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46 - LA TESTA DEL SERPENTE (2)

Enrico e Gabriele avevano abbandonato la loro occupazione quando le urla dei Fratelli, dopo aver bussato alle orecchie un paio di volte, avevano deciso di entrare senza aspettare che qualcuno aprisse. In una frazione di secondo avevano capito che stava succedendo qualcosa di brutto.

«Cazzo! Andiamo!» aveva detto Gabriele, recuperando la torcia e lanciandosi di corsa attraverso il labirinto ricavato all'interno del capannone, seguito a fatica da Enrico.

«È un motore, questo?» chiese il ragazzo grasso, ansimando.

«È il nostro furgone.»

Gabriele aprì il portone, mentre un tuono fragoroso e vicino, brontolò nel cielo nero. Fecero appena in tempo a vedere il veicolo uscire dal cancello, girare a destra e allontanarsi nella campagna bolognese.

«Forse è Mirko che va a cercare Denis?»

«Cazzo! CAZZO!»

Gabriele non lo ascoltava, già avviato di corsa verso l'ingresso della casa, seguito dal ciccione che faticava a tenere il passo, sofferente per i sassolini che gli foravano le piante dei piedi.

Lo vide entrare nell'androne pieno di fumo nero, lasciando la torcia sulla ghiaia, ma uscirne subito, tossendo e piangendo.

«Andiamo dietro!» disse, con la voce tremante e gracchiante allo stesso tempo, afferrandolo per un braccio e tirandolo.

Enrico raccolse la lampada; credeva di aver capito cosa fosse successo, ma preferiva tacere e non chiedere, per mantenere viva la speranza che si stesse sbagliando.

Il cielo si illuminò di colpo, rischiarando spettralmente tutto intorno; ricalò l'oscurità, e un tuono rimbombò, strascicato, un po' più forte del precedente, chiaramente un'eco del botto che doveva essersi sentito da qualche altra parte, facendo vibrare anche i cuori dei due ragazzi che, giunti sul retro della casa, si erano arrestati davanti all'incendio che divampava fuori dalle due finestre del dormitorio. Le fiamme avevano attecchito anche il cofano della Ford e presto l'intera auto ne sarebbe stata avvolta. Sparito il furgone, l'unico mezzo disponibile era la Panda bianca di Clara.

«No! NO! I nostri Fratelli...»

Gabriele si inginocchiò, mentre Enrico, dietro di lui, guardava la scena respirando con affanno. Sembrava tutto irreale, ma la speranza che fosse solo un brutto sogno svanì sentendo la parola "Fratelli" uscire dalla bocca piangente dell'amico.

Enrico non piangeva; stringeva i pugni mentre osservava la sua nuova vita andare in fumo, conscio d'aver perso per sempre le ragazze che, per la prima volta nella sua vita, l'avevano fatto sentire desiderato, che gli avevano fatto provare piaceri mai esplorati dal suo corpo. Le mani che l'avevano accarezzato, le bocche che avevano leccato ogni centimetro della sua pelle, i seni che aveva baciato, le vagine in cui era penetrato...

Il fuoco aveva carbonizzato tutto e quelle giovani vite si erano spente nelle urla di dolore straziante che aveva udito.

Gabriele si alzò e si diresse nel piccolo prato con le mani nei capelli; pareva fuori di sé. Di nuovo il cielo si accese, illuminando a giorno tutto quanto. E Gabriele lo vide, così come Enrico.

Un corpo, riverso a faccia in giù, vicino alla rete.

Il tuono stavolta esplose in tutto il suo fragore, facendoli sobbalzare entrambi, mentre correvano verso il cadavere.

«Chi è?» chiese Enrico.

Gabriele si era chinato. «Mirko!»

Si alzò e si girò verso l'unico Fratello rimasto. La luna era sparita in cielo e la visibilità era ridotta al minimo.

«È stato Denis.»

«Ma non era scappato?»

«A quanto pare no.»

Guardò per un attimo nella direzione in cui avevano visto svanire il furgone.

«Ora sì! E sono sicuro si sia portato via anche i tuoi due amici stronzi!»

Le prima gocce di pioggia cominciarono a scendere, mentre di nuovo un lampo saettò nell'aria. Si sollevò un'improvvisa aria fredda, tale da accapponare la loro pelle nuda. Lo schianto del tuono arrivò subito dopo.

«Vieni!» disse Gabriele, mettendosi a correre.

Giunsero davanti all'ingresso della stalla che già la tempesta infuriava, il classico temporale estivo, violento e non aspettato. Entrarono nell'oscurità tremando ed Enrico accese la torcia.

«Visto?»

Gabriele si avvicinò alle catene e raccolse la chiave abbandonata a terra, mostrandola al compagno. «Fuggiti!»

Sentendo la collera crescere in lui, scagliò la chiavetta contro il muro, con violenza. «Bastardi! Pezzi di merda!»

«Perché hanno ucciso tutti?» chiese Enrico. «Perché non sono solo scappati?»

Un nuovo scoppio echeggiò all'esterno, facendolo di nuovo sobbalzare.

Gabriele non rispose. Sembrava immerso nei pensieri, o nei tormenti. Andava avanti e indietro, frizionandosi le braccia bagnate.

«Il Capo! Clara!» disse Enrico, all'improvviso. «L'appartamento è sopra l'incendio! Dobbiamo aiutarli...»

«La scala è piena di fumo ed è l'unico accesso. Moriremmo soffocati dopo due gradini. E poi non c'è nessun Capo.»

«Cosa dici?»

«Clara è il Capo! O, immagino, era.»

«Ma come? Era tutta una finta allora?»

«Senti. Ti racconterò tutto, va bene. Ma ora voglio vendicarmi. Mi aiuterai? Quel russo di merda e i tuoi due compari hanno fatto fuori tutta la nostra gente. Caterina, Claudia, Pascasia... Potevi essere al caldo, adesso, in un sacco a pelo a goderti il rumore della pioggia e le cosce aperte di una bella passera! E invece sei in una stalla sporca e fredda e tutti i nostri amici sono stati bruciati vivi.»

Enrico si fece un po' avanti, pervaso da un coraggio che non aveva mai abitato in lui.

«Va bene. Però voglio saperlo adesso. Era tutta una farsa? Quella bambina e quell'uomo sono stati bruciati per delle fandonie?»

Gabriele lo fissò per un secondo. «Sei giaciuto con Caterina e Claudia, vero?»

Enrico annuì.

«Cos'hai provato?»

«Piacere. Tanto piacere. E soddisfazione. La sensazione per una volta che ci fosse qualcuno al mondo a cui importasse di me.»

«E tutto questo, per te, è finto? È una fandonia?»

