la risposta.

Pepper lo fissa. Serra le labbra. Si rizza sulla schiena e incrocia le dita tremanti tra di loro. Se le guarda, poi, cercando una risposta da dargli, aprendo la bocca un paio di volte, senza riuscirci. Gioca con la fede nuziale. Sembra quasi un mantra. «Più di quanto tu possa immaginare», risponde, imperterrita con gli occhi rivolti in basso, «Tra loro c'era molto più del rispetto, dell'affetto... c'era amore.»

 «Come immaginavo», risponde Harley, secco e sospira di nuovo. Un senso di fastidio e incomprensione lo pervade.

 «Sì, ma è una confidenza che ho rivolto solo a te. Questa conversazione deve rimanere tra di noi, Harley. Non... non voglio che gli altri sappiano. È un peso troppo grande, per lui... e per me. Non ce l'ho con Peter, nemmeno con Tony, ma è stato un rospo esageratamente doloroso, da buttare giù. Tony ha fatto cose peggiori di questo e io non lo vedo nemmeno più come un tradimento. Non posso provare rancore solo perché non ero l'unica che ha amato. Non ha fatto del male a nessuno, dopotutto.» Pepper si posa una mano sullo sterno. Sembra libera da un peso, ma non totalmente. Harley non sa che dire, ed è per questo che resta muto. Vorrebbe prenderle una mano e dirle che capisce, ma la verità è che non è così. Non può capire. È solo un ragazzo appena affacciato all'età adulta, che spera con tutto il cuore di sanare qualcosa nell'animo spezzato di Peter, anche se questi non vuole.

 «Rimarrà tra me e te, Pepper. Ovviamente. Ed io... forse dovrei semplicemente farmi da parte. Io e Peter non siamo così in confidenza, dopotutto.»

È lei, a prendergli una mano. La stringe. «Per questo forse hai qualche possibilità di riuscirci. Tutti noi, nessuno escluso, siamo promotori di ricordi troppo oscuri, per Peter. Tu sei una ventata di freschezza, nella sua vita. Non dico che questo lo aiuterà, ma provarci non è del tutto sbagliato e... se ci tieni, non dovresti demordere. Più male di così non può stare, no?», sorride. Sono parole terribili. Ha appena dipinto Peter come un ameba senza cuore, senza speranza e senza obiettivi ma dopotutto è la verità. Può davvero cadere più in basso di così? No, forse no... «Ah, ecco i ragazzi!», esclama Pepper e si alza, con un sorriso. I pensieri di Harley sono interrotti dal suono di uno sportello che si chiude e la imita. Vede facce familiari – ma non troppo, raggiungerli. Sorrisi malinconici e di circostanza. Abiti neri e occhi vuoti, tornati indietro ad un anno prima; occhi di qualcuno che, Tony Stark, lo ha visto morire per salvare l'universo. Fa male.

E, fa ancora più male, vedere che Peter, tra quelle persone, non c'è. Se lo immagina, seduto sull'autobus, con la testa appoggiata al vetro, le cuffiette nelle orecchie e mille domande nella testa, tra cui perché lo sto facendo? Perché mi sto ancora facendo del male?

...

Sono riuniti tutti a tavola. Pepper ha appena servito il dolce e un paio di liquori, che non tutti hanno deciso di bere, ma che fanno atmosfera. Una sorta di tentativo di alleggerire quella tristezza che si è creata, perché sì, l'argomento di quel pranzo è stato uno solo: Tony Stark. Ognuno di loro ha condiviso un pezzo di storia; c'è chi lo ha fatto con affetto, chi lo ha fatto piangendo e chi, più spensierato, lo ha fatto ridendo, raccontando aneddoti interessanti, che non hanno di certo smorzato la malinconia, ma hanno rinfrancato un poco l'animo di quella giornata. Thor ogni tanto si lascia andare ad un pianto che ricaccia subito nei meandri del petto. Ha perso qualche chilo, da quando hanno vinto la battaglia contro Thanos; viaggia in giro per l'universo con i Guardiani della Galassia. Lo hanno parcheggiato lì, solo per quel pranzo. Torneranno a prenderlo con la loro astronave, verso sera. Harley non crede ancora al fatto di aver visto un procione parlare, ma ormai non si stupisce più di molte cose. Steve ha stancamente raccontato del suo rapporto controverso con Tony. Anni di dissapori, dimenticati in una stretta di mano, lasciata indietro nel 2013, quando insieme hanno deciso di recuperare il Tesseract in un tempo ancora più lontano; esattamente in quell'anno dove Steve – come ha raccontato più di una volta, ha capito che la sua seconda opportunità con Peggy, se la meritava. Lo ha raccontato di nuovo, con un sorriso dolce ad accentuare le rughe di quella vecchiaia a cui nessuno ancora riesce ad abituarsi.

