41 - L'OFFERTA (1)
Clara saliva le scale con il cuore che batteva forte.
Provava un misto di gioia e impazienza per quello che a mezzanotte precisa sarebbe successo. Aveva riferito gli ordini del Capo ai suoi Fratelli, e loro, da fedeli e obbedienti discepoli quali erano, stavano preparando il palcoscenico per la prima, importantissima Offerta. Non vedeva l'ora.
Arrivata in cima si fermò un momento, per contenere l'agitazione che ogni volta l'assaliva, quando doveva vedere il Capo. Posò la grossa torcia a terra, sistemò i capelli con le mani, cercò inutilmente di sollevare un po' i grossi seni che le penzolavano sul petto e si raddrizzò le mutandine rosse che nella salita si erano infilate tra i glutei; mise la mano dietro al vaso posto nell'angolo del pianerottolo, e recuperò il mazzo di chiavi; aprì la porta e raccolse la torcia.
«Ciao.»
Nessuno rispose.
Richiuse l'uscio dietro di sé e contemplò la sala illuminata dal potente fascio di luce. Avanzò di qualche passo e posò la torcia sul mobile con specchio appoggiato al muro, in modo che illuminasse l'intera stanza.
Stette per qualche secondo immobile, immersa nell'assoluto silenzio che regnava intorno a lei, contemplando la sua immagine spettralmente pallida allo specchio. Poi si voltò e si avvicinò allo schienale del divano a due posti, davanti a lei.
Accarezzò le teste dei due bambini seduti, immobili a fissare il muro davanti a loro, e mentre affondava le dita nei loro capelli umidicci guardava sorridendo l'uomo, adagiato sull'altro divano alla sua destra, posizionato ad angolo retto con il primo. Era nudo dalla cintola in giù, aveva la testa rovesciata all'indietro e lo sguardo vitreo, perso nel vuoto.
«È tutto pronto, ormai» disse Clara, fendendo con la voce la coltre di silenzio incollata su tutto ciò che la casa conteneva. «I primi due Agnelli saranno presto epurati, proprio come mi hai detto di fare.»
Si portò davanti ai figli e li baciò entrambi sulla bocca semiaperta. Poi si voltò verso il marito, si sfilò le mutandine e si sedette accanto a lui. Prese una delle sue fredde mani e se la mise su un seno, facendola muovere con senso rotatorio.
«Ne abbiamo trovati altri tre. Uno è dei nostri, in tutto e per tutto. Posso chiedergli di fare qualsiasi cosa, basta mostrargli una tetta. Come dici, caro? No, non me lo sono ancora scopato. Lo farò dopo l'Offerta, proprio come vuoi tu.»
Gli salì a cavalcioni e gli infilò la lingua in bocca, cercando con avidità la sua che penzolava all'indietro, sul fondo del palato. Dopo circa un minuto si fermò e guardò il marito dritto negli occhi spalancati.
«Gli altri sono due Agnelli. Enrico, il ragazzo, mi ha detto che stanno cercando altre persone per formare una squadra e sconfiggere Ismel. Vanno fermati, per forza. Come dite?»
Si voltò verso i figli.
«Oh, certo. Sono già prenotati per la seconda Offerta, domani pomeriggio. Ismel sarà contento di questo e mi ricompenserà a dovere.»
Scivolò in giù, mettendosi in ginocchio davanti al marito. Prese il suo piccolo e flaccido pene in mano e lo mise in bocca, infilandosi le dita della mano libera in mezzo alle gambe.
Quando sentì di essere molto vicina all'orgasmo, si risedette veloce sul divano, sostituì la sua mano con quella del marito e concluse, in un gemito di piacere.
Roberto e Alberto erano immersi nel buio più totale. La sera era scesa definitivamente, Enrico si era portato via la lampada e con essa, l'unica fonte di luce che c'era.
Rimasero per qualche minuto in silenzio, aspettando entrambi che fosse l'altro a rompere il ghiaccio. In tutti e due i loro cuori regnava la stessa oscurità che avevano intorno, incapaci di vedere un lieto fine in quella situazione assurda, incastonata in un'altra ancora più assurda.
