Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

49 - I BULLONI (2)

La camera da letto, al momento, era per Camilla l'unico posto in cui si sentiva a suo agio; non tanto per l'ambiente in sé, ma perché lì poteva starsene sola con i suoi pensieri, i suoi tormenti, le sue speranze. Provava la sensazione di galleggiare nelle acque gelide di un lago (forse perché si trovava in montagna!), acque torbide che non le permettevano nemmeno di vedersi i piedi, e lei se ne stava lì in mezzo, nuda ovviamente, intirizzita, agitando appena le braccia per stare a galla, disposta a fermarsi a ogni istante, e lasciarsi sprofondare in basso.

Era davanti alla finestra aperta, fissava la bolla gialla, e il fiume al di là, almeno la parte che riusciva a scorgere, incantata, pensierosa.

Di tanto in tanto la sua mente si riaccostava al sogno di cui non ricordava nulla, nemmeno se veramente l'avesse fatto, ma che, poco prima, l'aveva riempita di sensazioni strane, facendola stare male, facendola dubitare su cosa fosse reale intorno a lei.

Si sforzava di non pensarci, di allontanare quelle sgradevoli sensazioni, per non rischiare di ricaderci e, magari, non riuscire più a venirne fuori. Si concentrava sull'acqua che scorreva impetuosa nella valle; sullo sciabordio insistente che giungeva, sordo e ovattato; sulla schiuma bianca, sui gorghi e i piccoli vortici che sicuramente tormentavano la superficie, e pensò che quel fiume assomigliasse molto alla sua mente.

Il dubbio che l'era venuto, appena smesso di vomitare, era ancora fisso nella sua testa.

"Se fosse..." pensò, "risolverebbe tanti problemi."

Oppure, ne poteva creare di nuovi! Chi poteva dirlo con certezza? Aveva bisogno del dottore.

"Come si chiama? Alessandro, mi pare..."

Sapeva già, però, che prima di trovare il coraggio di parlargli, avrebbe contato fino a cento svariate volte.

"Forse ne dovrei parlare prima con la donna grassa."

Ispirava fiducia materna, proprio quello di cui avrebbe avuto bisogno in quel momento. Una madre, la sua mamma. Gli occhi si inumidirono all'istante.

Poi, successe qualcosa di strano.

Da dietro la baita, alla sua destra, comparve il ragazzino handicappato.

Camminava in apparenza tranquillo, per quello che lei poteva e riusciva a vedere. S'inoltrò nel prato, dirigendosi verso la parete della bolla e la attraversò, come non ci fosse.

Camilla rimase stupita; credeva che quella roba fosse una sorta di scudo impenetrabile, con l'unica funzione di proteggerli da chissà chi o chissà cosa. Ma quel ragazzino era passato, come un raggio di sole fende l'oscurità. S'insospettì; e s'inquietò.

Lo guardò avvicinarsi al fiume, fermarsi, ripartire, fermandosi di nuovo. Poi si inginocchiò nell'erba, tenendosi la testa tra le mani.

Camilla provò un moto di tenerezza per quel ragazzino, presumendo di assistere a uno degli atteggiamenti "particolari" che dovevano caratterizzare la sua vita, una di quelle cose che, se capita di vedere per strada, o a scuola, o ovunque, si cerca di fare finta di niente, per non imbarazzare ulteriormente lo sfortunato protagonista.

Ora, però, fissava la scena da lontano, con una patina gialla di mezzo, che doveva...

Il ragazzo si sdraiò e cacciò un urlo disumano, terrificante.

Camilla fu colta di sorpresa e si lasciò scappare un gridolino di paura, mettendosi il palmo sulla bocca.

«Dio mio!» esclamò, pensando se fosse il caso di andare ad avvertire i suoi genitori.

Non fece nemmeno in tempo a decidere.

Il cielo sembrò oscurarsi. Camilla non scorse nulla, ma percepì come un'ombra, calata su tutto per una frazione di tempo di cui non avrebbe saputo dirne la durata.

Poi, tutto si riaccese, tornando come prima. A parte il ragazzino che, rientrato nella bolla con la stessa disarmante facilità con cui ne era uscito, stava correndo verso la baita.


Antonio era irrequieto.