 «È stato grazie a Tony. Se non avesse scelto di farsi una famiglia, io non avrei mai pensato di scegliere la stessa strada per me», ammette, e abbassa la testa sul suo dolce. Gli trema la voce. Per l'emozione e per la vecchiaia. Harley distoglie lo sguardo, perché fa quasi male vederlo così inerme. Avrebbe voluto conoscerlo in tempi migliori, non può non ammetterlo persino a se stesso. «Ho avuto la mia seconda possibilità.»

 «Ci sono treni che passano una volta sola, Steve», sorride Pepper, e gli posa una mano sul braccio, mentre tiene dentro tutto il dolore – quello di tutti, e lo conserva per dopo, quando resterà sola e esploderà in un pianto disperato, ma necessario. Harley la guarda come se potesse farsi carico di un poco di quel male, ma lei non glielo permette.

 «Che mi dici di te?»

 «Io?», chiede, quando si rende conto che tutto il tavolo lo sta guardando. Quando Sam Wilson annuisce, Harley incrocia le braccia al petto; si mette più comodo sulla sedia e alza un sopracciglio, «Non ho molto da dire, in realtà».

 «La storia della pistola spara-patate, no? Quella è sempre divertente.» Lo incalza Steve, e lui alza gli occhi al cielo. Sbuffa divertito e vorrebbe solo che la smettessero di trattarlo come se, di fatto, fosse davvero parte di quel nucleo familiare che gli Avengers erano.

 «Ah, andiamo! Non vale metà delle storie raccontate fino ad ora. Oltretutto l'avete sentita un milione di volte.»

 «Credo che molti di loro non l'abbiano mai sentita!», ridacchia Pepper, poi si volta alla sua destra, «Vero Strange? Peter?», si blocca. Sì guarda intorno. «Peter?», ripete, confusa.

Cala un silenzio strano. La sedia che fino a poco prima era occupata da Spider-Man – silenzioso e assorto per tutta la durata di quel pranzo, è vuota. Si era rintanato in un angolo remoto del tavolo, col solo ed unico tentativo di risultare invisibile e, di fatto, era stato così. Glielo avevano permesso, in realtà, lasciandolo nel suo doloroso silenzio e, nessuno di loro aveva cercato di coinvolgerlo, perché di fatto non era quello che Peter voleva, in quel momento.

 «Si è alzato poco fa, chiedendo scusa e dicendo che sarebbe tornato presto», spiega Stephen; Pepper guarda Harley, che ricambia e sospira. Non è irritato all'idea di dover andare a recuperarlo, lo infastidisce di più la consapevolezza che non è quello che Peter vuole. È certo che voglia stare solo, nel suo mondo, e che non gli permetterà mai di entrarci, ma un tentativo vale la candela, così si alza e si abbottona la giacca del completo.

 «Vado a vedere come sta», dice e ha di nuovo gli occhi di tutti puntati addosso. Così fugge, si dilegua, cerca l'aria che ha appena compreso di abbisognare. Esce dalla porta del loft e se la chiude alle spalle. Una brezza gelida lo inonda. Si chiude nelle spalle. Fa frizione con le mani contro le braccia per darsi un poco di calore, e lo cerca con lo sguardo, che vaga dalla piccola banchina che dà sul lago, fino al boschetto poco lontano. Scende le scalette di legno, si inoltra in quel marasma di fusti e foglie secche, e lo vede. È appoggiato con una mano sul tronco di una quercia, mentre l'altra è aperta contro lo sterno. È piegato in due, e sta vomitando. Ansia, terrore, angoscia, senso di impotenza. Tutte sensazioni che Harley ha provato un tempo, quando era bambino, ma che in Peter può capire in parte. Lo raggiunge, anche se sa che lo caccerà via e gli dirà la solita, fastidiosa bugia di sempre.

 «Peter?», lo chiama. Lui si volta leggermente a guardarlo, dopo aver tossito e essersi passato il dorso della mano sulla bocca, per pulirla. Ha gli occhi rossi per lo sforzo; i capelli sudati. Distoglie subito lo sguardo, e Harley non ferma quel cammino che lo sta conducendo da lui. Gli posa una mano sulla schiena e la accarezza. Non vuole dire niente, vuole solo aiutarlo. Vuole solo che stia meglio e che non sia solo.