Lo stupore e la delusione per l'inganno si affievolirono in un attimo. Le parole di Gabriele entrarono nell'animo di Enrico; sentì lo stomaco contrarsi; il furore e la tristezza gli crebbero dentro, avviluppandosi tra loro come edera.

«No!» disse, infine.

Un nuovo tuono risuonò nel cielo, meno intenso degli altri, ma ancora imponente. Enrico sobbalzò, mentre i visi di Roberto e Alberto si stamparono nella sua mente, accanto a quelli di Caterina e Claudia.

"Bastardi!" pensò.

«Bene. Ora, dimmi... Sei stato con i due tizi. Dove stavate andando? Perché eravate a Castenaso? Dove potrebbero essere, adesso?»

Enrico rifletté per un secondo. Ripensò a tutta la storia dell'energia e degli scrigni; non ci pensava più dal giorno prima.

«Stavano cercando delle persone. Una coppia che abita qui, ma non ricordo i nomi.»

«E perché li cercavano?»

«Dicevano che dentro di loro c'è una sorta di energia molto potente, con la quale è possibile distruggere Ismel.»

«Cazzate!»

«Ieri mattina, Alberto... quello più giovane, ha distrutto una sentinella sparando fuori dalle sue mani una sorta di raggio. L'ho visto io, con i miei occhi.»

Gabriele gli si avvicinò. «Mi prendi per il culo?»

«No! Te lo giuro. L'avevo raccontato anche a Clara.»

«Quindi anche questo Alberto avrebbe i poteri? Non solo i tizi che stanno cercando?»

«Esatto! E anche l'altro, Roberto. E anch'io, secondo loro. Stanno mettendo insieme una squadra, capisci? Dopodiché vogliono raggiungere un posto, in Trentino. Una sorta di base con altre persone che li attendono.»

Gabriele rimase in silenzio. Il grassone aveva raccontato tutto a Clara, ma lei non gli aveva detto nulla. Perché?

"Te l'avrebbe detto, scemo. Solo che non ha fatto in tempo!"

Pensava a lei come se fosse morta, ma in realtà non lo sapeva con certezza.

"Ovvio che è morta! Altrimenti... dov'è?"

All'esterno, intanto, il temporale aveva aumentato la sua potenza; gli scrosci d'acqua erano impetuosi e il vento si era alzato, sibilando in ogni direzione, portando freddo e acqua anche all'interno della stalla. Il cielo s'illuminava di continuo, ma i tuoni erano meno forti, ridotti a sordi brontolii che perdevano sempre più intensità.

«Dammi la torcia» disse Gabriele, allungando la mano. Enrico gliela porse e lui la diresse verso un angolo, illuminando quello che sembrava un fagotto abbandonato.

«Cosa sono?»

«I vestiti dei due stronzi. Tieni, fammi luce.»

Cominciò a rovistare nelle tasche.

«Cosa cerchi?»

«Qualcosa! Indizi, tracce... O un foglietto!»

Sventolò il pezzo di carta davanti alla sua faccia, lo aprì e lo lesse.

«È un atto di matrimonio. Eleonora Cataldi e Rodolfo Dandolo. Ti dicono niente questi nomi?»

Enrico rifletté per un secondo. «Sì, direi che sono i tizi che cercavano. I cognomi, non ne sono sicuro, ma i nomi mi sembrano proprio quelli.»

«Via delle Olimpiadi 64 e via Gramsci 27. Dici che sono diretti lì?»

«Probabile. Erano molto presi da questa ricerca, soprattutto Alberto.»

Rifletté un secondo, come colpito all'improvviso da un altro ricordo.

«Aspetta! Avevano anche un altro foglio! Era la lista di quelli che dovevano trovare. Hai controllato tutte le tasche?»

Gabriele prese l'altro paio di pantaloni e trovò subito quel che cercava.

«Questo?» disse, sventolando il pezzo di carta. Lo aprì e sorrise.

«Sì! Sono loro. Cataldi e Dandolo. Guarda.» E indicò con il dito i nomi scritti nell'elenco.

«Vieni con me.»

Si diresse verso l'uscita.

«Aspetta! Sta diluviando fuori e noi siamo mezzi nudi!»

Il ragazzo si voltò. «Hai paura di due gocce d'acqua! Cosa direbbero Caterina e Claudia, dopo quello che hanno fatto per te?»

Enrico fu punto sul vivo. Le sensazioni che gli avevano dato le loro lingue erano ancora molto presenti in lui, ma... cazzo! Aveva freddo! E là fuori, sapeva bene, ne avrebbe provato ancora di più.

Ma Gabriele lo osservava con la stessa espressione vista più volte negli occhi di chi lo fissava: quella che intendeva "povero ciccione ridicolo"! Stavolta, però, percepiva qualcos'altro in quegli occhi, quasi una richiesta d'aiuto inespressa a parole, forse per orgoglio o chissà per cosa; e, insieme a quella, una sorta di delusione nel vedere che l'unico Fratello rimasto pensava più alla pioggia e al freddo che alla vendetta.

Enrico cedette e gli andò dietro, pentendosi subito non appena mise il piede fuori dalla porta. Si ritrovò in un attimo zuppo, mentre l'acqua cadeva dal cielo come se qualcuno stesse rovesciando su di loro intere vasche; l'aria soffiava forte, intorno e su di loro, ed era ghiacciata, l'esatto contrario di come dovrebbe essere in una notte di fine giugno. Mentre seguiva di corsa Gabriele che si stava dirigendo verso il capannone, Enrico sentì intorpidirsi le braccia, le mani, le gambe e i piedi, quest'ultimi già doloranti per i sassi del cortile che infierivano sulle piante nude, senza pietà.

Entrarono nell'ingresso più lontano e subito Gabriele bestemmiò con veemenza.

«Si è preso pure tutta la benzina, quello stronzo!»

«Cosa?»

Enrico si abbracciava stretto, cercando di scaldarsi, sollevato almeno dal liscio pavimento su cui i piedi poggiavano.

«Denis ha portato via tutte le taniche. Speriamo che la Panda non sia a secco.»

Entrò in un piccolo ufficio, ricavato da quattro pannelli montati a formare un quadrato, nell'angolo davanti a loro. Aprì un armadio ed estrasse due fucili.

«Questi non li ha trovati.»

Ne diede uno a Enrico, lanciandogli anche una scatola di munizioni.

«Sono disarmati, almeno. Un punto a nostro vantaggio.»

«Che intenzioni hai?»

«Voglio andare a controllare i due indirizzi. Se uno dei due è la casa dei due tizi che cercano, ci appostiamo e aspettiamo. Se dovessero farsi vedere... Bang! Bang!»