Da quando si era svegliato, nella sua testa fluttuava l'immagine di quel pezzo di ferro strano, capace di attirare a sé tutto quanto, e in qualche modo sapeva che per Franco era importante. Molto importante.

Ma c'era qualcos'altro... Qualcosa che aveva visto e sentito durante la notte; solo che non riusciva a ricordare cosa fosse.

Mentre faceva colazione, di punto in bianco, gli era sbocciata l'esigenza di andare fuori, a sdraiarsi nell'erba. Aveva gettato la fetta biscottata (mangiata solo a metà) sul tavolo, aveva chiesto il permesso alla mamma, ed era uscito. Fuori c'era la palla gialla che copriva tutto e tutti, e li proteggeva.

«È... mee... è mee... merito... mii... iiio!» disse, senza comprendere del tutto cosa stesse dicendo. Corse in mezzo al prato e si sdraiò, contemplando il cielo azzurro, ma che ai suoi occhi appariva giallognolo, visto attraverso la patina dello scudo.

Restò immobile nell'erba per un tempo indefinito, almeno per lui, che non aveva mai avuto reale percezione del tempo che scorreva.

Guardava in su, e vedeva la palla, l'energia che la formava, il cielo e ciò che c'era dietro, sempre più in alto.

La sua mente volava, fantasticava; ora ricordava, ora dimenticava, poi di nuovo ricordava. Vedeva cose che non capiva, e altre che conosceva bene.

Il pezzo di ferro, rimasto stampato davanti ai suoi occhi fino a quel momento, ora era sparito; la brutta sensazione notturna, invece, aumentava. E più cercava di non pensarci, più quella si incastrava tra i suoi pensieri. Aspettava di risentire la voce che in quegli ultimi giorni l'aveva guidato nelle parole da dire, sperando di vederci un po' più chiaro, ricordare quella cosa che, non sapeva perché, era fondamentale e molto, molto importante.

Di solito, Antonio sapeva bene cosa dire e cosa fare. Era consapevole della sua situazione, perfettamente consapevole, ed era cosciente che, per tutta la vita, avrebbe avuto difficoltà a fare cose che altri facevano con facilità. Una fra tutte, parlare.

Le parole si costruivano bene nella sua testa ma, tirarle fuori, risultava sempre molto più complicato.

"Come far passare una forma quadrata in un buco rotondo" gli diceva sempre il dottore incaricato di aiutarlo.

La sua mamma, non molto tempo prima, gli aveva spiegato quale fosse il suo problema: era nato così e non era colpa di nessuno.

«Ma tu non devi crucciarti per questo, tesoro mio. Potrai fare tutto quello che vorrai, se lo vorrai. Magari farai più fatica, magari ti ci vorrà un po' più di tempo, ma ce la farai. E io e papà saremo sempre qui, con te, per aiutarti.»

La sua mamma e il suo papà erano grandi persone, e lui si sentiva fortunato.

Poi c'erano i momenti di buio (così li chiamava lui), in cui faceva o diceva cose senza rendersene del tutto conto. Almeno credeva, perché, quando il buio andava via, ricordava poco o nulla.

Negli ultimi giorni, però, erano successe cose strane nella sua testa, cose che aveva stabilito essere un insieme dei momenti di buio e di quelli di luce. Aveva delle visioni e sentiva voci aldilà della sua volontà, e sempre quando era vigile e cosciente. Le immagini erano irreali; le voci, melliflue, gli parlavano e gli suggerivano cosa dire.

Antonio riusciva a capire tutto, ed era meraviglioso per lui; ubbidiva, diceva quello che gli veniva detto di dire, senza esitazione; per poi ritrovarsi, una volta che tutto si spegneva, più confuso di prima, fino a dimenticare tutto.

Quella notte gli era stata mostrata una cosa molto brutta, proprio mentre stava capitando, ma nessuno gli aveva chiesto di fare qualcosa, o andare a dirlo a qualcuno. Ma ne era così sicuro? Ricordava di essersi svegliato, d'aver visto...

Si alzò, veloce come si era sdraiato.