 «Sto bene», farfuglia, e Harley sapeva che quella bugia si sarebbe palesata anche in quel frangente. Schiocca la lingua e guarda altrove, solo per non dover guardare ancora quel volto devastato che mente a se stesso e agli altri, solo per non ammettere che fa tutto dannatamente schifo.

 «No che non stai bene. Come pretendi che possa crederti? Sei uno straccio. Vieni.» Lo prende per le spalle. Lo invita con gentilezza a posarle contro il tronco di un albero vicino. Gli sposta i capelli da davanti la fronte e lo studia. Peter ansima l'ansia, e il suo petto balla una macabra danza fuori tempo. Non lo guarda. Ovvio. Come se lo avesse mai fatto davvero, da quando lo ha conosciuto...

 «Parlami», lo incalza.

 «Qualcosa deve avermi fatto male», cerca di giustificarsi, dando la colpa al cibo e non al suo destino avverso.

 «Qualcosa nei sentimenti, sì», lo canzona, e lo fa pur sapendo che non riceverà una sola reazione, da lui. Che sia rabbia, tristezza, allegria... non reagirà mai. Harley sa che Peter ha lo stomaco aggrovigliato per troppi motivi, legati a quel lutto, a quel pranzo, a quei ricordi e al fatto che i suoi – quelli che comprendono Tony, sono indicibili, indecenti e qualcosa di cui vergognarsi. Qualcosa di cui non parlerà mai con nessuno. No, non lo farà e Harley non vuole che lo faccia, vuole solo che si aggrappi a lui, tenendosi i suoi segreti nel cuore, e che vada avanti. Pian piano, ma vuole che lo faccia. «Che c'è?»

 «C'è che non sarei dovuto venire», ammette. Alza le braccia e si stropiccia gli occhi con i polpastrelli. Non riemerge. Resta così, arginato e nascosto, mentre grugnisce e apre un po' il cuore. «È stata una pessima idea. Non oggi, non con tutti quanti. Sto rovinando tutto.»

 «Non stai rovinando niente. E sì, saresti dovuto venire. Per Pepper, che ci teneva; per Morgan, ma soprattutto per te.»

Peter sbuffa divertito, anche se nel cuore non lo è per niente. Ha gli occhi cerchiati di rosso, così pieni di dolore che fanno rabbia. «Non c'è niente di buono, qui, per me.»

 «Continuare a sotterrare i tuoi demoni sotto al tappeto non servirà a niente, Peter. Scappare deteriora solo le cose. Affronta questo problema e tenta almeno di superarlo, o non ne uscirai mai.»

 «Ti ho già detto che tu non sai niente, di me», sibila Spider-man, e qualcosa di simile alla collera gli si specchia nelle membrane oculari, per un istante quasi impercettibile, poi tornano a velarsi di altre cose. Lo osserva inerme ricacciare nel petto lacrime ingiuste. «Non sai come sto, non sai cosa sto provando e, come ti ho detto, non ho alcuna intenzione né di superarla, né di affrontarla. Sto bene così.»

Harley sospira. Chiude gli occhi, trattiene un pugno tra le dita, che vorrebbe poter elargire su quel viso già rotto, e spaccarlo definitivamente. Chissà se sotto quello strato di vittimismo e insofferenza c'è il vero Peter... quello che sorride sempre, quello che ha sempre la battuta pronta, quello che ha cuore solo per gli altri e si ama poco, ma splende. Quello di cui Tony gli ha parlato tanto; quello che, nella foto appoggiata allo scaffale della cucina, ride come un pazzo e vive la vita nel pieno delle sue possibilità.

 «Questo non è stare bene, te ne rendi conto da solo?», chiede, a denti stretti e istintivamente alza il braccio nel solo intento di prenderlo per il colletto e strattonarlo. Peter è più veloce. Gli stringe le dita intorno al polso e lo ferma prima ancora che lui possa farlo. Harley rimane spiazzato; dai suoi sensi e dalla stretta. Sgrana gli occhi e lo guarda inerme. Peter è più forte di lui, e non può farci niente. È una forza che non può reprimere, fa parte di lui. Di lui soltanto.