Alla fine, fu Roberto il primo a parlare. «Che ne pensi?»
La voce cavernosa arrivò all'improvviso e fece sussultare Alberto, immerso nei suoi pensieri al punto da essere molto vicino ad addormentarsi.
«Che siamo nella merda!» rispose d'istinto. «E non fino al collo... No! Siamo completamente immersi nella merda! Ecco quello che penso.»
«Questo lo sapevo anch'io. Intendo, cosa pensi di tutte le stronzate che ha detto.»
«Che sono stronzate, appunto. Credo che questo... Capo, sia il classico fanatico pezzo di merda, come ce ne sono già stati tanti nella storia, e che sfrutta la situazione a suo vantaggio. Quale sia lo scopo, non lo so e non so nemmeno immaginarmelo, ma capisco di come sia facile fare presa su persone disperate, se sei anche solo appena carismatico. Ecco! Sicuramente è un tizio carismatico e dalla parlantina facile. E con tanta fantasia anche. La storia del primo uomo entrato nella bolla e poi liberato, è una grossa cazzata! Siamo finiti in una merdosissima setta, né più, né meno. E non sai quanto sono incazzato! Il mondo è devastato da un alieno bastardo, e noi siamo qui, imprigionati e incatenati da gente della nostra stessa razza. Quanto aveva ragione Franco!»
«A che proposito?»
«Sul fatto che siamo solo degli schifosi egoisti di merda! Ognuno di noi pensa solo a sé stesso, ai propri interessi. Abbiamo fallito, Roby!»
«Non credo sia solo colpa nostra, dai. Ci hanno preso alle spalle e...»
«Mi riferisco all'umanità, non alla nostra missione. L'umanità ha fallito. Troppo individualismo, troppo egoismo. Abbiamo avuto una possibilità per migliorare, ma... come si fa?»
«Non ti seguo più.»
«Il potere donatoci dalla donna. Per duecento anni è rimasto intatto, passando di persona in persona. Sette scrigni ci sono stati prima di Nicolas. Sette! E nessuno di loro si è mai accorto di nulla. Sai perché? Perché viviamo le nostre vite talmente immersi in noi stessi, da riuscire a tacitare persino un potere del genere. Forse meritiamo di estinguerci, davvero.»
«Non mi avevi mai fatto questi discorsi...»
«Ti dico la verità, sono pensieri che mi sono venuti ora. Forse, solo adesso capisco sul serio quello che tentava di spiegarmi Franco. E comprendo pure come ha fatto Nicolas a guarire tutta quella gente. Cazzo! Lui è stato il primo e forse l'unico scrigno a meritare veramente il potere, perché era disposto ad aiutare le persone, talmente disponibile che ne è morto. Mi piacerebbe sapere com'era la sua vita, prima di diventare un guaritore.»
«Franco non ha detto che il potere si è rivelato grazie all'arrivo del servo?»
«Sì, l'ha detto. Ma ora credo sia stata solo un'incredibile coincidenza. Quel ragazzo era davvero speciale. Peccato che, senza saperlo, ci ha condannati.»
Roberto sospirò. «Intendi il fatto della divisione dell'energia?»
«Già. Ci sono voluti duecento anni perché finisse in uno scrigno adatto a contenerla. Figurati adesso che è diviso in nove...»
«E uno di questi è Enrico.»
«Appunto! Il problema più grosso è lui. Grosso in tutti i sensi!»
Roberto si mise a ridere e dopo un attimo anche Alberto lo seguì.
«Meglio se la prendiamo in ridere, davvero» aggiunse, sentendo le lacrime scivolare sulle guance. «Se anche riuscissimo a scappare da questi pazzi, portandocelo dietro...»
«Non verrà mai di sua volontà.»
«Dovremmo rapirlo, diciamo così. E costringerlo a fare qualsiasi cosa Franco ci chiederà di fare. Costrizione! Proprio l'esatto contrario di quello che serve per far funzionare la squadra.»
«Un bel casino!»