Tornò verso la baita, la superò e proseguì, tenendola alla sua sinistra, dirigendosi verso il fiume. Passò vicino al capannone che stava appena fuori dalla palla. Lì dentro, Franco, ci teneva il treno. Non che gliel'avesse mostrato, o detto, ma lui lo sapeva. Il treno era scintillante ed era arrivato di sera, portando il ragazzo con la gamba malata e la sua mamma, la donna grassa, la ragazza con le poppe grosse e Veronica, la ragazzina coi capelli di fuoco, la persona più bella che avesse mai visto. L'aveva abbracciata due volte, ed erano stati i momenti più indimenticabili della sua vita.

"Ma io non potrò mai averla per me, non devo dimenticarlo..."

Dimenticarlo! Dimenticare!

Qualcuno aveva dimenticato qualcosa. Ma cosa?

Si voltò indietro e riguardò il capannone, ormai superato.

Il treno!

"Ecco! L'hanno lasciato fuori! Nessuno l'ha rimesso dentro alla sua casa! Ma io non c'ero quando è arrivato! Ero dentro alla baita."

Eppure, l'aveva visto... quella notte! Quando si era svegliato... E poi?

Giunse al fiume. Sotto di lui l'acqua gorgogliava e ribolliva, pronta a saltare giù per il dirupo e formare una delle cascate più belle che ci fossero nella zona.

"Chi cade in acqua in questo punto, muore!" pensò.

Un fulmine attraversò il suo cervello. Gli parve quasi di sentire dolore. Fece due passi a sinistra e lo vide: il pezzo di tronco marcio, contorto, che sbucava dal terreno scosceso e arrivava fino al turbinio dell'acqua; e l'unico suo ramo, annerito, intossicato, proteso verso l'acqua come a cercarne i benefici, o la supplica a trascinarlo via, per sempre.

Si lasciò cadere nell'erba, in ginocchio, avvolto nel terrore più puro. Si prese la testa tra le mani, arrabbiato per l'errore madornale commesso da Franco e... dai suoi genitori. La nuova rivelazione lo sconvolse ancora di più; la paura aumentò; il cuore gli batteva forte in petto, come se tentasse disperatamente di bucare la pelle, per schizzare fuori e scappare da tutto.

Urlò, con tutto il fiato che aveva in corpo, buttando fuori tutta la paura che la ritrovata memoria aveva raggrumato nella sua testa confusa. La sua voce, mai così nitida, così limpida, riempì la vallata scaldata dal sole.

Aprì gli occhi e rimase a fissare il cielo terso, di un azzurro intenso che scivolava verso il bianco, man mano si avvicinava alla palla dorata, già abbastanza alta.

Passarono pochi secondi che ad Antonio parvero ore; poi, all'improvviso, la volta divenne rossa. Fu un lampo, forse più veloce, ma lui lo vide bene; ancora meglio, lo vide nella sua mente.

Si rialzò e si girò verso l'FDS.

«Lina!» disse, iniziando a correre senza rendersi conto, per la prima volta, d'aver parlato bene; né d'essere fuori dalla bolla, e né che vi stava rientrando, come se attraversasse l'immagine uscita da un proiettore.


«Cosa centra il treno, ingegnere?»

«Masi? Non dirmi che...»

Monica e Alessandro parlarono insieme, le voci sovrapposte, parole diverse, ma uguale tensione. Soprattutto nella voce e sul viso della donna, spaventata dallo sguardo che Franco le aveva rivolto. Si voltò verso il dottore, che aveva lasciato la frase sospesa, poi di nuovo verso il suo capo, mentre la voce di Silvia li raggiungeva e superava.

«L'abbiamo buttato nel fiume...»

Cercava gli occhi di Franco e quelli di suo marito, insieme.

«L'ho visto volare di sotto.»

Alessandro imprecò, piuttosto pesantemente e tutti gli occhi della stanza si diressero a lui per un momento.

«Sì, ma non l'abbiamo fatto cadere bene! Cazzo! Ve l'ho anche detto... Franco...»

«Ma che succede?»

La voce di Andrea che, percepita l'improvvisa inquietudine creatasi, si era alzato sui gomiti, uscì flebile, quasi un palpito, vuoi per l'effetto del farmaco che gli era stato appena iniettato, vuoi per l'inatteso disagio che il brusco e imprevisto cambio di argomento aveva causato. Solo Veronica parve sentirlo, pure lei turbata.

Monica si inginocchiò davanti al vecchio.

«Ingegnere... Pietro Masi, è vivo?»

«Ma chi sarebbe questo Masi?» chiese Lina, pure lei ignorata.

