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50 - L'ABBUFFATA (1)

La crisi di Andrea, paventata da Alessandro, non era arrivata quando il ragazzo aveva scoperto d'aver perso una gamba, ma scoppiò, con tutto il silenzioso fragore interno, appena il ragazzo intravide il volto gonfio e nero della madre. E fu una botta colossale! Come quella di un'onda provocata da un traghetto in un mare già agitato, e che, senza pietà, si abbatte su di una piccola e ignara barchetta di pescatori.

Nonostante l'odore di carne marcia, permeatosi nella stanza quasi in contemporanea alla terribile scena di Lina che crollava a terra, facesse presagire senza alcun dubbio la condizione della donna, Alessandro, per istinto o per deformazione professionale, corse subito sul posto, l'afferrò per le spalle e la girò in posizione supina. Lo stomaco gli si rovesciò di colpo e dovette sforzarsi non poco per evitare alla colazione di finire sul pavimento della "04-MED"; il tutto mentre, intorno a lui, echeggiavano le urla degli altri presenti, incapaci a coprire gli osceni sghignazzi di Francesca, ancora sdraiata, ma con gli occhi vitrei e spalancati.

Nel marasma creatosi sia per l'odore fortissimo, che in una stanza non troppo grande come quella non incontrò difficoltà ad avvilupparsi a tutto e tutti, sia per lo shock, inaspettato, incomprensibile, orribile, Alessandro riuscì a mantenere la lucidità necessaria per capire che, la prima cosa da fare, era proteggere la stabilità emotiva di Andrea, già pericolosamente in bilico su un profondo precipizio, nonostante il sorprendente equilibrio dimostrato. Incontrò il suo sguardo proprio mentre tratteneva a fatica il conato di vomito, lo vide abbassare gli occhi e oltrepassarlo, diretti al viso tumefatto di Lina; e la luce, dentro al ragazzo, si spense.

Si frappose tra madre e figlio, cercando di attirare l'attenzione di Silvia, intenta a coprirsi naso e bocca con una mano, gli occhi spalancati sul nulla, persi nel tentativo di capire cosa diamine stesse succedendo.

«Silvia!» chiamò, cercando di sovrastare il frastuono intorno.

«MAMMA!» Andrea prese a urlare. «MAMMA! NO!»

Si era sollevato e sembrava sul punto di voler scendere dal letto.

Veronica lo bloccò a fatica, ma dovette desistere sentendo, pure lei, la nausea salire verso la bocca molto rapidamente.

Franco, il cui viso pallido trasmetteva un qualcosa che andava parecchio aldilà della paura, si era avvicinato alla nipote, ancora sdraiata, ancora intenta a ridere come fosse un omaccio ubriaco abbandonato sulla panchina di un parco.

«Silvia!» continuava intanto a chiamare Alessandro.

La donna si voltò verso di lui. Aveva gli occhi rossi e gonfi. Gli fece cenno con la testa, indicando prima uno dei letti improvvisati, poi la donna morta che stava tentando di nascondere alla vista di Andrea.

Silvia capì. Si scoprì la parte del viso che stava proteggendo, cercando di respirare il miasma malefico il meno possibile, afferrò il lenzuolo arrotolato sul letto e raggiunse il marito, imponendosi di non fissare troppo la palla nera che era diventata la faccia di quella povera donna; nello stesso, preciso istante, anche Monica era sopraggiunta col viso bianco, e gli occhi che comunicavano un imminente abbandono di ogni raziocinio, cosa che, su di lei, risaltava ancora di più.

«Cosa succede? Cosa le è successo?» chiese, afferrando un lembo del telo e aiutando i coniugi a coprire Lina.

«Non lo so... Forse Franco lo sa!»

«Non è decisamente in sé, oggi!»

«L'ho notato. Ora cerchiamo di fare presto!»

In realtà, nella testa di Alessandro, risuonavano forti e chiare le parole dette da sua moglie la sera prima, dopo aver fatto l'amore sotto la doccia ed essersi rintanati sotto le coperte, nell'ultima chiacchierata prima del sonno, a bassa voce, per non svegliare Antonio, addormentato nel letto a fianco.

"Lina era sotto alla bolla. L'alieno l'ha risvegliata."

Non avevano approfondito perché gli occhi, già piuttosto cascanti per la giornata gravosa, erano diventati all'improvviso terribilmente pesanti, impossibili da tenere aperti; e quella mattina, l'informazione era caduta nei meandri più nascosti dei suoi pensieri.

Ma, il particolarissimo frangente e la domanda di Monica avevano riportato a galla subito tutto, senza però alcun collegamento, alcun aggancio ad altre situazioni conosciute. La frase prese a ronzare nella sua testa e nelle sue orecchie, senza che Alessandro ne conoscesse il motivo o il significato. Ma sapeva che c'era, se lo sentiva, lo percepiva, e la sensazione era orribile.

Sistemarono il lenzuolo alla buona mentre, con la coda dell'occhio, vide Andrea lavorare con ferocia, ma in modo piuttosto maldestro, sull'ago della flebo infilato nel suo braccio.

«Silvia, porta via la ragazzina. Monica, tu il vecchio!» e si fiondò sul ragazzo.

«Buono, Andy. Buono.»

«NOOO! MIA MAMMA! LASCIAMI!»

«Silvia!»

La moglie, che aveva già aiutato Veronica ad alzarsi, si voltò.

«Portami quella boccetta rossa e una siringa. Subito!»

«COS'E' SUCCESSO A MIA MAMMA?»

Andrea era in preda a una vera e propria crisi, e nessuno poteva biasimarlo.

Alessandro non disse nulla. Ogni parola sarebbe stata vuota, inutile, priva di significato per il giovane. Lavorò più in fretta che poté.

«COS'E' SUCCESSO? DIMMELO! COS'E' SUCCESSO A MIA MAAA...»