«Un enorme casino. Di fatto, siamo tornati a tre scrigni, sperando che Veronica in questo momento stia bene e sia già all'FDS, o almeno diretta là, senza nessun impedimento.»
«Lo spero di tutto cuore. Spero stiano tutti bene.»
In realtà, Roberto pensava soprattutto a suo figlio. Alberto aveva appena parlato di egoismo, individualismo e lui, con un gran tempismo, si preoccupava in primis di Andrea.
"E non dovrei? È il mio ragazzo e mi è rimasto solo lui!"
Stava sbagliando? Forse il segreto stava proprio lì. Ma non ci poteva fare nulla. Se gli avessero dato la possibilità di salvare solo un membro di tutto il gruppo dei "Ginepri", non avrebbe esitato nemmeno un secondo, e avrebbe scelto Andrea. Chi non l'avrebbe fatto? Chi non salverebbe il proprio figlio o figlia, o un genitore, o un fratello o una sorella, in un gruppo di conoscenti? E chi non salverebbe un amico, in un gruppo di sconosciuti? Gli pareva la cosa più normale del mondo.
"Forse è proprio per questo motivo che non riesco a usare il potere" concluse, avvilito.
«Sai che mentre andavamo alla chiesa, prima...» continuò Alberto, interrompendo i fugaci pensieri di Roberto, «in un momento di ottimismo improvviso, ho creduto che a quest'ora saremmo stati al sicuro in qualche casa, a passare la notte, insieme ai due sposini e all'altro scrigno di Casavecchio! Magari a fare piani su come poter raggiungere l'Isola d'Elba.»
«Casalecchio...»
«Sì, quello. Pensa che illuso!»
«Ottimista! Non illuso. Ci credevi sul serio, e forse è lo spirito giusto per ottenere dei risultati.»
Alberto ridacchiò. «E infatti... Guarda come siamo finiti!»
«Non ci pensare, adesso. Dobbiamo trovare un modo per liberarci e scappare da qui. Non so se ho voglia di vedere quell'Offerta di cui parlava il ciccione.»
«Temo che qualsiasi cosa vedremo, toccherà anche a noi.»
«Non riesci a sprigionare un po' di energia, come hai fatto stamattina?»
«Ho già provato, ma non riesco. Stamattina è stato improvviso, istintivo. In tutta sincerità, non so come ho fatto. E tu?»
«Mi sento freddo come un pezzo di ghiaccio. Dentro, intendo. Non ne sono capace, Alberto. Le uniche volte in cui ho sentito qualcosa, e per qualcosa intendo solo un po' di calore, sono state quando ho toccato te e Veronica.»
«Non hai stoppato le sentinelle due volte?»
«Sì, ma io non ho fatto nulla. È venuto tutto da solo, anzi, forse non è venuto niente. Forse è stata solo l'energia dentro a quei pupazzi di merda a contrapporsi con la mia. Mi dispiace.»
«E di cosa? Stai sereno, dai. Vedrai che prima o poi imparerai a usarla. Veronica ne è capace mi pare. Lei ci può insegnare.»
«Credi che la rivedremo? Domani potremmo essere morti...»
«Non dire così, Roby. Vedrai che qualcosa ci inventeremo.»
Roberto stavolta non rispose; abbassò il capo, sentendo un groppo formarsi in gola. Sapeva che non era l'atteggiamento giusto e in qualche modo gli pareva quasi di arrendersi, ma in quel momento non riusciva a intravedere nessun spiraglio di salvezza, né per loro, né, di fatto, per nessuno.
Era buffo notare come sembrassero spalleggiarsi il pessimismo: quando uno dei due pareva mollare, subito l'altro cercava di tirarlo su!
"Bisogna vedere se è una cosa buona, o siamo solo due stupidi che..."
«Ero in galera.»
Alberto ruppe il silenzio ricreatosi, e i pensieri che stavano navigando dentro a Roberto. Rifletté prima di decidersi a raccontare la sua storia all'amico, e anche quando si convinse che era il momento giusto, esitò ancora per qualche minuto.