Franco era rimasto in silenzio, incalzato da quelle domande, il cervello che ricominciava a girare, i pensieri a turbinare. Gli occhi erano velati di turbamento e guardando quelli di Monica, gli pareva d'essere davanti a uno specchio.

«Non lo so...» disse, poco convinto.

Sia Silvia che Alessandro gli si pararono davanti.

«Come non lo sai? Dovevi rispondere no.»

«Da dove ti nasce questo dubbio?»

«Stanotte...»

«Eri con noi quando l'abbiamo gettato!»

«Mi sono ricor...»

«E sei sempre stato qui. Perché dici...»

«Lo lasciate parlare per favore?»

Era intervenuta Monica, infastidita, oltre che preoccupata.

Franco si levò gli occhiali e, col gomito appoggiato alla gamba, si grattò gli occhi.

«Stanotte mi sono svegliato... Era poi ancora sera, perché mi ero coricato da poco. Ho fatto un sogno strano che non ricordo, a parte il fatto che c'era un treno in movimento. E mi è venuto in mente, Monica, che abbiamo lasciato la locomotiva fuori tutta notte.»

«Vabbè, Franco. Poco male. So che è una regola a cui tiene, però avevamo un ragazzo ferito...»

«Sì, sì. Certo. Non sono arrabbiato con te. Il fatto è che, in quel momento, mi è parso di sentirlo, capisci? Come se si stesse muovendo, stesse partendo. Non ne sono sicuro, ma ho paura di essermi imposto a convincermi che mi stavo sbagliando.»

«Poteva chiamarmi. Avrei brontolato, ma sarei andata a controllare.»

«Eri qui, non nella tua stanza. E poi mi sono riaddormentato subito.»

«Aspetta!»

Silvia si avvicinò un altro po'.

«Mi stai dicendo che Masi non è finito nel fiume ed è scappato col treno?»

«Se il treno non c'è... sì! Sarebbe l'unica spiegazione. Qualcuno è uscito, stamattina?»

Tutti si guardarono.

«A parte Antonio, direi di no» rispose Alessandro. «Perché ce lo dici solo ora?»

«Perché mi era passato di mente.»

Franco stava per rivelare anche il sogno sulla calamita, ma si fermò in tempo. Non aveva senso, ora, confonderli più del dovuto.

«Se è una cosa così grave, cosa fate qui? Qualcuno corra fuori a controllare» intervenne Lina che, nel frattempo, si era seduta su una sedia posta accanto all'uscita.

«Se veramente è scappato, non possiamo farci nulla.»

Franco sembrava aver recuperato la sua lucidità.

«Scoprirlo adesso o tra un'ora, non cambia niente. Siamo comunque protetti dallo scudo, e non può...»

Tutti gli sguardi erano su di lui, l'unico che, al momento, osservava la porta e Lina, seduta a fianco. Si interruppe quando la vide afflosciarsi, come fosse un palloncino gonfiato e chiuso male. La donna si accasciò prima su sé stessa, poi cadde a terra in silenzio, e lì rimase, immobile.

«Ma che succede?» disse Franco, credendo quasi a una pantomima della donna.

Tutti si voltarono all'unisono, vedendo, stupendosi, cercando di capire, capendo. L'odore intenso e pungente della putrefazione riempì all'istante la "04-MED".

Fu in quel frangente che Francesca cominciò a ridere sguaiatamente, come non aveva mai riso.

Forse, come nessuno mai aveva riso.


Le due ragazzine uscirono carponi dal nascondiglio in cui erano rimaste rintanate per tre giorni, non perché non si ritenessero più al pericolo, ma spinte dalla fame, quella vera, quella che non avevano mai provato in vita loro, e che aveva cominciato a rendere appetitose all'una, le carni dell'altra.

Amiche, mano nella mano in giro per Bologna, a mangiarsi con gli occhi i bei ragazzi della città, avevano avuto la più classica delle crisi isteriche mentre la grossa palla viola si avvicinava alla Torre degli Asinelli. Urlando come pazze si erano rintanate dentro a un negozio d'abbigliamento, in via Farini, in direzione contraria a tutti quelli che, già all'interno, ne uscivano, spinti dalla curiosità più subdola, più ingannatrice, più infame che potessero subire.