Lo stantuffo iniettò il calmante tutto in un colpo (questa volta, una dose più massiccia) e, tutto in un colpo, Andrea si calmò, restando a occhi aperti, a fissare il soffitto.

«Veronica, come stai?» chiese alla ragazzina in lacrime, che si stava sciacquando la bocca, fissando il suo ragazzo. Fece di sì con la testa.

«Allora aiuta Silvia a portare Andrea via di qua. Per fortuna, il letto ha le ruote.»

Intanto aveva afferrato un'altra siringa e si era portato dietro a Francesca. Monica stava uscendo, spingendo la carrozzina di un Franco quasi catatonico.

«Lascialo lì fuori, Monica, e aiutami a portar via anche lei.»

Le risate di Francesca, ormai più somiglianti a grida, lo stavano assordando, mentre riempiva la pancia della siringa. Gliene aveva appena somministrato una dose importante, ma era lì, sveglia, o qualunque fosse lo stato in cui era in quel momento. Decise di dargliene una dose ancora più massiccia; qualunque cosa pur di farla tacere. Sperava di non esagerare, di non mandarla di nuovo in coma, o peggio. Ma faticava a ragionare con tutto il fracasso, immerso in quella puzza, in quell'orribile situazione, per cui si lasciò guidare dall'istinto, come aveva fatto fino a ora. Era già più di quel che sperava.

La stanza si silenziò di colpo.

Francesca era di nuovo a occhi chiusi, la bocca appena aperta, un rivolo di saliva che colava sul mento pronunciato.

Alessandro rimase impietrito per alcuni secondi, con la siringa in mano. L'odore, sempre più acre, sempre più pungente, lo risvegliò.

«Ha smesso da sola?» chiese Monica, raggiungendolo.

Annuì. «Non ci capisco un'acca! Portiamo fuori anche lei.»

Lanciò la siringa sul tavolo e cominciò a spingere il letto, aiutato dal donnone.

«Portiamoli su nelle camere. A prescindere dal puzzo che c'è qui, ormai possono stare in una vera camera, su un vero letto. Mi porto dietro il necessario per continuare ad assisterli.»

«E lei?» Monica indicò il triste fagotto bianco steso a terra.

«La seppelliamo, io e te. C'è un sistema di aerazione qui sotto?»

«Sì.»

«Bene. Attivalo e leviamoci da questo tanfo insopportabile.»


Andrea cadde in fretta nell'oblio della sedazione.

Si ritrovò seduto sul ciglio di un lungo scivolo che, con lieve dolcezza, snodandosi in ampie e aggraziate curve, scendeva verso un vasto prato all'ombra che profumava di fiori e di riposo sereno.

Si sentiva stanco e aveva una voglia irresistibile di andare a sdraiarsi sull'erba, alla vista soffice e tiepida.

Appoggiò le mani ai bordi per darsi la spinta e lasciarsi trasportare verso la meravigliosa pace che s'irradiava dal basso.

Ma un tocco sulla spalla lo bloccò.

Non fu sgarbato e deciso, né affrettato o violento; ma una carezza, quasi una lieve preghiera a voltare un momento la testa, prima di lasciarsi andare. Andrea non poté resistere, anche se la spossatezza era opprimente, e quasi faticava persino a rimanere seduto.

Dietro di lui c'era sua mamma, in ginocchio, su uno sfondo talmente bianco che faceva male solo a guardarlo, bella come una mattina innevata, radiosa com'era stata solo quando le avevano posato in grembo il suo piccino, appena nato. Il sorriso era largo, spontaneo, privo di qualsiasi tristezza, ripieno solo di vera gioia traboccante, che si rifletteva pure negli occhi vivi, pieni dell'amore più intenso, più luminoso, più penetrante: l'amore verso un figlio, l'amore più potente, l'unico capace di riempire ogni fessura, ogni porosità dell'animo umano, e far sentire un individuo completo.

«Mamma!»

Andrea cominciò a piangere. La stanchezza si era sciolta in un dolore leggero.

Lei lo abbracciò e lui si immerse nel suo profumo, lo stesso che aveva quella mattina quando si era risvegliato in una stanza che non conosceva e, prima di sapere dove fosse, prima di scoprire di non avere più una gamba, prima di qualsiasi cosa, lei, la sua mamma, in lacrime al suo fianco, l'aveva stretto a sé, forte come faceva sempre quando lui andava via, forse per trattenerlo, e quando tornava, per accoglierlo di nuovo tra le sue braccia.

«Sei veramente morta?» chiese.

Lina si staccò e lo fissò in viso. I suoi contorni sbiadivano appena, confondendosi col nitore dello sfondo, come se la luce si sforzasse di penetrare la candida pelle delle sue gote. Per un fugace attimo, ad Andrea parve di vedere solo il nero dei lunghi capelli corvini ma, al successivo battito di ciglia, il viso di sua madre era ancora lì.

Gli accarezzò una guancia con tale dolcezza che la pelle di Andrea vibrò di brividi.

«Mamma! Sei morta?» ripeté.

La mano di lei indugiava sul viso del figlio; l'altra era posata sulla sua schiena. «Segui il tuo cuore. E ama!»

«Voglio restare qui con te.»

Il sorriso di Lina s'incrinò appena, e due grosse lacrime le rigarono il viso; quelle sottili increspature, normali, quasi impercettibili su qualsiasi volto, su di lei risaltarono come uno schizzo di fango su un vestito da sposa, tanto la sua purezza era totale.

Scosse la testa spingendo, sempre con estrema dolcezza, Andrea giù per lo scivolo.

Il ragazzo nemmeno se ne accorse e, leggero come non era mai stato, scivolò in basso, già addormentato.


Silvia, dall'interno dell'ascensore, tirava a sé il lettino su cui giaceva Andrea profondamente sedato, mentre Veronica, all'altro capo, spingeva.