Roberto sollevò la testa e la girò nella sua direzione. La luce della luna filtrava a fatica dall'entrata della stalla, ma il leggero chiarore che riusciva a fare capolino, bastava per mostrargli i contorni di Alberto, che pareva avere lo sguardo fisso davanti a sé.
«Fino a tre mesi fa, circa, ero in galera, condannato all'ergastolo» ripeté, girando la testa verso di lui.
«Mio Dio, Alby. Ergastolo! Cosa hai fatto?»
La voce di Alberto s'incrinò. «Ho stuprato e ucciso due donne, le ho messe in due sacchi neri e le ho gettate in un fosso.»
Quasi non respirò mentre sputava fuori la sua atroce verità, come avesse fretta di farlo. In effetti era così.
«Tornando ai discorsi di prima, forse sono io il primo che non merita nessuna salvezza. E se non vorrai più avermi tra i piedi, nel caso riuscissimo ad andarcene... lo capirò. Nemmeno io vorrei la mia compagnia!»
Roberto non rispose subito; doveva elaborare la notizia ricevuta. Dopo qualche secondo si schiarì la gola.
«Sono scioccato, Alberto. Avevo intuito che nel tuo passato c'era qualcosa di complicato, ma non avrei mai pensato a una cosa del genere. E, sono sincero, stento a credere che la persona che ho conosciuto, e che conosco, possa aver compiuto una cosa del genere.»
«A volte faccio fatica a crederci persino io. Forse è un meccanismo di difesa che abbiamo noi esseri umani: quando qualcosa ci turba, ci preoccupa o ci fa star male, tendiamo a distorcere la realtà, come se il fatto non fosse mai successo, come se fosse solo un sogno. Ma è successo, Roby. L'ho fatto sul serio e i miei sogni, in genere, sono incubi. Meritati, direi. Il senso di colpa che ho dentro mi divora, giorno dopo giorno. E non sono frasi di circostanza, te lo giuro.»
«Racconta.»
«Ero un'altra persona. Me l'hanno detto in diversi e riesco a capirlo anche da solo. Ero un solitario, arrogante; e bevevo, anche parecchio, in certe situazioni. Non m'importava di niente e di nessuno, tranne che di me stesso. Capiamoci, non ero mai stato un violento, né uno psicopatico. Non avevo mai picchiato nessuno prima di quella maledetta sera. Non so spiegarti cosa mi sia preso; ho riflettuto tanto sulla questione, veramente tanto, soprattutto nelle lunghe notti da ergastolano, ma non sono mai riuscito a darmi una spiegazione logica del perché mi sia partito il cervello in quel modo.»
Raccontò della festa, dell'incontro con le due donne e dell'approccio sessuale che stavano avendo, prima dei loro ripensamenti. Qui si fermò e per una trentina di secondi restò in silenzio. Roberto non intervenne, capendo che all'amico serviva un attimo di riflessione per decidere come procedere la narrazione.
«Eravamo nudi sul mio letto e ci stavamo palpeggiando per bene, se capisci cosa intendo. Poi, di punto in bianco, prima una, poi l'altra, si sono alzate, affermando che non si poteva fare. So che può sembrare ovvio sia stato questo il motivo che ha scatenato il raptus, ma ti assicuro che non è così. Su questo non ho dubbi. Ero stato con donne decisamente molto più belle di loro; tra l'altro, ricordo molto bene, una delle due aveva le gambe e le braccia non perfettamente depilate. E questa è una cosa che in una donna non mi è mai piaciuta. Volevo solo divertirmi un po', con le uniche femmine che ero riuscito a rimediare quella sera. È stato l'orgoglio, ferito dal fatto di essere stoppato da due donne che non mi piacevano granché? È stata la voglia di fare sesso estremo, magari quella sera più vivo in me che in altre occasioni? Forse anche a causa dell'alcool? Oppure solo mi è partito l'istinto omicida che tutti, credo, abbiamo sopito dentro di noi? La parte animale che prende il sopravvento su quella razionale. Non lo so, Roby. Non lo so, davvero. Le ho colpite, legate, stuprate e uccise; e, ti scongiuro, su questa parte non farmi raccontare altro.»