Rintanate in un angolo, tremando come foglie, erano impazzite di terrore quando, dappertutto, erano iniziati i boati, gli scoppi, le grida. Poi, era sembrato esplodere il mondo.

La terra aveva tremato, i muri avevano tremato; un enorme blocco di pietra era caduto, in un fragore da apocalisse, davanti alla porta, schiacciando un uomo, fermo proprio davanti all'ingresso (chissà con quali intenti!), e lasciando solo un pertugio, in cui a fatica poteva passare una persona. Infine, il silenzio! Ancora più rumoroso di tutto quello che c'era stato.

Le ragazzine non si erano mosse per tre giorni, defecando in un angolo, bevendo la loro urina; a stento avevano dormito.

Poi, vinte dai crampi allo stomaco e dalla bava alla bocca, erano uscite fuori.


Si guardarono attorno con occhi straniti, sbarrati, secchi per i litri di lacrime versati; la bocca era impastata dal sapore agro della fame e metallico della paura.

La città non esisteva più. Le macerie erano ovunque, immobili, come l'aria umida e stagnante dell'estate appena iniziata ma, di fatto, già insediatasi da settimane.

Le due ragazzine nemmeno ricordavano in quale parte di Bologna si trovassero, per lo stordimento e lo shock in cui affogavano, ma anche per l'assenza dei punti di riferimento, quelli istintivi e famigliari, imparati in una vita, spazzati via da qualcosa che nemmeno sapevano cosa fosse.

Guidate da puro spirito di conservazione, e da un intrepido lumicino di ragione, l'ultimo, ostinato baluardo che si opponeva al buio più totale, si diressero verso quello che sembrava un sentiero, più un cunicolo, appena visibile tra gli enormi blocchi di pietra, i detriti, e chissà cos'altro; partiva e si snodava proprio davanti a loro, come la coda di un grosso serpente nero acquattato in una siepe, angusto, tetro; nemmeno un raggio di sole s'azzardava a entrarvi.

Lo percorsero come due automi, camminando come se i loro piedi posassero su chiodi appuntiti, sobbalzando a ogni scricchiolio che provenisse dai muri intorno, puntando in avanti, senza chiedersi chi potesse mai aver creato quella via, senza accorgersi di chi avessero alle spalle che le seguiva, in silenzio.

Sbucarono in un grande prato verde.

Le amiche si fissarono, riuscendo persino ad abbozzare un sorriso, debole e pallido, comunque un alone di luce nella burrascosa tempesta che era l'espressione dei loro occhi.

Emersero del tutto dall'ombra delle macerie e videro la sfera.

Era in mezzo all'erba, e sembrava attenderle, minacciosa.

Le braci della paura ravvivarono, diventando un incendio in piena regola, appena percepirono la presenza dietro di loro.

Si voltarono di scatto, urlando, facendo appena in tempo a scorgere due enormi mani calare sulle loro teste.


Pietro Masi rifletteva seduto su una grossa pietra, le possenti e nerborute gambe divaricate, gli avambracci massicci posati sulle cosce; le dita erano chiuse a pugno nei capelli sporchi e incrostati delle fanciulle, facendo dondolare le due teste strappate con violenza dai corpi; nelle pupille, ormai spente, era rimasto impresso l'ultimo spasmo di terrore e, forse, un velo di razionalità, risvegliatasi solo per riaddormentarsi subito, questa volta per sempre.

L'uomo, com'era stato prima, fisicamente non c'era più.

La sua statura continuava ad aumentare, lenta e inesorabile; a occhio nudo non si percepivano cambiamenti, ma se si fosse distolto lo sguardo, tornando a guardare dopo una decina di minuti, la differenza si sarebbe vista. Era più grosso e più alto di un qualsiasi, normale uomo! Tutti i muscoli si erano gonfiati in proporzione alla statura, lucidi e statuari, senza nessuna imperfezione. Il suo membro era enorme e sempre in erezione.

Ma a Pietro Masi non interessava.

La vanità era per i deboli. Aveva dei progetti e contava di portarli a termine molto presto. L'idea di accoppiarsi con qualcuno di quegli umani, nella sua testa faceva la stessa fine di un pezzetto di carta svolazzante sopra all'incendio di una foresta. Tranne che in un caso.