La ragazzina aveva il cuore in pezzi per Lina, la madre del ragazzo che amava. Non capiva cosa fosse successo, ma non aveva dubbi che fosse morta. L'aveva già creduto anche prima, quando l'aveva vista stesa, insieme al suo papà e a tanti altri, nello spiazzo davanti a casa. Eppure, qualche dubbio le era sorto. Ora, invece, la puzza insopportabile e il viso gonfio e nero della donna, tipico di chi è morto ormai da qualche giorno, avevano spazzato via tutti i dubbi. Era straziante e molto ingiusto.

Ora che, contro ogni più rosea speranza, Andrea aveva ritrovato la madre, ora che avrebbe avuto bisogno di lei, vista anche l'assenza del padre, la riperdeva, questa volta per sempre.

Anche lei aveva perso, ritrovato e ancora perso il suo papà; anche lei era senza mamma. Eppure, si sentiva più triste per lui, in quel momento, e vederlo dormire, anche se sotto sedazione, pensandolo sereno e tranquillo per un po', era l'unica consolazione che riusciva a scorgere.

Ma non pareva così. Il ragazzo piangeva; dormiva un sonno profondo, ma piangeva.

La figura di Ismel si stagliò nella mente di Veronica.

"Lascialo in pace!" pensò, mentre la rabbia montava con furia.

"Almeno mentre dorme... lascialo in pace!"

Le porte dell'ascensore si chiusero mentre giungevano Alessandro e Monica; il primo spingeva il letto di Francesca, l'altra la carrozzina di Franco.

Lo sguardo della ragazzina s'incrociò per un secondo con gli occhi del vecchio; occhi spenti, ben diversi da quelli che l'avevano invitata a fare una chiacchierata, meno di un'ora prima.

Quando l'ascensore cominciò a salire, il calore le friggeva dentro, ribollendo per tutto il corpo.


È difficile sostenere con certezza quante emozioni possa sopportare l'animo umano; un cuore già troppo agitato potrebbe cedere, anche all'arrivo di una bella emozione, se troppo intensa. È come voler aggiungere ulteriori livelli a un castello di carte già pericolante, usando quelle belle, lisce, piacevoli al tatto. Il castello, con tutta probabilità, crollerà.

Il rapporto tra Roberto, Alberto e il gruppo piombato all'improvviso sulla loro strada, non era partito nei migliori dei modi, soprattutto grazie al fucile puntato contro quei cinque cuori che già annaspavano con fatica, chi per un motivo, chi per un altro, in un mare agitato da emozioni contrastanti.

La struggente rappacificazione tra Cata e Ando aveva un po' rasserenato gli animi, e la conseguente scoperta fatta da Roberto e Alberto (con annesso ridicolo balletto saltellante inscenato dai due!), aveva fatto spuntare, nei loro confronti, un piccolo germoglio di empatia. La catena di velocissimi avvenimenti che, subito dopo, piombò loro davanti agli occhi, dentro al naso e alle orecchie, fece riemergere l'iniziale diffidenza, avversione o paura che i cinque arrivati avevano avuto nei riguardi dei due uomini.

Non fu l'improvviso lampo rosso che colorò di sangue il cielo, né l'attimo di sospensione che mozzò i respiri, né la tremenda puzza che ne conseguì, comunque parecchio nauseante.

Furono le urla agghiaccianti, cariche di disperazione che presero a rimbombare dal retro del furgone.

Roberto e Alberto rimasero immobili, ancora abbracciati come due pupi siciliani intenti a combattere, prima che il maniante mollasse ferri e filo.

«Che cazzo è?» chiese Franco coprendosi naso e bocca con la mano. Si voltò d'istinto verso Beatrix e Angelica, che stavano facendo la stessa cosa.

«Chi c'è lì dentro?»

Cata, pure lei con l'espressione disgustata, si era girata verso la provenienza delle grida, mentre suo marito, col braccio sulla faccia, faticava a capire cosa stesse accadendo.

«Aspetta!»

Alberto si divincolò dall'abbraccio con l'amico e si piazzò davanti agli sportelli posteriori del furgone. Le grida all'interno erano strazianti.

«Chi siete? Cos'avete combinato?»

«No... Vi spiego...»

«Avete rapito qualcuno? Chi c'è lì dentro?»

Anche Franco si era affiancato a Cata, raggiunta pure da Ando. «Spostati!» intimarono ad Alberto.

«Guardate che state sbagliando...»

«Spostati!» Franco divenne minaccioso.

«Senti come urla!»

Angelica aveva gli occhi lucidi e si abbracciò con Beatrix, quasi cercasse protezione.

«Oh, insomma!»

Roberto spostò con irruenza Alberto e spalancò i portelloni.

«Che cazzo hai da urlare tanto?» chiese a Enrico, ammanettato, completamente fradicio di sudore, gli occhi rossi e gonfi di lacrime, e un'imbarazzante pozza gialla che ristagnava tra le sue gambe.

«Ma...» Franco rimase un attimo allibito.

«Vi assicuro che non siamo noi i cattivi» cercò di giustificarsi Alberto, toccandosi d'istinto lo zigomo sinistro colpito dal pugno di Enrico che, ancora, al contatto, un po' gli doleva; vedendo il tipo di sguardi puntati su di lui e Roberto, sentì l'improvvisa mancanza del fucile, lasciato sul sedile.

«È un ragazzo!» disse Cata, impietosita dall'aspetto e dallo stato in cui versava Enrico.

«Siete due mostri!» aggiunse Beatrix, stringendo più forte Angelica che si era messa a singhiozzare. Quasi nessuno pareva più far caso all'odoraccio che aleggiava intorno a loro.

Ando, dopo un fugace sguardo d'intesa con Franco, si fece avanti.