 «Sto bene», sillaba, dopo istanti di silenzio passati solo a guardarsi; a chiedersi chi sarebbe stato il primo a interrompere quel contatto visivo. «E anche non fosse così, non sono affari tuoi. Tienitene fuori, e non lo dico per me... ma per te.»

Harley sussulta. «Per me?», chiede, confuso. Lo sguardo di Peter si addolcisce. Perde quella vena rabbiosa e ne acquisisce una più perentoria, più sofferta. Più premurosa.

 «Senti, Harley... so che vuoi aiutarmi, so che vuoi starmi vicino, so che vuoi diventare mio amico, ma... non sono la persona che tu pensi io sia. Ho una parte oscura che non voglio che tu veda mai. Non voglio che tu sappia... non voglio che tu sappia cosa... cosa io...»

 «È qui che sbagli. Io so. Io lo so... l'ho capito. Peter, non sono stupido. Quella di cui parli non è una parte oscura, è qualcosa che non si può controllare. Nessuno può.»

L'altro sospira. «Non hai capito davvero, allora.»

 «Lo amavi», sbotta e Peter gli lascia andare il polso. Lo guarda come se gli avesse appena infilato una lama nel cuore, poi si copre il viso con le mani. Fa male. Si nasconde ancora, e fa male. «E lui amava te. Cosa c'è di oscuro, in una cosa così?»

Gli stringe gentilmente le dita intorno alle braccia. Lo invita a liberare il viso. Peter non fa resistenza, ma tiene gli occhi chiusi. È livido di vergogna, di paura, di ansia e rabbia. Sentimenti contrastanti, ma almeno sta provando qualcosa. Vorrebbe dirgli di aprire gli occhi e di affrontare la realtà. Gli ha confidato di sapere, nel solo ed unico tentativo di dimostrargli che no, non lo sta giudicando e che sì, vuole aiutarlo a trovare un appiglio. Vuole essere il suo appiglio. Lo vorrebbe con tutto il suo cuore.

 «State litigando?» La voce pura e squillante di Morgan rompe l'aria, e Harley vede Peter spalancare gli occhi sui suoi, distrutto dall'impatto che quella bambina ha su di lui. Quella piccola miniatura di Tony, che lo ricorda troppo e non ne è abbastanza consapevole. Forse non lo sarà mai.

 «No, Maguna.» Peter sorride. Si slaccia dalla prigione in cui Harley è consapevole di averlo chiuso, e spezza la maschera solo per lei. Per lei soltanto. Il vero Spider-Man emerge e Harley lo guarda. Lo guarda e basta. «Parlavamo, e tu non dovresti essere qui, con questo freddo.» Lei si avvicina e lui si piega sulle ginocchia, per poterla fronteggiare.

 «Voglio giocare a acchiappa il ragno», ammette la piccola e Peter non riesce a trattenere un guizzo divertito, che gli fa vibrare le guance.

 «Okay, va a prendere un cappotto. Io mi do una rinfrescata alla faccia, ci vediamo qui fuori tra cinque minuti, va bene? Non un minuto di più», le dice; le passa una mano tra i capelli e lei annuisce, poi scappa via, ridendo. Come se Tony, lei, non l'avesse mai perso. Come se, in effetti, trovasse suo padre in ogni persona che le dedica attenzioni. Forse è così.

Harley ha taciuto, ma avrebbe voluto dire molte cose, quando ha visto Peter splendere, per un solo, dannato attimo. Durato troppo poco – o forse abbastanza, per consapevolizzare perché gli sia così a cuore, quel ragazzo a metà. Poi però Peter si spegne di nuovo. Morgan sparisce in casa, e con lei porta via il sole e la spensieratezza, anche quella fasulla, di qualcuno che non ne possiede più. Harley sente i suoi occhi sui suoi, e non sa che dire. Ha paura. Paura di non sapere davvero chi ha davanti.

 «Ecco cosa c'è di oscuro, Harley... tutto questo.» Non c'è alcuna rabbia, alcun astio, alcun rancore in quella frase. Peter arriccia le labbra e gli lascia ammirare solo il vuoto che ritorna nei suoi occhi, poi si volta e se ne va; lo lascia lì, con mille domande, che non avranno mai una risposta, a quanto pare. Eppure ce n'è una, che gli tartassa la testa, e che gli stringe le meningi come se fosse una morsa; una corda troppo stretta intorno all'anima e al cuore.

Cosa c'è di oscuro, in qualcuno che sa amare così tanto – incondizionatamente – come fai tu, Peter?

Fine Capitolo II

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