Gli occhi di Gabriele, tornati quelli di un normale ragazzo davanti allo strazio dell'incendio, disperati per la morte dei suoi amici, sembravano ora aver ripreso quella luce diabolica che Enrico gli aveva visto fin dalla prima volta.

«E se non vengono? O se ci sono già stati? Magari sono là adesso, mentre parliamo.»

«Adesso, non credo. Se decidono di andarci, sono convinto che aspetteranno il mattino e la luce. Se non si presentano... cambieremo piano. Forza! Alla Panda, ora.»

E si rituffò sotto la pioggia. Enrico sbuffò e lo seguì malvolentieri.

L'impetuoso temporale aveva spento quasi del tutto le fiamme; le raffiche di vento erano penetrate all'interno del dormitorio dalle finestre aperte, insieme a spruzzi di acqua, e ormai, dalle inferriate, uscivano solo sparute e deboli lingue di fuoco, insieme a un denso fumo nero, carico dell'odore insopportabile di carne bruciata. I due ragazzi arrivarono di corsa e si lanciarono a capofitto dentro l'auto, bagnati come non lo erano mai stati.

«Fanculo il temporale!» disse Enrico, chiudendo lo sportello e massaggiandosi come prima cosa le piante dei piedi doloranti.

«Le chiavi ce le hai?» chiese, d'un tratto.

Gabriele si lisciò i capelli all'indietro e aprì il cassettino portaoggetti davanti al grasso amico.

«Era una regola di Clara: lasciare sempre le chiavi in macchina.»

Mise una mano in tasca ed estrasse un telefonino che ripose nel vano.

«E quello?» chiese Enrico.

«Era dei tuoi due amici.»

«Non erano amici miei. E comunque i telefonini non funzionano.»

«Lo so! Ma non si sa mai. E poi, guarda...» lo riprese in mano. «Batteria al 100%.»

«Com'è possibile? Dove l'hanno caricato?»

Gabriele non rispose. Guardò verso la sala fumante.

«Non ti piacerà, ma domani dovremo seppellire tutti, compreso Mirko e, presumo, Clara.»

Disse l'ultimo nome rivolgendo lo sguardo verso le finestre sopra di loro.

«Lo farò volentieri» disse Enrico.

Non era vero, ma lo sguardo di gratitudine che gli diede l'amico gli riscaldò il cuore e, per un attimo soltanto, gli sembrò di non avere freddo.

«Speriamo bene...»

Gabriele infilò la chiave e avviò l'auto. Il motore borbottò e partì. Il ragazzo batté soddisfatto le mani sul volante.

«Benzina?» chiese Enrico.

«È a un quarto. Non possiamo andarci troppo in giro, ma per quello che dobbiamo fare, va benissimo.»

«Ok!»

Gabriele azionò i tergicristalli alla massima potenza. L'auto si mosse, si avviò verso il cancello e sparì nella notte buia e tempestosa.


Il furgone rosso era parcheggiato sul retro di una villetta isolata, non lontana dalla casa degli orrori di Clara.

Era disabitata, come la maggior parte delle case della zona e, probabilmente, di tutto il mondo.

L'improvviso e impetuoso temporale, la stanchezza di una giornata lunga e massacrante sotto tutti i punti di vista, aveva costretto Denis a fermarsi; il cancello che delimitava la proprietà era semiaperto, così poterono entrare e nascondere il riconoscibilissimo furgone.

L'ingresso era chiuso da una porta blindata, ma il muro a fianco era sventrato, e da lì poterono accedere direttamente nella sala, un cumulo di macerie ancora più devastato dalla furia del temporale che poteva entrare e agire indisturbato su quel poco che la sentinella aveva lasciato in piedi durante la sua caccia. Dalla cucina arrivavano i cattivi odori del cibo (una volta) conservato in frigorifero e nel freezer, andato a male, ma trovarono diverse casse d'acqua naturale che utilizzarono, oltre che per dissetarsi, anche per lavarsi. La dispensa era ben fornita di scatolame, biscotti, merendine e marmellate, riuscendo, così, a mangiare a sazietà.

Il piano di sopra era per fortuna integro, riparato e asciutto; dopo essersi lavati, per una volta in maniera decente, lasciarono i vestiti stesi ad asciugare e si sdraiarono sul grande letto matrimoniale, con l'idea di dormire e recuperare, se non la serenità perduta, almeno un po' di forze.

I tre avevano taciuto per tutto il tempo, sopraffatti dagli eventi della giornata, ma soprattutto da una stanchezza subdola, messasi a strisciare senza pietà nelle loro ossa, nei loro muscoli, non appena aveva percepito il minuscolo sprazzo di rilassatezza.

Dopo che Denis spense la torcia, cominciò a piangere, in un modo che stonava alquanto con la sua imponenza e l'aria da duro che mostrava.

«Beh! Che c'è?» chiese Roberto, ripresosi dopo essersi scrollato di dosso i residui del sonno agitato, tormentato e scomodo che aveva fatto nella stalla, e finalmente poteva abbandonarsi a una vera dormita, se non serena, perlomeno riposante, vista la morbidezza del cuscino e del materasso su cui posavano.

«Ho ucciso persone! Tante persone! Giovani ragazzi.»

«E sei pentito? Se lo meritavano, mi pare» s'intromise Alberto.

«Pentito, no. Ho fatto quello che volevo fare. Ma mi sento brutto dentro.»

Roberto sorrise nel buio. Il ragazzo parlava bene l'italiano, ma qualche termine, com'era ovvio, gli mancava.

«Hai fatto giustizia per quella povera bambina e per il suo papà. Devi esserne fiero, invece. Oltre al fatto che ci hai liberato e di fatto, salvato la vita. Hai dato all'umanità una possibilità enorme, lo sai?»

Denis tirò su col naso. «Come? Cosa vuole dire questo?»

«Lascia perdere» intervenne Alberto. «Ormai, non ha più molto senso.»

«Non dire così, Alby. So che pensi a Enrico...»

«Già! Proprio a lui. Abbiamo perso uno scrigno. Abbiamo fallito.»

«Faremo senza, dai! Se riusciamo a trovare gli altri...»

«Appunto! Se! E nel caso saremmo comunque incompleti e quindi più deboli.»

«Aspetta!» Denis prese la parola. «Che storia è? Cos'è scrigno?»

«Vuoi spiegarglielo tu?» disse Alberto.

Roberto non ne aveva molta voglia ma, riassumendo il più possibile, informò il russo su tutto quanto.

«Accidenti! Quindi ho catturato due grossi pezzi!»

Roberto e Alberto si voltarono, nel buio, verso di lui.