«Lei mi aiuterà! Lei farà al caso mio, dopo che l'avrò... convinta» ridacchiò. «Sarà il piccolo sacrificio a cui cederò per ottenere ciò che voglio. Questo pianeta del cazzo ha bisogno di una ripulita! Quell'idiota spaziale ha iniziato il lavoro ma, a quanto pare, stava lavorando per me...»

Non poté fare a meno di sorridere all'idea.

«E pensare che ero uno di loro fino a... quanto? Un'ora fa?»

In realtà, non si era mai sentito parte di quella gente; non si era mai sentito parte di nulla, a partire da quello schifo che era stata la sua famiglia. Non si era mai fidanzato sul serio, tantomeno sposato; non aveva mai avuto amici. Non aveva mai fatto squadra, nemmeno sul lavoro, nemmeno all'abbazia, dove tutti lo odiavano e dove lui odiava tutti. Non aveva mai avuto nessuno, e nessuno aveva mai avuto lui.

«Non sono mai appartenuto a questa razza!» ringhiò, senza sentire quell'impercettibile punta d'amarezza pungolarlo, come accadeva... prima, in quelle rare occasioni in cui la sua mente si lasciava andare a patetici, quanto inutili momenti di auto-commiserazione. Ora, ricordare l'isolamento, l'emarginazione in cui aveva vissuto, gli imprimeva maggiore spinta per perseguire i suoi obiettivi, gli conferiva una carica nuova, e gli riduceva, un po', la pazienza provata all'inizio.

Avvolse le enormi mani sui crani penzolanti delle due ragazze e li schiacciò, come fossero due noci, sbriciolandoli. Si pulì nell'erba e si alzò. Era forte, immensamente forte. Lo sentiva in ogni fibra del suo corpo perfetto.

Buttò l'occhio sui corpi decapitati di quelle due inutili femmine e, un po' più distante, sugli altri tre, sorpresi mentre si aggiravano con aria smarrita in una via vicina. Li aveva pregati di seguirlo e si era un po' intrattenuto in loro compagnia. La loro paura l'aveva divertito; le loro grida l'avevano eccitato. Gli avevano ricordato quelle sentite all'abbazia; erano state la sua linfa, la sua gioia in mezzo a tutto quel marciume.

Eppure, sapeva che non poteva continuare a perdere tempo. Non aveva senso restarsene lì a giocare e ad aspettare che l'unico nemico rimasto tra lui e la sua completa vittoria, venisse lì, a sfidarlo.

«Quei patetici, vigliacchi, cagasotto! Se ne staranno rintanati in quella fabbrica del cazzo! Hanno bisogno di essere sollecitati.»

E lo scudo? Il pensiero, improvviso, lo frenò.

«Cazzo! Lo scudo!»

Non lo sapeva con certezza assoluta, ma presumeva essere ancora una barriera invalicabile. Per quanto si sentisse sempre più invincibile, sempre più forte, la consapevolezza della superiorità di quell'altra energia non s'affievoliva. Anzi! Lo induceva a essere cauto, per quanto un essere come lui potesse esserlo.

L'unica soluzione a cui riuscisse pensare, era che fossero loro ad aprire la porta, di loro spontanea volontà.

«E se quella puttana della Fontana e quel merdoso che si scopa non si riescono a convincere, de Simone cederà. Sì! Lui cederà!» disse.

Si sdraiò nell'erba con il viso rivolto al cielo chiaro e caldo dell'estate bolognese. Voleva riflettere ancora per un po'; dopotutto, che fretta c'era? Era saggio pensare, ponderare bene ogni parola da dire, per minacciare, incutere paura. E ingannarli.

"Basta solo che abbassino lo scudo. E saranno miei!"

Ma era così sicuro? Si sollevò e si mise seduto.

"Ricordati che quell'energia è più forte della tua."

Non l'aveva già chiarito questo concetto?

"Il loro potere è più forte, ma loro sono umani, quindi deboli, mosci!"

Era evidente che un po' dell'assurdo timore che aveva assillato Ismel, era rimasto.

"Via! Via da me! Io non sono come quell'alieno del cazzo!"

Si lasciò andare a una sonora risata che echeggiò tutt'intorno.

"Attenderò la sera."

Si lasciò ricadere sul prato, mentre si godeva il sole che scivolava sul suo corpo nudo, sempre più enorme, sempre più perfetto.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro