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49 - I BULLONI (1)

La vita dell'ingegner Franco de Simone era stata costellata di successi. Lavorativi, perlopiù.

Ora, diventato vecchio, il presente e il futuro erano quasi del tutto formati dai ricordi del passato, quelli belli, gli unici che si cerca di conservare nella mente e nel cuore, quando il setaccio comincia a essere piuttosto pieno e pesante.

I ricordi felici che gli restavano, erano associati a tali successi: andavano dalla scoperta di una nuova tecnologia, ai riconoscimenti ottenuti quando lanciava un nuovo, rivoluzionario macchinario sul mercato; dall'assunzione dell'ennesimo ragazzo, disposto a imparare per garantirsi un futuro, al momento in cui questi gli presentava la famiglia, grato per la vita che permetteva loro di fare.

Poi, c'era Francesca, l'unica altra fonte di gioia al di fuori della sua amata FDS. I giorni passati insieme quando lei, bambina, veniva a stare alla villa, erano stati i più belli, i più sereni, e più di una volta l'avevano rammaricato di non avere figli suoi.

Ma dovette ammettere a sé stesso che, nel momento in cui sentì la sua voce salutarlo e, girandosi, la vide sorridere, stesa su quel letto d'emergenza, la felicità che lo sopraffece fu enorme, la più intensa mai provata in tutta la sua vita. Il corpo cominciò a fremere, i battiti del cuore accelerarono; in quell'attimo, ogni cosa non fosse Francesca non contava più nulla. E, puntuali, sopraggiunsero le lacrime, insieme a quelle di Monica che non poteva vedere, essendo la donna in piedi dietro di lui; ma sapeva che c'erano, perché conosceva la sua assistente e conosceva l'amore e l'affetto che provava per sua nipote.

«Come stai?» chiese Francesca, sforzandosi di dare un volume accettabile alla sua voce stanca.

«Tesoro mio...» riuscì a dire Franco, mentre la carrozzella veniva spinta verso di lei, passando davanti ad Andrea e Veronica che, tenendosi per mano, contemplavano la scena sorridendo e, nel caso della ragazzina, con gli occhi lucidi.

«Tu, come stai? Come ti senti?»

«Ho dolore, giù in basso. E in faccia...»

Sembrò sull'atto di sollevarsi, ma Monica la bloccò subito.

«Non devi sforzarti, cara.»

Le lacrime le rigavano il faccione, ma aveva un sorriso radioso, uno dei più belli che Franco le avesse mai visto.

«Veronica, ti prego. Andresti a chiamare Alessandro?»

«Volo!»

«Chi è Alessandro? Cos'è successo?»

Il sorriso era già sparito dalle labbra di Francesca, e aveva assunto, ora, un'espressione più sofferente.

«Alessandro è un dottore, arrivato qui con la sua famiglia... È Gallo, tesoro. Lo scrigno a cui avevi telefonato. A quanto pare, le ricerche che tu e Alberto avete fatto sono state parecchio fruttuose.»

Franco le accarezzava con dolcezza i capelli e si fece serio.

«Non ricordi nulla di quello che è successo?»

Francesca deglutì, a occhi chiusi. Sembrava si stesse sforzando, o solo cercasse di reprimere un po' il dolore svegliato con lei, e che, senza dubbio, smaniava di imporre la sua presenza.

Girò la testa su un lato, poi sull'altro, poi spalancò gli occhi e li scagliò in faccia a suo zio.

«Masi!» disse, solamente.

Franco, con lo sguardo grave, annuì.

L'orrore la investì, per poi quietarsi e quasi sparire; poi tornò, più forte e, di nuovo, si attenuò. I pensieri opprimenti, le sensazioni di terrore misto a disgusto provate in quei terribili momenti, provocate sia dall'uomo, sia dalle sue indegne azioni, si erano riaccese in lei come la luce di un allarme, improvvisa, che comincia a lampeggiare nel cuore della notte. E rivivere tutto, anche solo per una frazione di secondo, le rimescolava lo stomaco, le impregnava l'animo di sudiciume e di quella sporcizia che non si riesce a lavare via, nemmeno col prodotto più forte.

Richiuse gli occhi, cercando di fare respiri profondi.

«Cara, cosa c'è?»

Pareva la voce di Monica, ma Francesca non la sentì del tutto.