«Ah, perché eri tu alla chiesa? Quello ci ha preso alle spalle?»

«Io e Mirko. Mi dispiace. Obbedivo ordini.»

La pioggia continuava a scrosciare all'esterno, anche se l'intensità stava diminuendo.

«Comunque,» riprese Roberto. «è inutile piangersi addosso e lasciarsi prendere dal pessimismo. Cazzo, Alby! Su questo sembra che facciamo apposta a darci il cambio. Domattina andrei a controllare i due indirizzi che abbiamo trovato...»

Si bloccò un secondo.

«Merda! Il foglietto è rimasto nella tasca dei pantaloni!»

«Me li ricordo a memoria, tranquillo! Via delle Olimpiadi 64 e via Gramsci 27.»

«Bravo, Alberto! Dicevo... andiamo a controllare, giusto per scrupolo, anche se credo non troveremo nessuno. Dopodiché torniamo a Ozzano, a prendere il corpo di mia moglie e del papà di Veronica.»

Ogni volta che ritirava fuori l'argomento, il sogno avuto nella stalla puntualmente si ripresentava, e le parole pronunciate da (l'uomo pelato?) Andrea, cominciavano a rimbombargli nelle orecchie, rivestendolo di quella sgradevole sensazione che non fosse solo un sogno. Ma la sua razionalità non voleva accettarlo. Non poteva, accettarlo.

«Non sono morti?» chiese Denis. «Non sembra che siano vivi. Sono fermi, sdraiati...»

«Ma non marciscono!» puntualizzò Roberto. «Deve esserci un motivo!»

Denis tacque per qualche secondo. «Io non avevo notato. Hai ragione.»

«Non dovremmo tornare anche alla casa?» disse Alberto. «Per controllare...»

«Non voglio tornare là. Mai e poi mai.»

La voce di Denis, che voleva essere autoritaria, risultava essere più supplichevole. «Potrebbe esserci rischio, ancora.»

«Non hai detto che li hai uccisi tutti?»

«Ho detto che ho ucciso molta gente. Clara e Mirko sicuri. Dei Fratelli non ho visto chi c'era e chi no. Dico che forse era tutti, ma non ho certezza.»

Alberto sollevò la testa. «Vuoi dire che potrebbe esserci qualcuno ancora vivo?»

«Io non so. Credo di no. Ma non ho sicurezza di questo.»

«Scusa, e il Capo?» chiese Roberto.

Denis ridacchiò. «Non c'è nessun Capo. Clara era Capo. Aveva corpi di marito e figli in casa e ci parlava. Io ho sentito, prima di tagliare la gola. Credo che sua testa andata di matto, quando la sentinella ha preso sua famiglia. E non so come, ha riuscito a convincere anche altra gente.»

«Veramente?»

Roberto era incredulo per la notizia e stavolta non fece caso all'errore grammaticale del ragazzo.

«Quindi non sai come ha fatto ad ammucchiare tutta quella marmaglia?»

«No» rispose Denis. «Ero uno di ultimi arrivati. Volevo chiedere ma ancora non avevo fatto.»

«Cristo! Erano tutti ragazzi! Gente normale, fino a sabato scorso. Come possono essersi trasformati in mostri in soli due giorni?»

«La disperazione, Alby! La paura, lo sconforto. La quasi certezza di un futuro svanito. Ci possono essere tanti motivi.»

«Io lo sospettavo, comunque. Non mi convinceva quella donna.»

Sbadigliò.

«Va bene. Continuiamo domani? Non so voi, ma io sono parecchio stanco.»

«Che ore sono? Voi sapete?»

Alberto riaprì gli occhi, appena chiusi, e si tirò su facendo sobbalzare gli altri due, come se un fulmine del temporale, fosse tornato a saettare proprio dentro la stanza.

«Cazzo! Il cellulare di Franco! È rimasto nella Ford

«Ma non vanno telefoni!»

Rispose Roberto. «Il suo era particolare e Franco, il vecchio di cui ti parlavo prima, potrebbe riuscire a riattivare le linee.»

«Porca puttana, Roby! Era l'unico modo che avevamo per comunicare con loro.»

«Lo so, Alby. Ma quando Franco ti ha chiamato, non ti ha detto che non ci sarebbe più riuscito?»

«Sì, ma quell'uomo è un genio. Era meglio averlo con noi il telefono. Senti, Denis... Dobbiamo tornare là domani. Tu resti nel furgone se non te la senti. Andiamo noi a vedere e a recuperare il cellulare. È importante.»

«Se era in Ford, adesso è bruciato. Ho messo macchina contro porta per bloccare uscita, quando ho dato fuoco.»

Alberto si ributtò sul cuscino. «Cazzo!»

«Mi spiace» aggiunse il ragazzo.

«Fa niente. Hai fatto anche troppo.»

Denis prese la torcia e l'accese. Sul comodino c'era una vecchia sveglia manuale, ancora funzionante.

«Sono due e quarantacinque.»

«Buonanotte, allora» disse Roberto. «Cercate di riposarvi perché temo che domani sarà un'altra giornata burrascosa.»

Alberto si coricò sul fianco sinistro e chiuse gli occhi, facendo un profondo respiro. Lo zigomo colpito da Enrico, a contatto con il cuscino, pulsò leggermente, ricordandogli la carezza ricevuta da quell'osceno ragazzo, e facendogli ribollire di nuovo il sangue per la rabbia che provava.

Cercò di calmarsi; era stanchissimo, e aveva bisogno di riposarsi. Svuotò la mente e cercò di rilassarsi. La sensazione di essere pulito, con lo stomaco pieno, adagiato su un letto morbido, ma soprattutto di essere riuscito in qualche maniera a scampare al brutto destino che quella setta di pazzi stava preparando per lui, gli fece scordare, per un po', tutto il resto. Si sentiva al sicuro, in pace e, con la mente, tornò a quando era riuscito a scappare dal branco di lupi sul ponte di legno, e alle meravigliose sensazioni che aveva provato nella cuccetta del treno di Franco, dove aveva trovato la salvezza. La scarica di brividi arrivò puntuale alla base del collo e scese vertiginosamente giù per la schiena, circondandogli le spalle e tutto il corpo. La seconda fu ancora più forte e la pelle s'increspò di piacere.

Si rannicchiò un po' di più e sorridendo, s'addormentò.


Prima di coricarsi, Denis aveva chiuso la finestra dalla quale entrava l'aria rinfrescata dal temporale, ancora impetuoso intorno a loro. Ma né lui, né i suoi due compagni, pensarono di tirare giù anche la tapparella, che rimase quindi come l'avevano lasciata i precedenti abitanti della villetta, prima di essere prelevati dalla sentinella e trasferiti, loro malgrado, sotto a una bolla arancione.