Roberto ascoltava in silenzio, fissando quel poco che la luce della luna gli permetteva di scorgere nel cortile fuori dalla stalla.
"Che sera buia, per essere una sera estiva e serena!" pensò, mentre la sua testa si riempiva del tremendo racconto di Alberto. Quelle rivelazioni lo stavano turbando più di quello che era già e, a tratti, aveva la sensazione che la voce dell'amico gli arrivasse ovattata, come se le sue orecchie stessero provando disperatamente a tapparsi, per smettere di ascoltare quelle atrocità. Ma la storia procedeva imperterrita.
Alberto venne scoperto e arrestato a causa dello sperma che aveva lasciato dentro di loro; si beccò due ergastoli da scontare nel carcere di Nuoro, dove rimase, però, solo un anno e mezzo.
«Non era una galera quella. Avevo perso la libertà, ma vivevo, in pratica, la stessa vita che facevo fuori. Mangiavo, dormivo, cazzeggiavo. Ci stavo bene e la punta di rimorso che mi era venuta al momento della condanna... sparita! Manco ci pensavo più.»
Arrivato alla parte della storia che riguardava l'abbazia, com'era ovvio, il viso di Francesca si stampò nella sua mente. Rifletté se fosse un bene parlarne, pensando agli enormi sforzi fatti dalla sua ragazza per mantenere segreto il lavoro della vita di sua mamma e della sua. Ma ormai, l'abbazia non esisteva più.
«Poi, d'improvviso, fui trasferito» aggiunse. «Mi ritrovai in un altro mondo e l'impatto fu agghiacciante.»
Mentre Alberto raccontava, Roberto, per la seconda volta in pochi minuti, rimase senza parole per quello che stava udendo. Cercò di non interrompere l'amico, tenendo le domande che gli nascevano nella testa a grappoli, per quando avesse concluso; ma, a un certo punto, non resisté più.
«Aspetta, aspetta! Mi stai dicendo che esiste, anzi esisteva un'istituzione che prelevava di nascosto i delinquenti condannati all'ergastolo, quelli più efferati, dalle varie prigioni, e li massacrava di lavoro fino alla morte?»
«Esatto! Anche se il più delle volte la morte sopraggiungeva per le bastonate che si riceveva quando sgarravi. E per sgarrare intendo anche solo il semplice parlare.»
«Verrebbe da dire che era tutta gente che se l'era meritato, comunque.»
Roberto si rese subito conto che, nella "gente" appena nominata, c'era pure Alberto.
«Scusa...»
«No, no. Hai ragione. C'è poco da dire. E lo pensavo anch'io. Continuavo a ripetermi che me l'ero meritato. Ma ti assicuro che, quando senti il rumore del bastone che picchia, anzi, maciulla la carne umana, poco importa se quella carne è quella di un assassino. E le urla, le implorazioni... Aveva ucciso due bambine, quel tizio! Puoi pensare qualcosa di più atroce che ammazzare due bambine innocenti? Eppure, i versi che faceva mentre veniva ridotto a carne tritata, non li scorderò mai più. Ho provato pietà per lui.»
«Alberto...»
«Lo so! Giuro che so cosa vuoi dirmi. Se l'è meritato. Chi commette certi crimini merita solo sofferenza. Ma tu non eri là, io sì. Se fosse stata la mamma o il papà o anche solo un amico di quelle due povere creature a tenere in mano il bastone, beh... sarebbe stato diverso.»
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che era Pietro Masi a picchiarlo! Solo questo.»
«E chi è Pietro Masi?»
Roberto intravide Alberto abbassare la testa.
«L'aguzzino più spietato, più crudele che tu possa immaginare. Un sadico che non dispensava giustizia, ma soddisfaceva solamente le proprie turbe mentali. Franco e Monica han detto che ha un passato terribile, ma non mi hanno mai raccontato cosa ha combinato. Per fortuna non può darci più fastidio, ormai.»
«È morto?»
«Già. Francesca l'ha rinchiuso nelle segrete dell'abbazia, insieme a un altro di cui non sentiremo la mancanza. Presumo siano morti là.»