«Calma, calma!» Roberto cercò di sedare gli animi.

«Calma un cazzo! Avete rapito un ragazzo e lo tenete imprigionato! Perché?»

«Non abbiamo rapito nessuno, te lo giuro! Smettila, tu!» sbraitò Alberto, assordato dalle urla sempre più disperate. «Questa merda faceva parte di una setta e voleva ucciderci. E t'assicuro che non puoi nemmeno immaginare in che modo!»

Insieme a Roberto si erano posizionati davanti all'entrata, pronti a fronteggiare Franco e Ando, sempre più minacciosi.

«Mi prendi per il culo, per caso?»

«È vero!» si affrettò a dire Roberto. «Se ci lasciate raccontare tutta la storia...»

«Levatevi!» ringhiò Ando, incurante di come quei due uomini, soprattutto l'omone con la barba, fossero più grossi di lui.

«È TUTTO VERO!» prese a strillare Enrico. «È tutto vero!»

Si zittì, e l'improvviso silenzio cha calò nelle orecchie di tutti, riaccese nei loro nasi lo sgradevole odore che c'era nell'aria.

Tutti i volti, storti dal disgusto, si fissarono sul ragazzone che respirava pesantemente, a testa bassa, mentre grosse lacrime scendevano copiose dai suoi occhi. La pena che stava suscitando sulle tre donne era ai livelli massimi.

Alzò lo sguardo su Roberto, Alberto e sulle altre persone sconosciute.

«Ho ucciso una bambina!» sussurrò, riabbassando lo sguardo e rimanendo in silenzio.


Cata e Ando erano saliti in casa, accompagnati dal "fate presto" di Franco, seduto sul ciglio del marciapiede a fianco di Alberto, con l'intento di sfruttare i minuti dell'attesa per farsi raccontare un po' di cose, nella speranza di cominciare a vederci un po' più chiaro.

Roberto, abbacchiato più del solito, era davanti ai portelloni aperti del furgone con Angelica e Beatrix, e contemplava Enrico con disgusto e perplessità. Le urla che aveva lanciato, lo sguardo, il tono della voce; tutto sembrava indicare un reale, inaspettato e, a dirla tutta, meschino pentimento, anche se, per quel poco che lo conosceva, poteva essere solo una prova da consumato attore.

A prescindere da tutto, comunque, non aveva intenzione di slegarlo finché non fossero giunti a destinazione, e sapeva che Alberto era d'accordo con lui.

«Cos'è questa storia della bambina?» chiese Franco, mentre fissava Beatrix, Angelica, e gli occhi carichi di pietà che avevano in quel momento. «E come fate a conoscere i nostri nomi? Chi siete?»

«Alberto Recatto. E lui è Roberto Nani. E per dimostrarti che non siamo due fanfaroni, ti dico anche che voi state andando su in Trentino, all'FDS, da Franco de Simone. Mesi fa hai ricevuto una telefonata strana, da una donna. Giusto? O mi sto sbagliando?»

Franco ridacchiò. «Tu come lo sai?»

«Perché quella donna si chiama Francesca, ed è la mia ragazza. Ero lì presente quando ti ha chiamato, e tu le hai sbattuto giù il telefono.»

«Ehm... Io...»

«Tranquillo! L'avrei fatto anch'io, sentendomi raccontare una storia del genere!»

«Come potevo sapere che...»

«Ho detto che non c'è nessun problema! Ti dico la verità... A volte faccio ancora fatica a crederci adesso!»

«Racconta, allora.»

«E i due sposini?» intervenne Roberto. «Anche loro devono sapere.»

«Gli riferiamo tutto durante il viaggio. Promesso» concluse Franco.

«Per il momento vi dirò solo l'essenziale. Sono sicuro che Franco ci attende, su nella sua fabbrica, con parole molto più dettagliate ed esaustive.»

Pensò, senza volerlo, alle macchine che l'ingegnere gli aveva mostrato, e ora che conosceva i visi di quasi tutti gli scrigni, senza farlo vedere, rabbrividì.

Aveva considerato un grosso problema la presenza nel gruppo di Enrico, anche prima di tutte le orribili nefandezze cui aveva preso parte, a causa dell'indole remissiva che si portava appresso. Ora poteva vedere bene chi fossero gli altri, coloro che avrebbero dovuto salvare il mondo: un uomo con la pancia, una signora, non più giovane e sovrappeso, e una coppia in formato tascabile.

"A questi, e a quel lardoso pezzo di merda, ci aggiungiamo una ragazzina, un quasi cinquantenne con la barba e un ergastolano! Ah... dimentico l'ex ragazzino down, che comunque ancora non abbiamo trovato!" pensò, accorgendosi, ma ignorando, il cinismo che aveva messo in quel pensiero. "L'ho sempre pensato, ora ci credo... Siamo proprio nella merda!"

«Va bene, va bene. Non abbiamo troppo tempo» disse Franco, distogliendolo dalle sue elucubrazioni.

«Appena tornano Cata e Ando io voglio riparti' subito!» disse Angelica, bianca in volto. Da quando si era vista puntare contro il fucile, le era nato un improvviso e urgente bisogno di infilarsi in un qualsiasi posto dove potesse sentirsi al sicuro. Al momento, quella misteriosa fabbrica di cui tutti parlavano, sembrava il luogo giusto.

Alberto cercò di essere il più stringato possibile e spiegò loro chi fosse Ismel, cosa, in teoria, volesse dagli umani, e come Nicolas avesse esternato i suoi poteri grazie all'arrivo del servo, donandoli, senza volerlo, a coloro che guariva.

«Ecco che si spiegano molte cose, allora» disse Franco, quando Alberto chiuse la bocca.

«In che senso?»

«Diciamo che, quest'energia dentro di me, si è già palesata. Più di una volta. Anche a Cata è successo qualcosa. E sono sicuro, anche al su' marito, sebbene lui neghi.»