Quando il pensiero sbiadiva, alternava la sgradevolezza di sentirsi sporca e contaminata all'abisso di quei ricordi. Ma ogni volta era sempre più intenso, come se fosse tornata su quel pavimento, tra le grinfie di quel mostro; e quando il ghigno osceno di Masi spariva, la sensazione di lercio era ancora più forte. Sentiva qualcosa strisciarle dentro la vagina, qualcosa che pareva essere un verme gigante, o una scolopendra con artigli e denti affilati che si aggrappava senza pietà alle pareti interne.

"È solo immaginazione" si disse, credendoci e dubitandone allo stesso tempo.

Con la mano aveva cominciato a toccarsi, cercando a tentoni di entrare, per trovare, raspare, espellere.

«Cosa fai, tesoro?»

La sensazione sparì. Francesca fermò la mano e aprì appena gli occhi.

«Dove si trova, ora?» chiese, con un filo di voce.

Franco e Monica si scambiarono uno sguardo preoccupato, poi, entrambi, si voltarono verso Andrea che, da sdraiato, osservava la scena perplesso.

«Intendi Masi?»

Francesca voltò appena la testa verso lo zio, annuendo. Il semplice gesto sembrò costarle un'enorme fatica, e Franco non poté non notare come sua nipote pareva sul punto di spegnersi di nuovo quando, solo pochi minuti prima, appena risvegliatasi, sorridente, dava parvenza di un veloce recupero. Senza volerlo pensò alle ultime, impalpabili fiammelle d'un fuoco ormai estinto, che si ravvivano a sprazzi sulle poche braci ancora vive, per poi sparire, repentine com'eran venute. Il paragone lo inquietò.

Le prese la mano destra, stringendola e accarezzandola tra le sue.

«È morto!» rispose.

Francesca registrò appena l'informazione; forse lo zio stava dicendo altre cose, ma lei non le sentì.

Masi era tornato, sopra di lei, dentro di lei. Vedeva gli occhi fiammeggiare nei suoi; l'alito stantio che le riempiva le narici; la saliva gocciolare sulla sua faccia. Poi, la bestia oscena ricominciò a strisciarle dentro, a graffiare, mordere, lacerare. Il dolore fu improvviso e lancinante.

Cacciò un urlo, disperato, acuto, strozzato, ricolmo di orrore, reale. E tutto si fece nero.


Alberto si riebbe dallo shock iniziale e, recuperato al volo il fucile posato sul sedile del furgone, lo puntò dritto sul SUV nero, un attimo prima si fermasse, inchiodando a una decina di metri da loro.

«Cosa fai?» gli chiese Roberto, girandosi di scatto e fissando la canna puntata. «Sono persone, come noi!»

«Già! Come lo erano quelle che ci hanno ospitato ieri sera! Potrebbe esserci altra gente pazza in giro! Magari questi fanno parte di quella setta stessa.»

Nel frattempo, l'uomo alla guida era sceso, con le mani ben alte sopra la testa.

«Ehi! Calma! Non abbiamo cattive intenzioni» disse, con la testa incavata tra le spalle, fissa sull'asfalto.

«Sono morti bruciati...» bisbigliò Roberto.

«Chi ti dice che erano tutti presenti gli... come si dice? Adepti?»

Poi si rivolse all'uomo, ma anche ai compagni ancora sull'auto.

«TUTTI GIU' DALL'AUTO, SVELTI! E MANI IN ALTO!» gridò.

«Sul serio amico. A meno che non siate voi stessi al servizio di quell'alieno, t'assicuro che siamo dalla stessa parte.»

«SILENZIO! HO DETTO FUORI!»

«Uscite, presto» disse l'uomo, parlando allo sportello aperto.

Roberto si sentiva un po' a disagio; qualcosa gli suggeriva che Alberto stesse esagerando nella precauzione figlia dei suoi sospetti, legittimi, ma in apparenza esagerati. L'uomo sembrava innocuo, e realmente impaurito. E appena vide gli altri compagni di sventura, le sue convinzioni si rafforzarono.

La brigata era composta, oltre che da quell'uomo di mezza età, con una pancia prominente che suggeriva amore per l'alcool, da una signora di colore, piuttosto in carne; una donna, anche lei senz'altro sopra i quaranta, esile e bella, ma di una bellezza che sembrava sfiorita, quasi appassita; un'altra bassa, magra, scalza che, a primo impatto, Roberto aveva scambiato per una ragazzina; e un ometto, pure lui bassettino, magrolino, l'esatto contrario di chi dovrebbe mettere paura.

«Per favore, non fateci del male...» piagnucolò la donna di colore, con un marcato accento americano.

