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Il massacro (3)

Fosse una sortita, vedrei le prime linee del nostro Anello lanciarsi fuori senza fare un fiato, a gruppi minuti, da direzioni diverse. Fosse una carica, avrebbe onde che si abbattono da più punti, senza dare prospettiva e permettere una difesa. Invece, i Signori dell'altro mare e i loro uomini sono il botto dell'acqua che sfonda l'argine in un punto solo. E con lo stesso fragore, riempiono l'ara sacra delle pozze di Mephti di urla feroci e schianti delle roncole agli scudi.

- Dannazione...

Mi sfugge dalle labbra mentre d'istinto serro la mano al pomo della lama e sollevo la sinistra per bloccare chi mi sta dietro. Se usciamo ora, così, dalla macchia, sarà la fine.

Oltre il limitare dell'ombra e degli sterpi, all'urlo dei Lucani si mischia il grido di terrore delle femmine dei caprai. E gli schiocchi secchi di fischi e latrati di maschi, sputati al cielo e intorno. Al fondo, in sottofondo, latrati feroci e affamati. E tonfi, nemmeno un attimo dopo.

I calzari e il passo pesante delle nostre prime file rombano sulla terra dura e secca. Dozzine di piedi che battono scattando in avanti. Fruscio di sterpi e siepi schiacciate, rami spezzati. Ci si fa il vuoto davanti. Alla prima fila che scatta, segue la seconda, galvanizzata dall'urlo incosciente dei compari. Quando gli altri impazziscono dietro e coprono il distacco, però, qualcosa li ferma e li travolge senza dar modo di tornare indietro. Tonfi, confusi e secchi. E urla di dolore. Piove qualcosa, sulle teste dei nostri. Piove qualcosa tutto intorno.

Alzo gli occhi ma la luce che qui filtra, oltre il confine tra bosco e radura, è un velo bianco che non fa vedere. Snudo il braccio parallelo alla terra e faccio segno di avanzare piano. Dobbiamo avvicinarci, non devono vederci. Mi muovo basso, veloce, sulle ginocchia piegate. Sono l'erba che si muove al vento. Provo a tenere lo stesso silenzio. E quando sono a pochi metri dalle nostre ultime file, un sasso mi piove tra i piedi bucando il tetto verde delle chiome.

- Figli di cagna, ci aspettavano!

Il vorticare di zoccoli ormai è il rullo di tamburo più forte nella battaglia. Di certo non una coppia, di sicuro qualcuno di più. Di certo hanno già sciolto i cani, da che i latrati si mescolano alle urla in un inferno di dolore e ferocia. Stare qui indietro, ormai, non è più possibile, questo è sicuro. A meno di non barattare l'onore e il sangue dei nostri fardelli per una fuga scomposta, correndo a perdifiato da dove siamo giunti.

Sputare dritto in faccia al fabbro guerriero? Mai!

Alzo gli occhi. Trenta passi a destra, una crepa nel muro verde della boscaglia.

- Veloci, per di là.

Continuiamo a muoverci bassi, al piccolo trotto. Le lame assetate tra le mani, sul fianco che resta dietro, davanti lo scudo, pronto a coprirci quando usciremo sulla piana.

I primi passi sono la bocca di un inferno di sangue e sciagura.

Sono quattro i loro cavalieri. Sono almeno al terzo giro, attorno al gruppo che s'è vomitato da solo fuori con la prima sortita. I primi, tra i nostri, stanno già scivolando di schiena o di muso sulle lance che li hanno infilzati. Boccheggiano cercando fiato, con quelle aste in corpo e le punte conficcate nel terreno. Se non crepano prima, toccherà passarli sulla lama da noi, perchè la morte faccia meno male e sia faccenda rapida e onorevole.

I caprai a cavallo adesso ripassano a lama di sica chi prova a colpirli da sotto. L'impeto degli zoccoli e delle cariche è feroce. Sono magli, quei murgiani neri. Magli dell'Orrido che ti piombano addosso e ti fintano il percorso, prima di pigliarti di fianco perchè la lama curva del cavaliere ti assaggi meglio. Contro quella rapidità e quegli scatti, gli scudi servono a poco. Ti butta a terra il petto enorme di quelle cavalcature. O di lato ti spoglia dalla carne il filo del cavaliere.

Nel mezzo, indietro, spauriti, i Signori sono finiti a terra, travolti dall'urto di una mezza dozzina di Molossi. Un paio dei più giovani sono già pezze e stracci tra le fauci di quelle bestie che li scuotono dal collo tra fauci serrate. Chi non s'è fatto travolgere dalla morsa alla gola, sta per terra a contendersi con quelle bestie le budella. Chi prova a scacciarli a colpi di roncola tra le zampe non ha tempo di affrontare le lame dei loro conduttori, che passano rapidi a infilzarti finendo l'opera.

Da dietro, con zifi leggeri come stiletti tra le mani, i più giovani tra questi empi cenciosi tengono distanti i nostri con un lancio di pietre che a raffiche offusca il cielo. Avevano ammonticchiato sassi e robaccia da tirarci appresso già da quando si erano fermati. Lo sapevano che qualcuno sarebbe arrivato. Ci aspettavano. Qualcuno, tra i loro dei, ci aveva contato i passi.

Ci lanciamo furibondi, inattesi. Non è il momento di calcolare. O vivi e vincitori, o tutti, fino all'ultimo, creperemo qui su quest'ara sacra. Prima ancora che il volo del mio braccio a comandare la carica sia completo, sto gridando e faccio vorticare le ginocchia. Sollevo lo scudo incollo l'occhio alla spacca del centro, per guidare i miei passi. La nostra corsa furibonda spiazza chi resiste. E da un sospiro a chi aveva attaccato. Dietro, chi era rimasto impantanato sotto il lancio feroce, rifiata e si riorganizza. Quando le pietre cominciano a cambiare direzione e le braccia di chi lancia sono confuse tra bersagli diversi e cariche da contenere, il grosso dei nostri scavalla le ultime siepi e si riversa nella piana.

Mulino i piedi. Copro la distanza con la roncola pronta, sollevata. Di fianco sento i passi di Aurio e Marno.

- I mastini... per primi i mastini!

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