«A me non è successo nulla, invece» intervenne Beatrix. «Perché a loro sì e a me no?»

Roberto scosse la testa. «Non lo sappiamo. Anche Alberto ha sparato un raggio contro a una delle sentinelle. Io, invece, sono stato capace solo di non farmi catturare. E senza volerlo, per giunta.»

«Non sappiamo rispondere a queste domande» disse Alberto. «de Simone, forse, potrà farlo.»

«E lui?»

La voce di Angelica era flebile, quasi un palpito, mentre indicava, con un dito tremante, l'interno del furgone.

«Lui!» Roberto ridacchiò con amarezza.

Enrico non aveva emesso più un fiato. Ogni tanto alzava la testa, per poi riabbassarla subito.

«Anche lui è uno scrigno, purtroppo.»

«Purtroppo?»

Beatrix lo fissava; le faceva pena, molta pena.

«Mi dispiace ragazzi. Non so cosa mi sia preso...»

«Zitto! Non penserai mica di cavartela così, vero?»

Alberto si era alzato minaccioso, con lo sguardo duro.

«Si può sapere cos'ha combinato?»

Stavolta fu Roberto a raccontare, e man mano che le parole uscivano dalla sua bocca e si infilavano nelle orecchie di Franco, Beatrix, Angelica, i loro visi si storcevano sempre più in ghigni di incredulità e di orrore. Avrebbero preferito non credere a ciò che udivano, ma sia Roberto che Alberto avevano dimostrato di non raccontare fandonie; senza contare poi, che lo stesso Enrico aveva ammesso le sue colpe.

Roberto concluse il racconto con l'arrivo in quella strada e l'agguato subito dall'alto del palazzo; nessuno parlò per qualche secondo. Si sentivano solo i singhiozzi sommessi di Enrico, come se avesse compreso che, strepitare e disperarsi, nella sua situazione, contasse veramente poco, se non nulla.

Beatrix continuava a fissarlo con occhi carichi di tenerezza. Ciò che aveva udito era terribile, e terribile non rendeva l'idea. Ma alla scena del sacrificio, descritta con quelle parole così crude, lei non aveva assistito. Era entrata nella sua testa e la vedeva secondo la sua fantasia, come, era sicura, stavano facendo anche Franco e Angelica; e rabbrividiva per la cattiveria, l'orrore consumatosi in quella cosiddetta setta. Ma la scena non l'aveva vissuta in prima persona.

Il ragazzo invece... quel ragazzone grasso, sporco, impaurito, in preda a una disperazione quasi tangibile e che sembrava in ritardo di cinque minuti rispetto a tutti, era lì, davanti ai suoi occhi. E non poteva non suscitarle una pena profonda e straziante.

«Quindi quel corpo vicino all'ingresso del palazzo, è uno dei...» disse all'improvviso Franco.

«Sì. Era uno di quegli stronzi. L'ho cacciato giù dalla finestra io stesso, prima che ci ammazzasse.»

Alberto pensò a Denis, seppellito dall'altra parte della strada ma, visto che Roberto non l'aveva nominato, ritenne fosse saggio accodarsi. Avrebbe complicato la storia e già leggeva confusione negli occhi di quella gente. Confusione e paura!

«Avrebbe bisogno d'essere lavato» disse Beatrix, quasi senza volerlo, con la mente e lo sguardo fissi su Enrico.

Sia Roberto, sia Alberto, la guardarono con occhi sgranati.

«Vorresti... lavarlo? E poi? Metterlo a nanna e rimboccargli le coperte, anche?»

Franco si alzò di scatto. «Non rivolgerti con quel tono a mia moglie?»

Alberto rimase un attimo senza parole. Fu Roberto, ad aiutarlo.

«Scusa, Franco; ma avete capito che razza di persona è costui?»

«Vi ho detto che sono sul serio dispiaciuto, e...»

«Tu, taci!» ringhiò Alberto. «Va bene, mi scuso con tua moglie. Ma...»

«Ho solo detto di lavarlo!»

«Non merita niente!»

«Che poi, secondo il tu' racconto, ha solo guardato...»

«Voi non avete visto...»

«BASTA!»

La voce di Angelica riacquistò di colpo una potenza che lasciò lei stessa impressionata.

«Vi prego, basta. Non ce la faccio più a sopportare questa pesantezza, questa gravosità che c'è... dappertutto. Voglio andarmene da qua. Voglio allontanarmi da questa puzza, da tutti quei corpi distesi. Voglio arrivare in Trentino, in quel posto. Voglio rinchiudermi da qualche parte e sentirmi al sicuro. Vi prego.»

Alzò gli occhi lacrimosi su Roberto, che la fissava in silenzio, insieme agli altri.

«Ha ragione» intervenne Beatrix. «Come si può salvare il mondo se discutiamo tra noi per ogni cosa.»

Si voltò e aprì il baule del SUV. Prese due bottiglie d'acqua ed entrò nel retro del furgone. Ne aprì una e la versò con dolcezza sulla testa di Enrico.

Alberto si mosse, ma Roberto lo trattenne, fissandolo e facendo no con la testa, mentre Franco guardava la scena.

Anche Angelica salì e, presa l'altra bottiglia, diede da bere al ragazzo, le cui lacrime si erano intensificate e, tra una sorsata e l'altra, ripeteva incessantemente grazie.

«Avrà fatto quel che avrà fatto, ma è un essere umano. Tutti meritano una seconda possibilità.»

A quelle parole, Alberto si sentì come tagliato in due da una lama; all'istante, nella mente, si materializzarono le immagini dei due sacchi neri che giacevano in un fosso...

Deglutì, accorgendosi che Roberto lo fissava. Sapeva quel che stava pensando? Senza dubbio. E si vergognò.

«Perché ve lo portate dietro?» chiese Franco, in un sussurro che fece comunque trasalire Alberto.

«Servono tutti gli scrigni per fronteggiare Ismel. Almeno a quanto dice de Simone.»

Si risedette sul marciapiede e si rivolse a Beatrix che stava scendendo dal furgone.

«Tu hai ragione. Hai certamente ragione. Ma io non potrò più fidarmi di lui. Vi assicuro che le urla di quella bambina e del suo papà non me le toglierò mai più dalle orecchie.»

"E le urla di quelle due donne Alberto? Le senti ancora?"

Si chiedeva come quelle persone avrebbero reagito, se fossero venute a conoscenza del suo sgradevole passato.

Guardò Roberto, e apprezzò il fatto che non avesse detto nulla su di lui. Nonostante si conoscessero solo da pochi giorni, non aveva più alcun dubbio d'aver trovato un vero amico.

Gli tornò in mente il lungo e complicato discorso che gli aveva fatto de Simone quella sera: l'abbandono dell'egoismo, la fiducia che deve crearsi nella squadra. Non può funzionare se tutti non aprono completamente il proprio cuore a tutti.

"Dovranno saperlo, Alberto. Dovrai raccontare cosa hai fatto..."

«Ma... questa squadra... noi, diciamo... Cosa dovremmo fare?»

Di nuovo la voce di Franco lo riportò alla realtà; gli occhi dell'uomo suggerivano un'ombra di preoccupazione, pronta a sfociare nella paura.

«Anche questo non lo so. Ma il vecchio ci dirà tutto, vedrete.»

Alberto mentì, mentre le macchine viste nel sotterraneo dell'FDS, ripresero a svolazzare davanti ai suoi occhi.

"Bugie, cose non dette... Per il momento non stai assolvendo il compito proprio in maniera perfetta!"

«Se parliamo di fiducia, anche il tizio, là...» Franco indicò con il dito il palazzo in cui erano entrati Cata e Ando. «Non è una delle persone più equilibrate che conosca.»

Roberto gli si piazzò davanti. «In che senso?»

«Ehm, ehm.»

Beatrix si schiarì la voce per attirare la loro attenzione. La coppia stava uscendo dall'androne. Cata, così come quando era salita, si tenne lontana dal cadavere di Gabriele, riverso a pancia in su, a metà tra il vialetto e il piccolo giardino.

«Noi siamo pronti!» disse Ando, sorridente, sollevando con il braccio la sacca che trasportava. «Abbiamo fatto scorta di vestiti e mia moglie indossa un paio di scarpe.»

«Vi sentivamo parlare... Ci spiegate un po' di cose anche a noi?» chiese Cata.

«Vi raccontiamo in macchina» fece Franco, avviandosi verso lo sportello del SUV.

«Dio, che puzza! In casa si sente meno.»

Ando si tappò il naso con le dita.

«Caspita!» Anche Franco, fece lo stesso gesto. «A parlare e raccontare, non ci facevo quasi più caso. Vabbè, si va?»

«Su in Trentino?» Gli occhi di Angelica guizzarono di speranza e conforto.

«Roby vorrebbe ripassare da casa sua, prima.»

«Non lo so, Alby...»

«Non vuoi più andare a prendere tua moglie?»

«Di cosa state parlando?» domandò Franco.

«Proprio dell'odore...»

Alberto fissò due occhi stralunati in faccia all'amico. Aveva capito subito a cosa alludesse. «Tu pensi che...»

Roberto annuì mestamente.

«Di che cazzo parlate?» Il sorriso era sparito dalle labbra di Ando, e Cata, imbarazzata per il tono che aveva usato, lo colpì leggermente sul braccio.

Alberto notò la tristezza impressa sul volto di Roberto e, pensando d'aiutarlo, prese la parola.

«Non avete fatto caso in questi giorni, da quando sono sparite le bolle, che nell'aria non c'è mai stato cattivo odore? Il cattivo odore che c'è ora, per intenderci. Insomma... quanti corpi stesi sui prati o nelle strade avete incontrato? Corpi che erano sotto le cupole, persone catturate fin dal primo giorno. Presunti cadaveri, uccisi da... Ismel. Non mi riferisco a quelli morti come lui» indicò Gabriele. «Con questo caldo, dopo giorni...»

«Sarebbero marciti!» concluse Angelica, inorridita.

«E si sarebbe sentita la puzza che si sente ora» aggiunse Cata.

«Figa di biscia!» Ando tossì e sputò per terra, guadagnandosi un'altra occhiataccia dalla moglie.

«Quindi, cosa volete dire? Che tutto in un colpo i corpi si so' marciti?» chiese Franco, ancora in piedi davanti allo sportello aperto del SUV.

«Ho paura di sì» rispose Roberto, lo sguardo assente. «Quel lampo rosso di poco fa...»

«Cos'era Roby? Cos'è stato?»

«Non ne ho la più pallida idea. Ma la puzza è arrivata subito dopo...»

Beatrix sospirò. «È terribile!»

Ando aprì il baule e ripose la sacca. «È solo una vostra supposizione, però!»

«E tua moglie cosa c'entra?» chiese Franco.

«Era sotto a una bolla anche lei. La mia idea è che tutta quella gente, in realtà, non sia morta. Cioè, lo credevo fino a dieci minuti fa. Per questo volevo tornare a casa mia, prendere il corpo e portarla con noi, nella speranza si risvegliasse, prima o poi.»

Concluse la frase con la voce incrinata, mentre ancora le parole del sogno avevano ripreso a cantilenargli nella testa. L'idea che i corpi fossero marciti, compreso quello di Lina, cozzava contro il pensiero che Andrea, o chiunque parlasse con la sua voce, gli aveva piantato nel cervello durante quel sogno. Ma sebbene, a forza di pensarci, ragionarci, fare elucubrazioni più o meno fondate, l'immagine di sua moglie, sveglia ma non troppo, in giro da qualche parte, a caccia di lui, cominciasse a fare presa, il suo cuore ancora, disperatamente si ribellava.

Alberto gli pose una mano sulla spalla, mentre Angelica lo fissava con occhi tristi.

«Se ho ragione e i corpi sono marciti... Non voglio vederla. Capite cosa intendo?» concluse.

Tutti annuirono.

«Scusa, fammi capire bene...»

Franco si schiarì la voce.

«Tu credi che tutta quella gente sia morta in realtà da dieci minuti? Dopo quella cosa strana successa poco fa? Se questo odore è il loro... insomma, un corpo non puzza così dopo solo dieci minuti. Se ho capito bene, il tizio laggiù, volato di sotto, è morto oggi, giusto? Diciamo un'ora fa? Cata, Ando... Voi ci siete appena passati accanto... Puzza?»

«Scusa, Franco, ma non l'ho annusato. E poi, con quest'odore nell'aria, come fai a capirlo?»

«Vabbè, a prescindere dall'odore... comunque la sua pelle è ancora chiara. Lo si vede anche da qui. Non è nero, gonfio...»

Angelica sospirò e si abbracciò con Beatrix. «Dio mio!»

«Non hai capito cosa intende dire il mio amico, Franco» s'intromise Alberto. «Lui sostiene che quel lampo rosso, in qualche modo, abbia portato lo stato dei corpi alla stessa putrescenza che avrebbero se fosse cominciata da subito, appena le bolle si sono estinte. Giusto, Roby?»

L'altro annuì, se pur avesse gli occhi carichi di afflizione, sapendo d'aver ragione. «È solo una teoria. Non so nemmeno come mi sia venuta in mente!»

«Ma... It's impossible

Franco si voltò verso Ando; non aveva avuto per niente nostalgia del suo inglese usato a caso, e sentirlo, in quel momento così pesante, gli diede un fremito di rabbia che riuscì a reprimere solo con uno sforzo. Anche se, doveva ammettere, pure lui considerava la questione piuttosto inverosimile.

«Perdonatemi, ma questa faccio fatica anch'io a rendermela credibile.»

«Ti capisco» disse Roberto. «È abbastanza orripilante, in effetti; ma, ribadisco, è solo una mia teoria. Anche se ho paura di non sbagliarmi troppo.»

«C'è solo un modo per scoprire se hai ragione.»

Tutti i visi si girarono verso Ando.

«Qui vicino c'è il parco del palazzetto, ed è pieno di corpi. Ci siamo passati prima. Andiamo là, e vediamo cosa è successo con i nostri occhi.»


«Io non ho nessuna intenzione di veni' a vedere corpi in putrefazione!»

Angelica era seduta sul bordo del furgone, la testa bassa, le mani, dorso contro dorso, infilate tra le ginocchia.

«Già l'è dura vedere quella gente sdraiata. Voglio ricordarlo com'era...»

Roberto aggrottò le sopracciglia e Beatrix, al suo fianco, gli sussurrò all'orecchio "suo papà".

«Vo' andate pure!»

«Rimango con lei» disse Beatrix, sedendosi al suo fianco.

«Resto anch'io» aggiunse Cata. «Prendete il SUV. Badiamo al prigioniero, intanto.»

Enrico aveva smesso di piangere e implorare. Assisteva alla scena in silenzio, alzando la testa di tanto in tanto.

«Vi s'aspetta qui» concluse Angelica.

Alberto increspò leggermente le labbra in un sorriso nel sentire lo spiccato accento toscano della donna; era un tipo di parlata che aveva sempre adorato e gli rammentò che, con molta probabilità, la comitiva giungeva dall'Isola d'Elba, la dannata Isola d'Elba che sovente, in quei giorni, si era baloccato di capire come raggiungere. Non avrebbe mai immaginato, tantomeno sperato che, invece, sarebbe stata lei a venire da loro!

"A parte la coppietta. Loro abitano qui. Erano là in vacanza, dunque. Francesca aveva ragione: due scrigni sposati! E non sono i soli... Anche Franco e Beatrix! Cristo! L'americana che non sapevamo nemmeno come poter trovare... Che fortuna abbiamo avuto?"

Ma cominciava a sospettare non si trattasse solo di fortuna. E, senza farsi attendere, davanti ai suoi occhi cominciò a ballare il viso di Franco de Simone che lo fissava con i suoi occhietti azzurri e indagatori.

E Francesca! Ogni volta che, in qualsiasi modo, la nominava o indugiava i pensieri su di lei, il cuore gli sobbalzava, e cominciava a sentire una sorta di brivido srotolarsi intorno al suo corpo. Quanto le mancava! Quanto l'amava!

"Eppure, non le sono stato fedele. In qualche maniera, devo sempre trovare il modo d'infrangere le leggi, che siano quelle del mondo o quelle del cuore!"

Non aveva pensato più a Dalila e a quello successo nella stalla, da quando avevano lasciato i "Ginepri". Certo la sua mente era stata piuttosto distratta da ciò che era successo, e ancora succedeva, tutt'intorno, dalle esperienze, terribili ed emozionanti, che aveva dovuto affrontare: l'orribile morte della mamma di Roberto, l'incontro con Enrico, i suoi racconti, il suo tradimento, la setta, la bambina e il suo papà. Il dolore delle loro urla se lo sarebbe tenuto dentro per tutta la vita.

E ora, gli altri scrigni! Di fatto, piovuti tra le loro braccia.

"Mi resta solo ritornare dalla mia ragazza!"