«Alby, io non credo che...»

«Chi siete e cosa fate qui?» chiese Alberto, rude, senza ascoltare l'amico.

«Lui è Franco, lei sua moglie Beatrix, questa è Angelica, io mi chiamo Cata e lui è mio marito Ando» rispose la donna-ragazzina tutto d'un fiato, anticipando l'uomo sceso per primo, con lo sguardo fisso sul fucile e il braccio che danzava nell'indicare.

«Abitiamo qui sopra e vogliamo solo salire in casa per prendere qualche vestito. Io ho bisogno di un paio di scarpe.»

Mosse le dita dei piedi, come per mostrare che non stava mentendo.

«E poi ce ne andiamo! Desideriamo solo riprendere la nostra strada» aggiunse l'altra, a fianco, con la voce che tremava. «Ti prego. Non spararci.»

I cervelli di Roberto e di Alberto si erano bloccati quasi in contemporanea, nel sentir pronunciare il nome "Beatrix", soprattutto vedendolo assegnato all'unica persona di quel gruppo che, era evidente, non era italiana, non tanto per il colore della pelle, ma più per la pronuncia strascicata che le era appena uscita dalle labbra.

Si scambiarono una fugace occhiata, scorgendo, ognuno negli occhi dell'altro, lo stesso pensiero fluttuante.

Roberto posò la mano sulla canna del fucile, spingendola verso il basso.

«Non Beatrix Johnson, vero?» chiese, risentendo nascere in lui un barlume di quell'entusiasmo che provava da bambino, quando strappava il lembo di una bustina di figurine.

Lo stupore che si dipinse sul viso della donna nera si mescolò al sollievo nel vedere l'arma abbassarsi, lasciandola, per un attimo, sospesa nell'incertezza; come avevano appena fatto i due uomini di fronte, anche lei scambiò uno sguardo veloce con l'uomo all'altro capo del SUV.

«Come conosci il mio cognome?» chiese poi.

Alberto gettò il fucile dentro al furgone e si tastò le tasche, in cerca di un foglietto che, gli tornò in mente solo in quel momento, non aveva più.

"Non sono le mie tasche, queste" pensò. "E la lista di Franco è probabilmente bruciata."

«Sei la Beatrix guarita da Nicolas?» rispose e chiese Roberto, nel frattempo, mentre Franco, Cata e Angelica fissavano, quasi inebetiti, l'omone con la barba; il turbamento causato dal fucile, stava lentamente scemando in curiosità.

In quei cinque, scarsi secondi, nessuno badò ad Ando.

Era sceso dall'auto con l'umore molto basso, rattristato e arrabbiato allo stesso tempo per come era stato trattato dagli altri, soprattutto da Cata, per di più inasprito alla vista di quell'arma spianata contro di loro senza esitazione. In quel minuto scarso in cui erano stati sotto tiro, tutto il livore covato era germogliato, ribollendo di frustrazione, umiliazione e di furore, sempre più cieco e sempre più sordo.

Appena vide Alberto abbassare la guardia, spinto da un istinto animale che gli aveva del tutto azzerato la ragione, fece due passi avanti, portandosi appena dietro a Beatrix; poi, vedendo l'uomo girarsi e posare il fucile dentro al furgone, scattò come una molla, compressa troppo a lungo in un ingranaggio troppo stretto.

Tutti si resero conto di quel che succedeva, quando ormai già stava capitando; lo stesso Alberto si ritrovò il piccolo uomo addosso, e sebbene non avrebbe avuto nessuna difficoltà a bloccarlo, fece appena in tempo a vederne gli occhi, carichi di un odio che pareva avere radici profonde, prima di ricevere una spallata nello stomaco e di capitombolare all'indietro, ritrovandosi in un attimo seduto sull'asfalto.

Riuscì a dire «Ehi!» che già quello stava tornando alla carica, armando il pugno.

«Figlio di puttana! Ti faccio ve...»

Due poderose mani lo bloccarono da dietro, due mani che appartenevano a qualcuno che lo sovrastava di almeno venti centimetri, e forse altrettanti in larghezza.

«Che ti prende?» disse Roberto, bloccandolo senza particolare sforzo.

«Lasciami! Ti faccio vedere io, stronzo!»

Ando si dibatteva come un pesce all'amo, tirato fuori dall'acqua.

«Puntare il fucile su mia moglie!»

Nella testa sentiva, incessante, la sua voce ripetere: "su di me, su di me, su di me!", ma lui riuscì a glissare, e tirare fuori ciò che appariva più prudente da dire in quel frangente.

Anche Franco era corso ad aiutare. «Che ti prende? Tu se' pazzo?»

«Ma vaffanculo! Come se non fossimo già abbastanza tesi!»

Alberto si era rialzato, avvicinandosi ad Ando minaccioso, che continuava a dare in escandescenze.

«Alby, lascia perdere!»

Franco si frappose tra i due, bloccando con la mano Alberto.

«Ti spacco la faccia, merda!» continuava a gridare Ando, che pareva il paziente di un manicomio in preda a una crisi.

«Smettila!» gli sbraitò in faccia Franco, trattenendo a fatica l'altro. «Per favore, lascia perdere. Fidati, non ne vale la pena» gli disse, cercando negli occhi di Alberto il buonsenso che sapeva non esistere in quelli di Ando.

Angelica e Beatrix assistevano alla scena con la mano sulla bocca.

Cata, invece, si fece avanti, e si pose proprio davanti al volto del marito.

«Che ti succede, Rodolfo?» chiese, mentre due grosse lacrime le rigavano il viso sbattuto. «Che ti succede, amore mio?»

Lo abbracciò, inducendo Roberto a mollare la presa.

Ando zittì di colpo e si quietò, rimanendo come un albero sul quale si era appena abbattuta una furiosa tempesta.

Sua moglie lo chiamava col vero nome solo durante i litigi, a volte con quella sorta di disprezzo tipica di quando la rabbia sovrasta ogni minimo sforzo di trovare giudizio, e si dicono e fanno cose che non si vorrebbe. Ma il "Rodolfo" pronunciato in quel momento, suonò diverso agli orecchi di Ando; aveva in sé la malinconia di quando la persona che si ama diventa, anche solo per poco, quasi un estraneo; la paura che un misero sassolino possa diventare una frana inarrestabile; la nostalgia dei bei momenti in cui la complicità rende sopportabile ogni cosa, anche l'invasione da parte di un alieno, se affrontata, però, con la persona della propria vita. Un calore, tiepido e avvolgente, gli riempì lo stomaco.

"È di nuovo quel potere?" pensò, con una punta di paura. Poi capì.

Era l'amore.

Allora tutto sparì, tutti i brutti pensieri, la rabbia, l'orgoglio, le preoccupazioni. C'era solo lei, sua moglie, la sua unica ragione di vita. E mentre ricambiava l'abbraccio, esplodendo anche lui nel pianto più dirompente e consolatorio della sua vita, si rese conto che l'aver detto "su mia moglie", invece che "su di me", non era stata furbizia; l'aveva detto guidato dal sentimento che provava per lei, lo stesso che l'aveva indotto a produrre quella palla di energia mentre l'auto si ribaltava sulla strada; o a esplodere di luce, dentro alla struttura al porto, per incenerire il mostro che minacciava di farle del male, un mostro che esisteva solo nella sua testa e nelle su paure.

Perché senza di lei, lui non era niente, e solo il pensiero di perderla...

«Mi dispiace! Mi dispiace tanto! Tua mamma... Tuo papà...» disse.

Franco aggrottò la fronte. Era la prima volta che sentiva sincerità nella voce di quell'uomo.

«Non devi scusarti di nulla» disse Cata, affranta nel vederlo così, ma col cuore traboccante di felicità.

L'aveva ritrovato, aveva ritrovato il suo uomo che, anche se solo per poche ore, credeva d'avere smarrito. Non si era sentita mai così sola. Si sentì stupida per aver dubitato del suo amore. Lui l'amava, proprio come lei amava lui. L'aveva sempre saputo e niente, nemmeno un cazzo di alieno venuto da chissà dove, avrebbe mai cambiato questo fatto.

Roberto fissò Alberto, ancora bloccato nell'atto minaccioso di chiarire la faccenda con modi non gentili, ma con l'espressione sul viso decisamente più tranquilla. Cercò di comunicargli con lo sguardo di fare il bravo e l'amico sembrò cogliere il messaggio.

Per qualche secondo i singhiozzi della coppia furono l'unico suono presente nella strada, creando un certo imbarazzo in Franco che fissava i due uomini sbucati dal nulla, sforzandosi di trovare qualcosa da dire e sperando che qualcuno venisse in suo aiuto.

Confidava in Beatrix o in Angelica, ma fu lo stesso Ando a farlo.

«Ti chiedo scusa!» disse, sciogliendosi dall'abbraccio e allungando la mano verso un dubbioso e perplesso Alberto.

«Non so cosa mi sia preso!»

«Va bene...» disse infine Alberto, ricambiando il gesto e sorprendendosi, ma solo per un attimo, di quanto fosse calda.

«Scusate anche voi per il fucile, ma abbiamo avuto esperienze molto brutte nelle ultime ore, e non con mostri di ferro volanti.»

«Senti...»

Beatrix si era fatta avanti, rivolgendosi a Roberto.

«Come puoi conoscermi?»

«Quindi sei veramente tu? Sei la Beatrix Johnson guarita da Nicolas?» chiese Alberto, il cuore che riprese a battere forte, incurante della domanda e di aver anticipato Roberto, lasciandolo con la bocca semiaperta.

La donna annuì e si voltò verso il marito, come per cercare aiuto e chiarimenti. Ogni parola di quell'assurda storia che lui le aveva raccontato durante il viaggio, aveva contribuito a erigere un muro di dubbi dentro di lei, nonostante non volesse accadesse. Era sicura che Franco non le stesse raccontando delle fandonie ma, in maniera paradossale, faticava a credere del tutto a quelle storie, soprattutto al fatto che anche lei fosse dotata di un qualche potere magico.

Ora però c'erano due estranei, due perfetti sconosciuti che sapevano il suo nome e che conoscevano il momento più importante del suo passato. Potevano ricordarla ancora da allora? Nome, cognome e aspetto? I primi due, era plausibile, vista l'immensa risonanza mediatica che quell'evento aveva scaturito; ma, l'aspetto fisico... Erano passati più di vent'anni e lei era molto, molto cambiata. Sembrava strano, non impossibile, ma improbabile. I motivi, però, non erano quelli; e stava per scoprirlo.

«Non posso crederci...» disse Alberto con lo sguardo stravolto, rivolto a Roberto.

«È incredibile!»

«Cos'è incredibile, scusa?» chiese Franco. «Anch'io, se per questo, sono stato guarito da Nicolas! E anche loro due.»

Per un momento, Alberto pensò d'aver capito male.

Era stanco, parecchio accaldato, aveva l'animo pesante per tutto quello che aveva visto in quei giorni, e le orecchie ancora erano imbevute delle urla della ragazzina e del suo papà. Senza contare l'oppressante voglia che aveva di rivedere la sua Francesca...

Non era sicuramente nella sua versione più lucida! Poteva benissimo aver capito male, spinto dal desiderio che non fosse così, che quell'assurdo viaggio potesse volgere al termine, che il suo compito fosse assolto...

Ma quando vide il suo amico traballare e posare una mano sulla sua spalla, sentì la testa girare, e dovette appoggiarsi al furgone per non cadere.

Sentì il vocione di Roberto chiedere «Puoi ripetere, per favore?», ma sembrava giungere da molto, molto lontano.

«Aspetta!» disse, tirandosi su all'improvviso. «Voglio essere sicuro.»

D'istinto ritastò le tasche, ma sapeva di non avere bisogno del foglietto; ricordava la lista a memoria.

«Tu sei Franco Trudi! E voi due, Rodolfo Dandolo ed Eleonora Cataldi. Giusto?»

I nominati si fissarono, increduli.

«Siete due maghi? Due indovini?»

Angelica, tenutasi in disparte fino a quel momento, si fece avanti, confusa da quello che stava accadendo.

Nessuno le rispose. Roberto e Alberto cominciarono a ridere e ad abbracciarsi, saltando come due bambini che avevano appena trovato il regalo tanto desiderato sotto all'albero di Natale.

«Non ci credo!» diceva Alberto. «Quattro in un colpo solo!»

«Questo sì che si chiama colpo di culo!»

Franco sorrise, involontariamente.

«Sono pazzi?» domandò Ando.

«Ho paura di no.»

«Franco, ma tu ci capisci qualcosa?»

«Sì e no. Adesso vedrai che ci spiegheranno e che...»

Il cielo divenne all'improvviso rosso; tutto, intorno a loro, sembrò immobilizzarsi; la stessa aria pareva essersi fermata, sospesa nel vuoto che lei stessa aveva creato.

Durò un attimo, un secondo, forse due; poi tutto tornò come prima. O quasi. Un odore dolciastro di morte calò su di loro, avvolgendoli come un gas velenoso.

Da dentro al furgone Enrico cominciò a piangere e a gridare.

Nessuno dei presenti poté negare che quelle urla fossero le più intrise di disperazione, di sgomento, di strazio, che avessero mai sentito in tutta la loro vita.


Franco de Simone era in lacrime; tormentava, stringendola e lisciandola, la mano che Monica gli aveva posato sulla spalla per calmare e consolare il pianto, improvviso e straziante, scoppiato sul suo viso, mentre Alessandro visitava Francesca. Monica aveva ancora gli occhi rossi e gonfi, ma aveva smesso di singhiozzare; mostrava ora, un pallore spettrale, ancor più evidente su quella faccia, solitamente rubiconda e solare.

Era schizzata fuori dalla "04-MED" appena aveva visto gli occhi di Francesca richiudersi e la sua mano cadere molle sul lenzuolo, quando ancora l'eco dell'urlo rimbombava tra le pareti e nelle loro orecchie; presa dal panico e dall'urgenza di fare qualcosa, aveva pensato di accelerare il compito che Franco aveva dato a Veronica. In realtà, non poteva sopportare di rimanere lì, immobile, davanti a quella scena straziante, sia per come era cominciata, sia per come era finita, e vedere gli occhi del suo capo tingersi sempre più del colore dell'angoscia.

Aveva intercettato la brigata sulla porta dell'ascensore, e aveva quasi trascinato Alessandro al capezzale di Francesca.

L'espressione sul volto della donna aveva spento di colpo l'entusiasmo appiccicato addosso a Veronica, per il lieto evento del risveglio, e per il fatto di essere stata mandata ad annunciarlo agli altri; lo stesso per Silvia, che desiderava conoscere la donna trovata stesa sul pavimento del capannone, al loro arrivo; e per Lina, spinta dalla più pura curiosità. Solo Camilla e Antonio erano rimasti di sopra.

«A livello fisico sta come prima, Franco. Anzi, le ferite stanno guarendo, la commozione è quasi sparita. Le avevo aggiustato un po' il naso e, anche quello, sembra stia migliorando.»

«Ma tu non hai sentito l'urlo che ha lanciato, Alessandro.»

«E quello che faceva... con la mano...» aggiunse Monica, con un tono di voce talmente greve da costringere l'ingegnere a voltarsi e fissarla per un momento.

Alessandro tastò il polso di Francesca.

«Cosa faceva esattamente?» chiese, senza alzare lo sguardo.

Gli occhi di Franco comunicarono a Monica il desiderio che fosse lei a rispondere.

«Pareva che... stesse cercando qualcosa... dentro alla... insomma...» deglutì.

Le sembrava di rivivere in tutto e per tutto la stessa inquietudine provata tanti anni prima, quando si ritrovò, suo malgrado, a raccontare a un comandante della polizia e a una psicologa, la sua versione riguardo il brutale assassinio di una bambina di sette anni. E allora, come adesso, il responsabile, il colpevole, il mostro, si chiamava sempre Pietro Masi.

«Ho capito» la interruppe Alessandro, che si era avvicinato a un armadietto, rimestando tra i flaconi all'interno.

Nella stanza era calato un silenzio opprimente e, per quasi un minuto, l'unico suono fu il tintinnare delle boccette che si toccavano, man mano che Alessandro le spostava.

Veronica, Silvia, Lina... Ognuna avrebbe voluto dire qualcosa, ma tutte erano consapevoli di come, in quel momento, qualsiasi argomento fosse inopportuno e inutile. Andrea, dal canto suo, si era rimesso giù; gli girava la testa e sentiva un forte prurito partire nel punto in cui, fino a poco prima, aveva la gamba donatagli dai suoi genitori. Aveva senza dubbio bisogno di un'occhiata da parte di Alessandro, ma tentò di resistere, valutando la situazione nel letto a fianco, più urgente della sua.

Il dottore sembrò trovare quello che cercava; aprì il flaconcino e vi immerse l'ago di una siringa, con cui bucò la sacca della flebo collegata al braccio di Francesca.

«La sto facendo dormire» disse, vedendo gli sguardi di Franco e Monica.

«Non è di nuovo in coma?»

«Assolutamente no. È solo svenuta. Quello che le sto dando dovrebbe tranquillizzarla e farla dormire per un po'. Ritengo che si sia spaventata per qualcosa: immagini, ricordi dell'accaduto, o cose simili. Non è il mio campo, ma credo che un'esperienza come quella che ha vissuto, lasci pesanti strascichi. Soprattutto adesso che sono ancora molto freschi. Avrà bisogno di supporto morale e dell'amore che potete... che possiamo darle, tutti. Perché, ripeto, a livello fisico si sta riprendendo molto bene. Ma, per quello psicologico... è un altro paio di maniche. E io che temevo più per il ragazzo! Ma Andrea è una roccia, vero?»

Lo vide sorridere, con fatica.

«Tutto bene?»

«Mi gira un po' la testa. E ho prurito.»

Alessandro vide subito, con la coda dell'occhio, la faccia di Lina velarsi di preoccupazione.

«È normale, tranquillo. Sei stato operato da poco. E vista l'entità dell'operazione, ti assicuro che sei un bel passo avanti. Hai bisogno di riposare un po' anche tu.»

Mentre preparava una siringa anche per Andrea, Monica gli si accostò. «Cosa poteva essere quel... cercare con la mano...»

«Solo sensazioni, Monica. Sensazioni parecchio brutte, a quanto pare. Ma ti assicuro che dentro la vagina non c'è nulla.»

Praticò l'iniezione al ragazzo e si lavò le mani nel piccolo lavandino posto in un angolo. Si voltò e tutti gli sguardi fissi su di lui.

Le vecchie paure, quelle che lo accompagnavano da tutta la vita, si riformarono dentro di lui: era il minuscolo 10% che riteneva essergli rimasto dopo l'intervento di Nicolas, quello che sempre lo frenava quando si trovava davanti alle persone e che gli incuteva insicurezza e faceva venir meno la fiducia che provava per sé stesso.

Guardò Silvia e fu sul punto di chiederle di andare avanti, prendere in mano la situazione, dire a tutti come procedere, cosa fare. Lui non poteva farcela. Non era in grado.

Eppure, fino a quel momento, non se l'era cavata male. E gli era chiaro il motivo: non si era fissato su quel pensiero, come invece stava facendo ora. Si era lasciato trasportare dalla professionalità del suo lavoro, dalla drammaticità del momento, dal bisogno che tutti riponevano in lui e nelle sue capacità.

Aveva amputato la gamba a un ragazzo, cosa che non aveva mai fatto. Eppure, era stato... perfetto.

Aveva rassicurato e rincuorato sua madre e le sue ragazze.

Aveva assistito Francesca e tenuto tranquillo Franco con le sue parole, con il suo modo di fare rassicurante.

Gli era molto chiaro, ora, che non c'era nulla che non funzionasse in lui, tranne quello che lui si ostinava a credere.

«Ricordatevi che l'origine di ogni male, è sempre la testa» soleva ripetere spesso il suo vecchio professore di anatomia.

Adesso, dopo molti anni, nel preciso momento in cui, girandosi, aveva incrociato lo sguardo di quelle persone che conosceva da meno di un giorno, nell'istante in cui aveva visto gli occhi di Silvia spronarlo a continuare, aveva capito veramente cosa significasse quella frase. E provò un moto di felicità frizzargli per tutto il corpo.

Fece un profondo respiro, e si sentì come ricaricato.

«Ripeto, non sono uno psicologo; ma essendo un medico di medicina generale, mi sono capitati pazienti con qualche problema di natura mentale, diciamo così. Per carità... i casi troppo complicati li ho sempre spediti da uno specialista. Ma, quelli più frequenti, tipo stress, periodi complicati, incomprensioni... insomma, cose che possono capitare a tutti, tutti i giorni, ho provato a gestirli. È ovvio che, se fossi nel mio ambulatorio, in situazioni normali, e mi capitasse questa sfortunata ragazza con questa terribile storia sulle spalle, non ci penserei nemmeno un secondo e la manderei da chi è più bravo di me. Ma qui non si può. Qui ci siamo solo noi, per lei. E siamo la migliore medicina che possa prescriverle. Tutti noi, ma soprattutto voi!» disse, indicando Veronica, Monica, Lina e Silvia.

«Siete donne, come lei, e per questo più portate a toccare i tasti giusti, a trovare le giuste parole, i giusti argomenti. Parlate con lei, lasciatela sfogare se vuole farlo, raccontatele di voi, fatela ridere, fatele bere una cioccolata, o una limonata, visto il caldo... Non lo so. Cose di questo genere.»

Nessuno fiatava, ma tutti annuivano.

Veronica stringeva forte la mano di Andrea, sorridendo.

«Ha bisogno di normalità, capite? Probabilmente non dimenticherà mai quello che le è successo, ma bisogna aiutarla a renderlo un ricordo, brutto, terribile, ma solo un ricordo. Da quello che è successo, da quello che fa e dice, mi sembra di capire che allo stato attuale, sia qualcosa di più.»

«Che belle cose che dici!» disse Lina, mentre Silvia, con gli occhi lucidi, orgogliosa come non si era mai sentita, la fissava annuendo.

Monica si grattò la fronte con aria triste.

«Io... cioè, non è facile darle della normalità in questo momento. Tutto quello che era normale è stato spazzato via.»

«Lo so, lo so. Ma noi siamo vivi, e siamo al sicuro per il momento. Viviamo in una specie di bolla dorata...»

Ridacchiò.

«E non è nemmeno una frase fatta o un luogo comune! Caspita! Siamo sul serio racchiusi dentro a una bolla. Dovremo combattere, dovremo reagire, forse dovremo morire...» Alessandro si rivolse, in quel momento, proprio a Franco, che lo fissava a testa bassa, ma non dava reale segno di essere presente. «... ma fin che possiamo, cerchiamo di goderci l'attimo, cerchiamo di ritrovare la serenità perduta. E soprattutto, facciamola ritrovare a lei. E anche a questo ragazzo!»

«A lui, ci penso io. Vorrei restare un po', se non è un problema.»

Con la mano libera, Veronica, si era messa ad accarezzare i capelli di Andrea, che alternava gioia a imbarazzo, vedendo gli occhi della madre su di loro, mentre i suoi si facevano via, via, sempre più pesanti. Ma, lo sguardo di Lina, comunicava solo contentezza.

«Se mi accorgo che Francesca si sta svegliando, vi vengo a chiamare» concluse la ragazzina.

«Dovresti riposare, tu... Ti ho appena dato una dose piccola di calmante; dovrebbe farti dormire per un po'» disse Alessandro, assumendo, per scherzo, il tono da dottore severo.

«Sto bene» controbatté il ragazzo. «E lei mi fa stare meglio.»

«Pensavo di dover rimanere io qui, con mia nipote...»

La voce di Franco sorprese tutti; aveva il viso pallido e scavato e, in modo un po' assurdo, ad Alessandro parve invecchiato.

«No, ingegnere. Lei adesso viene su con me. Non voglio che rimanga qui.»

Monica aveva già afferrato i manici della carrozzella, girandola verso la porta. Franco tentò qualche timida protesta, ma la sua voce era molto flebile. Si rendeva conto di aver subito un duro colpo nel vedere Francesca comportarsi in quella maniera, dopo essersi risvegliata.

«Ha ragione Monica!» aggiunse Alessandro. «Sei molto scosso, si vede. Non ti fa bene stare qui e non farebbe bene a tua nipote. È in buone mani, tranquillo. A pomeriggio, se la situazione migliora, potrai venire a trovarla.»

«Dovrebbe prendere un po' d'aria, forse» propose Lina.

«C'è lo scudo attorno alla FDS!» Franco pronunciò la frase quasi in modo meccanico.

«Allora si legga un buon libro; o stia un po' nel suo studio a guardare i suoi numeri e le sue formule» disse Monica, innervosita da come il suo capo si stava comportando, conscia però che l'irritazione era figlia di tutta la situazione.

«Andiamo, forza!»

«Di che scudo parla?» sussurrò Andrea a Veronica.

«Dopo ti dico...»

Alessandro si guardò un istante intorno. «Dov'è l'altra ragazza? Anche lei deve dare una mano.»

«Camilla?» chiese Silvia, prendendo il marito sottobraccio e scoccandogli un bacio sulla guancia. «È passata in tutta fretta poco prima ci venisse a chiamare Veronica, mentre tu eri in bagno. È corsa di sopra, presumo in camera sua.»

«Lasciamola stare per un po'.»

Monica si voltò verso i due ragazzi mentre parlava, più per istinto che con un motivo d'accusa. «Credo abbia bisogno di stare un po' da sola.»

«E Antonio? Era uscito a giocare...» Alessandro, questa volta, si rivolse direttamente alla moglie.

«Quando siamo scesi, era ancora fuori.»

Fu in quel preciso momento che Franco sollevò la testa, come se, all'improvviso, si fosse ricordato qualcosa.

Gli occhi, che l'accaduto avevano imbigito di uno spento grigio, tornarono a guizzare del loro solito colore ceruleo; persino il colorito del viso parve ravvivarsi.

«Fuori?» esclamò.

S'irrigidì, poi si voltò verso Monica, piantandole in faccia due occhi atterriti.

«Il treno... Masi!»

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