«Aspetta, Alby. Non ci capisco più nulla. La tua Francesca? Che c'entra lei con tutta questa storia?»
Gli parve di vederlo sorridere nel buio.
In realtà Alberto si stava mordendo le labbra. L'intenzione iniziale era di non nominare la sua ragazza, non accostare il suo nome a quelle atrocità, anche se ne faceva parte. E, magari, completare la storia in un periodo successivo. Ma, ormai, si era tradito.
«La mia Francesca era la direttrice dell'abbazia.»
E, con il minor numero di parole possibile, raccontò di come erano diventati prima amanti, poi qualcosa di più, di come era fuggito grazie all'aiuto della guardia Fabio Santini, di NC360 e di come era arrivato all'FDS.
«Da qui in poi, la storia la conosci già.»
«Assurdo! E come faceva a tener segreta una roba del genere? M'immagino le reazioni del Vaticano o della stampa, se tutto quanto fosse venuto a galla!»
«Mazzette! Ecco come faceva!»
«E i fondi?»
«Francesca è ricca di famiglia, ma chiedeva contributi ai famigliari delle vittime dei suoi ospiti. A quelli che potevano permetterselo, almeno. A quanto pare, l'idea di un posto che facesse scontare sul serio le pene detentive ai carnefici, piaceva molto.»
«Ci credo bene! Ma non temeva che allargando il ventaglio di persone a conoscenza dell'abbazia, la cosa venisse a galla?»
«Non so che dirti, Roby! Se avessero parlato, il castello sarebbe crollato e i detenuti sarebbero tornati a scontare la pena in maniera molto meno dura. Probabilmente, Francesca spingeva molto su questo tasto, e tanto bastava a farli tacere.»
«Capisco. E quindi N3... no NC... insomma, l'altro con cui sei fuggito, era il tizio da cui hai ereditato l'energia?»
Alberto sentì crescere un peso sullo stomaco pensando al suo amico, a come era morto, ma ancor di più ricordando le parole di Dalila su di lui. Ancora una volta gli si ripresentò il dilemma se fosse giusto provare pietà per qualcuno che aveva commesso tali atrocità. Ma lui aveva conosciuto un uomo pentito, che accettava le fatiche impostegli senza batter ciglio, sperando un giorno di poter rivedere la figlia, anche solo per un'ultima volta, sapendo che era un desiderio irrealizzabile. L'occasione si era presentata, anche se a margine di un progetto molto, molto più grande che non aveva fatto in tempo a conoscere; ma si era spezzata tra le fauci di un orso. Come non poteva provare pietà per quest'uomo, a cui di fatto, doveva la libertà?
«Sì, era lui» rispose, infine.
«E cosa aveva fatto per finire lì dentro?»
«Sicuro di volerlo sapere?»
Roberto esitò un attimo. Non si aspettava questa domanda. Ma la curiosità era troppo forte.
«Sì, lo voglio sapere.»
«Ha ucciso delle persone in una chiesa, e tra queste c'erano il marito e la figlia di Dalila.»
«Cristo Santo!» sospirò Roberto. «Allora mi ricordo di lui! Forse, preferivo non saperlo.»
«Mi spiace, Roby. Mi dispiace averti fatto scoprire queste cose e mi dispiace che tu sia costretto probabilmente a morire insieme a uno come me.»
«Ehi, ehi! Noi non moriremo! Vedrai che ce la caveremo.»
Alberto non rispose.
«È vero, le cose che mi hai raccontato sono terribili. Il tuo passato è terribile. Se poi penso a Dalila... Ricordo bene la tragedia che la colpì. Son passati cinque anni, mi pare. Ozzano divenne famosa in tutta Italia. C'erano giornalisti, le televisioni... Divenne un caso mediatico, tipo Cogne. Sai certa gente come sguazza quando succedono questi fattacci. Per fortuna il tuo "amico" fu arrestato quasi subito, e la faccenda si sgonfiò in fretta. L'unica cosa che rimase, fu il dolore di Dalila. Poveretta.»