Finita la breve conversazione erano tutti e tre come svenuti, e nonostante le cose terribili a cui avevano dovuto assistere in quella giornata, e la marea di preoccupazioni che ottenebravano i loro pensieri, si erano addormentati di botto, come forse non capitava da quando erano bambini, dormendo un sonno senza sogni, indisturbato.

Le prime luci di un'alba nuvolosa cominciarono a illuminare la camera; il cielo era grigio e i timidi raggi di sole faticavano a bucare la spessa coltre fumosa addensatasi; in lontananza rimbombavano ancora gli echi dei tuoni, quasi a voler avvisare che, forse, sarebbero tornati alla carica, portando altra pioggia.

Il primo ad aprire gli occhi fu Roberto; per un po' non riuscì a capire dove si trovasse e l'unica cosa che riconosceva era il caldo, spaventoso e soffocante che ristagnava nella camera.

Si mise a sedere; non conosceva quella stanza, ma la finestra era chiusa e l'aria era irrespirabile. La maglietta che aveva addosso era zuppa di sudore, appiccicata in modo fastidioso alla pelle e, al suo fianco, dormivano due uomini in mutande.

L'intontimento svanì di colpo e tutto gli tornò in mente.

Guardò la sveglia sul comodino alla sua sinistra: erano le nove e trentotto. Strisciò in avanti sulle coperte e scese dal fondo del letto. La puzza nell'aria era nauseante.

"La roba nel frigo. Potevamo buttarla fuori, ieri notte!" pensò, mentre apriva la finestra.

Una ventata di aria fredda lo investì e fece rabbrividire la sua pelle sudata. Il temporale aveva notevolmente asciugato tutta l'umidità e, visto il cielo che c'era, si prospettava una giornata fresca. Questa, almeno, era una buona notizia.

Tornò al letto e scrollò Alberto.

«Alby! Sveglia! Dobbiamo muoverci.»

L'amico mugolò, poi aprì un occhio. «Cos'è questo freddo? E che puzza...»

«Buongiorno anche a te. Dai, sveglia Denis. Dobbiamo andare.»

Andò in bagno. Erano rimaste ancora diverse bottiglie d'acqua, sufficienti per lavarsi tutti e tre e avere un po' di scorta da portarsi dietro, anche se, acqua da bere, non era difficile da trovare in giro. Nel giro di mezz'ora erano tutti e tre pronti per partire, lavati, vestiti, riposati. Presero dalla dispensa le scorte di cibo confezionato rimaste e partirono.

Nonostante le reiterate proteste di Denis, la prima tappa fu al casolare di Clara, dove scese solo Alberto. Roberto, la cui intenzione era quella di accompagnare l'amico, all'ultimo desisté e rimase col russo sul furgone, fermo nello spiazzo fuori dal cancello.

Alberto entrò nel cortile guardandosi intorno con attenzione, stringendo il fucile di Mirko e sperando con tutto il cuore di non essere costretto a usarlo. Avevano solo due proiettili in canna in quel momento ma, soprattutto, era quasi certo che non sarebbe riuscito a sparare a nessuno, per quanto grande fosse la colpa di chi gli si fosse parato davanti. Aveva promesso a sé stesso che non avrebbe più ucciso, almeno non direttamente, e aveva intenzione di onorare il suo voto.

Intorno a lui tutto era silenzio e deserto.

Andò sul retro; il fumo usciva dal dormitorio in un flebile refolo nero, ma l'odore di morte, seppur meno intenso, aleggiava ancora nell'aria. Il muro intorno e sopra le due finestre della sala era annerito, così come tutta la parte davanti della Ford, il cofano e una parte degli sportelli anteriori; il parabrezza e i finestrini erano scoppiati, le gomme si erano sciolte. La Ford Taunus aveva esaurito i suoi giorni per strada, in maniera ufficiale.

Ricordava d'aver lasciato il telefono nel vano portaoggetti, per cui si avvicinò con le speranze ridotte al minimo. Allungò la mano verso la maniglia con esitazione, toccandola appena per paura che scottasse: era fredda. Riuscì ad aprire la portiera e rovistò nel piccolo vano rimpicciolito dalla plastica sciolta e accartocciatasi. Si aspettava di trovare il cellulare, o quello che ne rimaneva, carbonizzato. Invece non trovò nulla.

Uscì dall'auto e rimase per un momento fermo, perplesso.

«L'hanno preso loro quando ci hanno rubato la macchina, allora. Cazzo!»

Guardò la casa. Avrebbe dovuto andare dentro a cercare, ma l'idea di vedere dei cadaveri, non lo attirava per niente. Ce n'era già uno alle sue spalle, sdraiato nell'erba; l'aveva visto con la coda dell'occhio mentre si avvicinava alla Ford e aveva subito distolto lo sguardo. Ma il telefono gli serviva! Non sapeva perché, ma sentiva che doveva averlo con sé, non fosse altro perché gliel'aveva consegnato Franco, e Franco voleva dire anche Francesca.

D'un tratto si sentì osservato.

Fu una sensazione improvvisa, che arrivò da dietro come una folata di vento freddo. Gli si accapponò la pelle all'istante e maledisse sé stesso per aver abbassato la guardia, senza quasi accorgersene. Rimase fermo per un momento, aspettando di sentire una qualche sorta di comando o intimidazione o, peggio, di dolore. Ma non successe niente e il silenzio continuava a essere il padrone incontrastato.

Si voltò, lento come il miele che cola; prima la testa, poi, poiché i suoi occhi continuavano a non vedere nulla di inconsueto, decise di muovere anche il resto del corpo. Stava per tirare un sospiro di sollievo, convincendosi che era stata solo una banale e normale suggestione, vista la situazione, ma quando la sua rotazione fu completa, poté constatare che non era così.

Un grosso cane nero era fermo al di là della rete, immobile, con lo sguardo fisso su di lui, quasi fosse una statua. Teneva in bocca un animale morto ma, a prima vista, Alberto non capì di cosa si trattasse. Un coniglio forse, o una lepre, ma quando il cane, senza staccargli gli occhi di dosso, posò la preda morta a terra, con terrore Alberto capì che era un gatto, un gatto piuttosto grosso, a cui doveva aver spezzato la schiena con un singolo morso. Il cuore cominciò a martellargli nel petto, accelerando il battito quando l'animale, tenendo la testa bassa, cominciò a ringhiare.

"Non è possibile!" pensò subito, mentre l'immagine dei lupi a cui era sfuggito due volte si formava nella sua mente. "Devono essere i demoni dell'inferno venuti sulla Terra sotto forma di cani, per farmi espiare le colpe che devo ancora pagare!"

Il pensiero gli venne in automatico, facendolo rabbrividire e sorridere allo stesso tempo, mentre teneva gli occhi fissi sulla bestia che aveva cominciato a muoversi.

«A cuccia, bello!»

Si chiese se la rete fosse abbastanza alta o se, con un salto, l'animale era in grado di superarla. Era molto grosso e, forse, non troppo agile. Ma era così sicuro di essere esperto di agilità canina?

Il cane non sembrava aver intenzione di saltare; stava avanzando verso la sua sinistra, sempre molto lentamente. Alberto non capiva che intenzioni avesse quando, spostando lo sguardo lungo la rete, notò con terrore che a circa dieci metri c'era un grosso buco.

L'adrenalina cominciò a sfrigolare impazzita in lui e le gambe cominciarono a tremargli. In un attimo dimenticò di avere un fucile in mano, e anche di essere dotato di un potere in grado di poter polverizzare il cane, se si fosse palesato. Pensava solo ai lupi di montagna, a come l'avevano braccato e tentato di sbranare per ben due volte e la paura si trasformò in rabbia, l'incertezza, in orgoglio. Era stufo di essere considerato una preda, stufo marcio.

Fissò negli occhi il suo avversario per un momento, cercando di trasmettere una falsa parvenza di coraggio; poi, d'improvviso, gli corse incontro urlando, agitando le mani.

L'animale s'arrestò, confuso e stupito, discostandosi dalla rete, e allontanandosi un po' nella campagna.

Ma quando Alberto si fermò convinto d'aver avuto successo, anche il cane fece lo stesso. Ricominciò a ringhiare in modo più profondo e lanciando due potenti abbai, si diresse di corsa verso il buco nella rete.

«Cazzo!» disse Alberto, ancora dimentico dell'arma che impugnava.

Si girò e con uno scatto da centometrista si fiondò verso l'uscita e il furgone che attendeva. Non si voltò nemmeno una volta e quando fu vicino alla salvezza cominciò a sbraitare.

«APRITE LO SPORTELLO, PRESTO!»

Vide Denis scendere.

«NO! CAZZO FAI?»

Ma mentre si buttava dentro al mezzo, chiudendosi dentro, il russo si fece contro al cane con decisione, alzando un braccio.

«VIA DI QUA! VIA DI QUA!»

La bestia si fermò incerta.

«VIA HO DETTO!»

Denis mostrava di non avere paura e continuava ad andare verso il cane, che ora appariva meno minaccioso, finché non si voltò e scappò via, con lo sguardo che appariva deluso.


«Con animali ci vuole decisione. Come con persone, dopotutto. Devono sapere chi comanda!» disse Denis, dopo esser risalito e ripartito.

Alberto sorrise. «Beato te! Ci ho anche provato, ma nel mio caso mi sa che comandava lui!»

Stringeva il fucile tra le mani, il dito posato sul grilletto; ma pareva non rendersene conto.

Roberto impugnò la canna e glielo sfilò.

«Che c'è?» chiese Alberto, guardando stupefatto l'arma.

«Meglio se lo tengo io. Comunque, potevi sparargli.»

Alberto lo fissò stralunato, ancora in stato di shock. «Cazzo, hai ragione! Non ci ho pensato.»

«Hai trovato il telefono?» chiese Roberto, ma l'altro fece no con la testa.

«Mi sa che l'hanno preso loro, ma non ho voglia di tornare là e andare a esplorare una casa piena di cadaveri e animali impazziti!»

Guardò fuori dal finestrino, sentendo che stava piano, piano recuperando il controllo.

«Amen! Faremo senza. Tanto, una difficoltà in più... cosa vuoi che cambi?» aggiunse, sapendo che l'ironia era fuori luogo in quel momento.

«Dove è che devo andare, allora?» chiese Denis.

Roberto girò lo sguardo su Alberto che sollevò le sopracciglia. «Cazzo, ancora non li hai memorizzati quegl'indirizzi?»

«Non sono bravo in queste cose.»

«Via delle Olimpiadi 64 e via Gramsci 27» disse Alberto, con tono da cantilena. «Sai dove sono?»

Il ragazzo annuì. «Era più veloce andare da Via del Frullo, ma è strada da parte opposta; ormai siamo qui e non cambia molto. Cinque minuti e siamo a via Gramsci.»


Si fermarono davanti a un palazzo giallo, molto vecchio, in cui ognuno dei balconi era parzialmente crollato, in tutti e tre i piani dello stabile; c'erano grossi buchi al posto delle portefinestre e Roberto pensò fosse un miracolo che fosse ancora in piedi.

«Scendo io» disse Alberto. «Ma qui non abitano di certo.»

«Come fai a dirlo?» gli urlò dietro Roberto, mentre l'altro, già stava imboccando di corsa il piccolo viottolo all'interno del giardino condominiale dello stabile. Raggiunse le piccole scale che portavano al portone d'ingresso spalancato, e cominciò a scrutare i campanelli.

«Che pazienza che ci vuole con quel tipo!» disse Roberto, girandosi verso Denis e sorridendo.

«Però è simpatico tuo amico.»

Il ragazzo sorrideva a sua volta, e forse era la prima volta che Roberto non lo vedeva accigliato. Aveva il braccio penzolante fuori dal finestrino aperto, come se stesse aspettando i propri amici per partire verso il mare.

«E anche tu sei brava persona. Se non disturbo, sto volentieri con voi e vi aiuto in missione. Tanto io sono... GIU'!»

Roberto non capì subito, ma si sentì tirare in avanti mentre un colpo secco echeggiò nella via, rimbombando nel silenzio del paese. Qualcosa gli sfiorò i capelli e si ritrovò in un attimo sdraiato sui sedili; il fucile scivolò sotto i pedali e sentì un tonfo sordo davanti a lui, come se una grossa valigia fosse stata sbattuta a terra.

«SCAPPA, ROBY! NASCONDITI!»

Sentì la voce di Alberto gridare da qualche parte, ma in quel momento non capiva da dove arrivasse. Sollevò appena gli occhi, quel tanto per constatare che Denis non era più nell'abitacolo, nonostante lo sportello fosse ancora chiuso.

Un tremendo sospetto lo colse e, proprio mentre un secondo colpo veniva esploso, Roberto aveva già aperto la portiera del guidatore e si era lanciato fuori.


«L'hai mancato, cazzo!»

«Il russo l'ho preso in pieno! Era lui l'obiettivo numero uno. Passami il tuo fucile. Non può scappare, l'altro. Lo tengo sotto tiro.»