Ma, ora che Dalila, quella donnetta piccola, misteriosa, a suo modo affascinante, si era intrufolata nei suoi pensieri, una nuova preoccupazione lo pungolava. Cosa sarebbe successo se, una volta giunta all'FDS, avesse raccontato tutto a Francesca e Franco? Lei conosceva le sue colpe e sapeva che aveva fatto amicizia con colui che aveva sterminato la sua famiglia. Rivelare la sua infedeltà poteva essere una sorta di piccola vendetta. Dalila era vendicativa? Non che la conoscesse a fondo, ma... Quegli occhi, quello sguardo... L'idea di deludere chi tanto aveva creduto in lui, nonostante ciò che aveva fatto, era intollerabile. Se solo avesse potuto parlare con Dalila di nuovo, pregarla di non dire nulla per evitare di fare soffrire qualcuno che...

«Pronto? Terra chiama Alberto!»

Si ritrovò la mano di Roberto che sventolava davanti alla sua faccia.

Alberto batté le palpebre un paio di volte. «Dimmi?»

«A dire la verità, ho già detto! Andiamo?»

«Oh, certo. Prendo il fucile.»

Salì sul sedile posteriore, al fianco di Ando.

«Solo per sicurezza» aggiunse, vedendo l'espressione dell'uomo puntata sull'arma. Franco accese il motore e l'auto si mosse.

Il tragitto fu breve.

L'aria malsana entrava dai finestrini abbassati sempre più densa e cattiva, man mano si avvicinavano. Aveva un non so che di dolciastro al suo interno e, insieme all'afa opprimente che non dava tregua, pareva appiccicarsi alla pelle in maniera pesante, avvolgente; più di una volta Roberto abbassò gli occhi, certo di vedere strisce nere attaccate al braccio.

Aveva pochi dubbi su quel che avrebbero trovato, pochi davvero; e, svoltato l'ultimo angolo che copriva la vista del parco del palazzetto, nonostante ancora i corpi non si potessero distinguere bene, la prima cosa che apparve ai loro occhi spazzò i minuscoli residui di dubbio.

Tutta l'area era ricoperta di uccelli che volavano in circolo; chi atterrava, chi si alzava, chi andava, chi veniva. Roberto non ne aveva mai visti così tanti, tutti insieme.

«Figa di biscia!» esclamò Ando, mentre, sia Franco, sia Alberto, assistevano alla scena a bocca aperta.

Il cuore di Roberto accelerò i battiti; la gravosità che si sentiva dentro sembrò aumentare, come se avesse un'incudine posato sullo stomaco.

«Lo sentite?»

La voce di Franco lo fece trasalire.

«Cosa?» chiese.

«Nulla! Centinaia di uccelli, nessun rumore!»

Roberto lo notò solo in quel momento. E la scena divenne ancora più inquietante.

Procedevano ormai a passo d'uomo e due cagnacci, sporchi e arruffati, passarono accanto con la lingua penzolante e un accenno di bava alla bocca. Dall'altra parte ne giungevano altri, e in mezzo a loro alcuni gatti col pelo arruffato e incrostato.

«Porca troia!» pronunciò Franco, bianco come un cencio.

Il parco era ormai del tutto alla portata dei loro occhi e la scena era ancora più orribile di ciò che avevano pensato di trovare.

Gli uccelli planavano, beccavano, ripartivano e ritornavano. Cani e gatti si stavano saziando a volontà di quelli che, senza dubbio, fino a qualche giorno prima erano stati i loro padroni; le dita e le mani degli uomini, delle donne, dei bambini che li avevano accarezzati, lavati, nutriti, ora venivano staccate, smembrate, dilaniate, avidamente, senza rimorso, da quelle che ormai, a tutti gli effetti, erano diventate bestie selvatiche, affamate, solitarie.

Ovunque, quasi a coprire gli spazi lasciati vuoti, era un brulicare di topi, più o meno grossi, che s'arrampicavano su gambe e pance con velocità, incuranti degli animali più grossi che avevano come compagni di merenda. Proprio in mezzo al tristo spettacolo, banchettava pure uno sparuto gruppo di cinghiali, cosa che fece storcere il naso (più di quello che già era) a Franco, bersagliato da ricordi poco piacevoli.

Quello che, alle orecchie intimidite dei quattro uomini, era parso silenzio, ora giungeva loro come un ronzio sommesso e continuo, e non era difficile immaginare provenisse da un numero spropositato di mosche, api e chissà cos'altro che approfittavano del banchetto così invitante, parco e in apparenza privo di pericoli.

La cosa che disturbò più Roberto (se era lecito fare una classifica, davanti a un incubo del genere) era la cooperazione che sembrava coesistere tra quelle creature, pronte, in una situazione normale, a sbranarsi l'un l'altro.

La visione di sua moglie riversa davanti alla loro casa, ricoperta di mosche, topi, cani, gatti, si formò senza che lo volesse. Non riuscì a trattenersi. Poi subentrò l'immagine di lei, a occhi sbarrati, passo strascicato, come uno zombi. Per un attimo, si sentì sollevato e la cosa lo fece stare peggio. Gli si formò un groppo in gola, gli salì verso l'alto a velocità folle; gli occhi si bagnarono, i singhiozzi gli esplosero dentro la bocca.

«Cazzo, Roby! Dai, coraggio!»

Subito Alberto si allungò da dietro, posando la mano sulla testa dell'amico. «Non è detto che dappertutto sia così. Magari è solo qui.»

«Ha ragione!» disse Franco. «Se vuoi andare da tua moglie...»

«Andiamo via!» interruppe Roberto. «Vi prego! Scappiamo da questo inferno. Andiamo dal tuo amico ingegnere, Alby, di volata. Voglio lasciarmi tutto questo alle spalle prima possibile.»

Nessuno rispose. Franco si voltò e incrociò gli occhi di Alberto che, a sua volta, voltò la testa verso Ando.

«I agree! Sono d'accordo con lui» disse.

«Va bene!»

E producendo un leggero fischio con le gomme, l'auto si allontanò.

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