Alberto notò il tono in cui Roberto aveva pronunciato "amico", ma non disse niente. Per lui, e per tutti, NC360 era solo un mostro colpevole di un terribile omicidio, condannato giustamente all'ergastolo. Non poteva certo biasimarlo.
«Sai, quando hai raccontato la tua storia, su ai "Ginepri",» continuò Roberto, «dicesti che il Vaticano aveva insabbiato tutta la storia di Nicolas... Ho pensato che era senz'altro vero, ma credevo stessi comunque un po' esagerando. Ora mi rendo conto, invece, che... Cazzo! È proprio vero. Il bastardo era uno dei guariti di Nicolas ma, quando fu arrestato, nessuno l'hai mai detto. Nessuno lo associò alla storia del guaritore. Quando succedono queste cose, scavano a fondo nella vita dei diretti interessati... Possibile che nessuno se lo ricordasse?»
«Tu te lo ricordavi?» chiese Alberto, infastidito per come l'amico aveva apostrofato NC360. «Intendo, quando l'hanno arrestato, hai associato il suo nome agli eventi del guaritore?»
«In effetti, no. In effetti, mi è tornata in mente quella storia solo quando ne abbiamo parlato l'altro giorno.»
«Vedi? Quando vogliono far dimenticare qualcosa o qualcuno, ci riescono benissimo. Immagino non ti ricordi nemmeno come si chiamasse... l'assassino, vero?»
Non riuscì a pronunciare il nome del suo amico (almeno quello che conosceva lui). Si odiò per questo.
Roberto girò la testa verso di lui. Gli occhi ormai si erano abituati all'oscurità appena rischiarata, e riusciva a distinguere bene i contorni del compagno
«Mi dispiace. Non lo ricordo.»
«Non l'avrei comunque voluto sapere. Aveva scelto di non usarlo più, per chiudere in qualche modo con il suo tremendo passato. So che non sei d'accordo, ma io lo rispetto per questo. Era pentito, te lo assicuro. Si è spaccato la schiena per cinque anni, nel vero senso della parola. Aveva perso moglie e figlia... Per colpa sua, certo, e non come li ha persi Dalila, ma soffriva terribilmente, in silenzio. Ed è morto dilaniato da un orso. Credo abbia pagato il suo debito e, ovunque sia, spero sia in pace.»
Disse tutto quasi senza prendere fiato, tenendo un tono deciso, convinto di quello che diceva e di quello che pensava, e voleva che Roberto lo sapesse. Se lui non condivideva... era un suo problema!
Tutto d'un tratto, sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
«Dici sul serio?»
La prima reazione di Roberto fu incredulità. Poi cominciò a salire la rabbia. E, nello stesso momento, sentì i singhiozzi sommessi di Alberto. Per qualche secondo rimase come in sospeso, incapace di decidere cosa provare.
«Io devo credere che da qualche parte si può ottenere il perdono! Devo credere che un giorno potrò smettere di torturarmi per le mie colpe! Avrei voluto tanto incontrare i mariti delle due donne, sai? So che non succederà mai, perché saranno morti ormai. E se fosse successo, immagino mi avrebbero massacrato di botte. E io li avrei lasciati fare. Ma, a prescindere da tutto, avrei voluto fargli capire quanto sono pentito di quello che ho fatto, quanto mi vergognassi d'aver riso loro in faccia durante il processo, quanto sono consapevole del tipo di uomo che ero e che continuavo a essere ai loro occhi...»
Non riuscì a continuare. Il pianto esplose come mai gli era successo, disperato e liberatorio allo stesso tempo, e lui lo lasciò fluire.
Roberto non riusciva a condividere tutto quello che aveva detto il compagno, e non tollerava di poter provare pietà per gente che avesse commesso simili efferatezze. Era sempre stato estremamente favorevole alla pena di morte e alla legge dell'"occhio per occhio".