Gabriele ed Enrico erano appostati al finestrone del pianerottolo del terzo piano, dopo aver appurato che in quel palazzo, in effetti, abitavano Eleonora Cataldi e Rodolfo Dandolo.

Avevano lasciato la Panda bianca nella via accanto e avevano raggiunto l'obiettivo a piedi; attendevano da ore ormai e, appena il furgone rosso imboccò la strada, si chinarono per non essere visti. Le loro prede si fermarono proprio sotto di loro, dandogli una posizione di tiro perfetta.

«Dai, spara!» incitò Enrico, quando Alberto scese e corse verso l'ingresso.

«No! Ho una buona mira, ma non così buona da prendere un bersaglio in movimento. Se lo mancassi non avremmo più il fattore sorpresa. Prima gli altri due, per primo quello stronzo di un russo. Guardalo... È lì, fermo, quasi in posa. È mio!»

Mirò alla testa; Denis si girò verso di lui; si guardarono per una frazione di secondo e Gabriele premette il grilletto, certo che il russo l'avesse visto.

Lo vide abbassare di scatto la testa di Roberto, mentre il colpo partiva e lo colpiva in pieno. Il grosso proiettile lo centrò sul lato destro della fronte, portandogli via parte del cranio e scaraventandolo fuori dal furgone, attraverso il finestrino aperto.

Soddisfatto Gabriele riprese la mira, puntando alla testa dell'altro uomo, ma questi si mosse velocemente in avanti. Distratto dal movimento del suo bersaglio e da un grido proveniente dal basso, il braccio gli si mosse appena. Il proiettile rimbalzò sul bordo dello sportello del passeggero lasciando un grosso buco, e schizzò in alto.

«Non puoi scappare, bello!» disse compiaciuto, impugnando il secondo fucile e tenendo di mira tutta la zona intorno al furgone.

Enrico, rintronato dal fragore dei due spari, ancora più forti nell'eco rimbombante del pianerottolo, era accucciato contro il muro, tenendosi le mani sulle orecchie e preparandosi ai nuovi spari.

Gabriele mirava, osservava, sorrideva. Sparare l'aveva sempre fatto sentire onnipotente; poteva avere il controllo sulle vite degli altri, come stava succedendo in quel momento.

Quell'uomo era nascosto dietro al furgone e se si fosse mosso, l'avrebbe fatto secco. Non aveva fretta; aveva tutto il tempo del mondo. Prima o poi sarebbe uscito, prima o poi si sarebbe fatto vedere. E, nella sua onnipotenza, si dimenticò che l'uomo non era solo.


Alberto aveva appena letto i nomi di Eleonora e Rodolfo sul campanello e si era girato verso il furgone sorridente, pronto a ricevere le battute di scherno di Roberto sulla sua errata previsione.

In quel momento partì il primo sparo.

Il suono arrivò sia da sopra che da dietro, rimbombando nell'androne, conferendogli un effetto stereo che ne amplificò notevolmente la risonanza. Si chinò d'istinto e, in quei brevissimi istanti che intercorsero tra lo stupore e la consapevolezza, vide Denis volare fuori dal finestrino.

«SCAPPA, ROBY! NASCONDITI!» gridò, entrando dentro e sedendosi sul primo gradino.

Partì un secondo colpo e il fragore riecheggiò nella tromba delle scale. Alberto si coprì le orecchie con le mani.

Cosa stava succedendo? Chi è che sparava? Chiunque fosse era lassù, sopra di lui.

Gli era parso di sentire delle voci quando era giunto ai campanelli, ma non ci aveva fatto caso. A dire il vero, non gli erano sembrate nemmeno voci; forse nemmeno le aveva sentite. Era del tutto concentrato sul campanello, sulla missione, e aveva scordato la prudenza. Sembrava non esserci nessuno in giro, ma non era così. L'avevano imparato sulla loro pelle nelle ultime ventiquattro ore, sia lui che Roberto, ma la lezione, evidentemente, non era servita.

Si sporse un po' dalla porta; vedeva il furgone, ma a bordo sembrava non esserci nessuno. Il terrore gli serrò la gola, il terrore d'aver perso un altro scrigno ma, più di tutto, d'aver perso un amico.

Cosa poteva fare? Uscire e andare a controllare significava, senza ombra di dubbio, morire. Dall'alto non arrivava più alcun rumore, ma sapeva che il cecchino era là. Si era accorto di lui?

"Per forza! Mi ha visto scendere e arrivare fin qui. Perché non mi ha sparato, allora?" si chiese.

Decise di salire; restare fermi in quel punto non serviva a nulla. Qualcosa doveva fare.

Cominciò a fare i gradini in ginocchio, con lo sguardo fisso verso l'alto. Arrivò sul pianerottolo del primo piano e si fermò un secondo davanti alla grande vetrata che dava sul giardino. Da lì vedeva meglio il furgone, ma ancora non riusciva a scorgere né Roberto, né Denis, anche se, per quello che aveva visto, era quasi sicuro che il russo fosse morto.

Le porte dei due appartamenti ai suoi fianchi erano chiuse.

"Se il pistolero fosse dentro a una delle case?" si domandò, ma il suono udito era risultato essere troppo nitido, troppo vicino. Aveva sparato dalla finestra del pianerottolo, ne era sicuro. Di quale piano, però, ancora non lo sapeva.

Cercando di essere il più silenzioso possibile, strisciò sui primi cinque gradini, allungando il collo più che poteva, per vedere senza essere visto.

Nessuno.

Salì un altro gradino.

Nessuno.

Era quasi alla fine della rampa e da lì cominciava a intravedere la finestra. Il pianerottolo del secondo piano sembrava essere vuoto.

Più velocemente, ma sempre in assoluto silenzio lo raggiunse.

La porta dell'appartamento a destra era aperta; si appoggiò al muro e scrutò all'interno; la casa sembrava essere disabitata. Ragionò se fosse più prudente entrare e controllare, ma ormai non aveva dubbi sul fatto che lo stronzo si trovasse sopra la sua testa, col fucile puntato sul furgone, in attesa di vedere sbucare qualcuno o qualcosa. Avere ragione poteva significare che Roberto era ancora vivo; se aveva ragione poteva sorprenderlo alle spalle.

Incoraggiato riprese a strisciare sui gradini, lento, come se si muovesse al rallentatore. Sentì tirare tutti i tendini del collo e delle spalle da quanto si allungava, ma per riuscire a scorgere la finestra successiva aveva bisogno di salire ancora.

Raggiunse l'ultimo gradino della rampa da sdraiato; aggrappandosi alla balaustra si sollevò, cercando di convogliare tutta la forza nei due bicipiti, e cominciando a scorgere la parte superiore del finestrone. Stava rischiando tantissimo; se il cecchino, o chiunque fosse il misterioso pistolero, avesse deciso all'improvviso di abbandonare la propria posizione e di scendere in basso, si sarebbe trovato davanti un pirla steso sulle scale e centrarlo sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma ormai era lì; giusta o sbagliata fosse stata la sua decisione, era lì.

Si issò di un altro centimetro e cominciò a intravedere la testa di qualcuno; fece un ulteriore sforzo, in equilibrio precario, con le braccia che iniziavano a bruciare e a pulsare un dolore sottile ma, allo stesso tempo, cercando di restare nascosto dal pianerottolo. Ora poteva scorgere la cute riccia e bionda dell'uomo che aveva sparato, in piedi davanti alla finestra, col fucile puntato. Aveva qualcosa di famigliare e sentì il cuore aumentare i battiti; un presentimento si stava insinuando in lui. Diede un ultimo strappo in su, poi si lasciò ricadere sui gradini; aveva visto e aveva capito.

Il cecchino era un ragazzo ed era a torso nudo, riccio, biondo e l'aveva conosciuto il giorno prima.

Il problema più grande era un altro.

Con l'ultimo sforzo che aveva fatto aveva visto che non era solo: c'era anche Enrico, accovacciato contro il muro, sotto di lui. Gli era parso si tenesse la testa tra le mani; quindi, forse non l'aveva scorto, in quel brevissimo istante in cui era rimasto visibile. Denis li aveva avvertiti, in qualche modo: non aveva la certezza assoluta di avere sterminato tutti i Fratelli. Ora la certezza c'era: due erano sopravvissuti. La buona notizia era che non avevano perso uno scrigno, come credevano; ma, in quel momento, Alberto non riusciva a pensare alle buone notizie.

Doveva decidere cosa fare, anche se era abbastanza palese che non aveva molte alternative. Poteva tornare giù, e poi? Cos'avrebbe fatto? Uscire era uguale a morire e lasciare morire anche Roberto. L'unica era attaccare e sperare. Non aveva molto margine perché, fatto qualche altro passo in avanti, Enrico l'avrebbe visto. Doveva lanciarsi, essere veloce, cercare di non scivolare sui gradini, sperare che non fosse armato pure il ciccione...

Fece due profondi respiri, cercò di raccattare ogni briciolo di coraggio sparso per il corpo, si mise in posizione china, come fosse un corridore in attesa dello sparo alla partenza di una gara di velocità, e si lanciò, sentendo un improvviso calore spandersi per tutto il corpo.


Roberto ansimava con le lacrime agli occhi, stampato contro la fiancata del furgone, l'ultimo baluardo tra lui e la morte.

Non riusciva a staccare gli occhi da ciò che restava del cranio di Denis, steso sull'asfalto a meno di un metro da lui. Era terrorizzato, ma anche infuriato. Non riusciva ad accettare che tutte le difficoltà avute nell'ultimo giorno erano state procurate da uomini, da persone della sua stessa specie; non da sentinelle o da alieni, ma da gente come lui.

"Ismel ci sta sterminando e noi lo aiutiamo pure!" pensava. "Lo meritiamo! Sul serio!"

Era riuscito a portarsi dietro il fucile quando si era scapicollato giù dal furgone, ma a cosa gli sarebbe servito? Non sapeva né chi avesse sparato, né da dove; senza contare che lui non sapeva sparare. Come ne sarebbe uscito stavolta? L'unica speranza che aveva era Alberto, ma non poteva vederlo da quella posizione. Si era nascosto? Probabile. Se solo il fucile l'avesse avuto lui!

Per un fugace momento ebbe l'impulso di alzarsi all'improvviso, e sparare verso il palazzo a caso. Ma era la stessa cosa che pensare di suicidarsi. Aveva promesso ad Andrea che sarebbe stato prudente e che sarebbe tornato da lui, ma ogni minuto che passava si rendeva conto di quanto fosse difficile mantenere la parola data.

Si appiattì ancora di più contro la lamiera, stringendo l'arma al petto, e attese.


Alberto impiegò due secondi netti per fare l'ultima rampa di gradini e coprire i pochi metri di pianerottolo che lo separavano dalla finestra. Aveva deciso di puntare diretto al ragazzo armato e di spalle, quello che avrebbe senz'altro colto maggiormente di sorpresa, ricordando quanto Enrico fosse lento e impacciato, sotto ogni aspetto.

Tutto fu velocissimo.

Il ragazzone si accorse di Alberto quando già era sul pianerottolo; il rumore dei passi aveva allertato anche l'altro che si voltò, mentre il ciccione gridava «TU?»; ma l'uomo era già su di loro.

Prima che Enrico potesse anche solo pensare di fare qualsiasi cosa, Alberto urtò con la spalla Gabriele, imprimendo tutta la forza che poteva.

Il ragazzo lasciò cadere l'arma, si sbilanciò all'indietro mulinando con le braccia, cercando disperatamente qualcosa a cui aggrapparsi. Non trovò nulla e precipitò di sotto con un urlo strozzato che si smorzò all'istante, insieme al tonfo del suo corpo e allo schianto secco della sua schiena contro al muretto che delimitava il vialetto.

La strategia era stata perfetta dal momento che Enrico non si era mosso di un millimetro; anzi, quando vide Gabriele precipitare dalla finestra si accucciò ancora di più, piagnucolando come un moccioso.

Alberto raccolse il fucile caduto e lo puntò dritto alla testa del grasso ragazzo, mentre con un calcio, allontanava l'altra arma, posata sul pianerottolo. Sentiva la pelle in fiamme e, senza conoscerne il motivo preciso, era sicuro che in quel momento sarebbe stato capace di sprigionare l'energia dalle sue mani, proprio come aveva fatto la mattina prima.

«Non mi uccidere, ti prego! Non mi uccidere» farfugliò Enrico.

Grasso, sporco, mezzo nudo, il naso gocciolante di moccio; i rotoli di ciccia che debordavano ovunque; patetico e vigliacco. Alberto lo fissava nauseato.

«Fai schifo! Fai veramente schifo!»

Enrico cominciò a singhiozzare. «Ti prego...»

Fu allora che Alberto si rese conto d'aver infranto il giuramento che aveva fatto con sé stesso: aveva ucciso di nuovo. Stavolta per una buona causa, per legittima difesa, per salvare il mondo, e ancora poteva snocciolare giustificazioni all'infinito.

Ma aveva ucciso un ragazzo.

Anche se in maniera meno copiosa dello schifo che teneva sotto tiro, le lacrime scesero dai suoi occhi.

E, in un attimo, la sua pelle era tornata della solita temperatura.

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