Ma, in quel momento, sentiva il suo amico piangere come un bambino e, per quanto ci provasse, non riusciva a immaginarselo mentre uccideva due donne, nel modo barbaro appena descritto. Nella sua mente c'era solo l'Alberto che aveva conosciuto il giorno prima, quello che aveva ballato in maniera goffa con Laura, facendo ridere tutti, quello che si era emozionato quando aveva scoperto che lui e Veronica erano scrigni, quello che parlava della sua Francesca con occhi sognanti, quello con cui scherzava e rideva, ma anche quello che l'aveva sgridato quando si stava lasciando andare al pessimismo. Soprattutto, quello che gli aveva salvato la vita. Lui aveva conosciuto quella versione di Alberto, non quell'altra, e cominciò a comprendere un po' le cose che diceva.
«Quel che hai fatto, ormai è fatto. E visto quello che sta succedendo al mondo, non ha più tanta importanza» gli disse. «Stiamo tutti vivendo una nuova vita, e io sono contento che tu sia nella mia. Mi trovo bene con te e ti considero un mio amico. Forse hai ragione... Forse moriremo stanotte, o domani... chi lo sa! Ma se succederà, sarà con una persona che stimo, a prescindere da tutto, Alby. E, chissà... magari mi ricongiungerò con la mia Lina. Mi dispiace solo per mio figlio. Spero se la cavi.»
I singhiozzi si attenuarono e Roberto lo sentì tirare su col naso e sospirare.
«Grazie, Roby. Sei una persona speciale, e ti considero un amico anch'io. Da quando sono evaso ho incontrato solo persone eccezionali: tu, Franco, Monica, il gruppo dei "Ginepri". Francesca. Se vi avessi conosciuto prima... Sarebbe stato tutto diverso.»
«A tutti piacerebbe poter tornare indietro e migliorare alcuni aspetti della propria vita, ma credo sia più utile concentrarsi sul presente e sforzarsi di fare bene quello che puoi fare adesso. Non puoi far tornare in vita quelle due donne, ma puoi impegnarti per tentare di salvare il mondo. Ed è quello che stai facendo e hai fatto in questi giorni. Anch'io ho ucciso, lo sai già. Il mio caso è diverso dal tuo, ma ti assicuro che il viso di quel ragazzo mi ha tormentato per tante notti, in cui sarei voluto tornare indietro e magari provare a disarmarlo in un altro modo. Ma è andata così e mi sono ritrovato un potere dentro di me, con il quale posso provare a fare cose buone. Capisci quello che ti sto dicendo?»
Roberto non lo vide annuire, ma sapeva che aveva capito.
Tacquero per un po', poi Roberto riparlò. «Non ti ho mai chiesto di dove sei.»
«Abitavo a Milano quando ero... l'altro! Ma sono nato a Noci, in provincia di Bari. Ho vissuto là fino a quattro anni, poi i miei sono morti in un incidente d'auto. L'unico parente che avevo era mia zia Ambra, sorella di mio babbo, che abitava con suo marito a Milano. Mi hanno preso con loro e mi hanno cresciuto. Male, direi. Ci odiavamo e già a undici anni ero una scapestrato. Finito il liceo me ne sono andato a vivere da solo e non ci siamo più sentiti. Ho saputo che lui è morto circa sette, otto anni fa. Di mia zia, invece, non ho più saputo nulla.»
«Cavoli, Alby! Mi dispiace. Hai avuto un'infanzia difficile. Rimanere orfano a quattro anni...»
«È brutto, sì. Ma sarebbe stato peggio se fosse successo più avanti. Almeno avevo un'età in cui ancora il mondo sembra il paese delle favole. Ho solo pochi e confusi ricordi su di loro.»
Il silenzio ripiombò nella stalla. Un silenzio carico d'imbarazzo, quello denso, soffocante, di quando si pensa con tutte le forze a qualcosa di cui conversare, senza trovare nulla di decente. Roberto avrebbe voluto dire qualche altra parola di conforto, ma aveva la mente bloccata, le braccia intorpidite e si accorse ben presto di essere stanco. Alberto non aveva più voglia di parlare e anche lui sentiva le palpebre molto pesanti. Era stata per entrambi una lunghissima, faticosa, terribile giornata, purtroppo finita male.
Roberto sollevò all'improvviso la testa. «Io scrivo storie.»
Il silenzio perdurò per qualche secondo poi Alberto cominciò a ridere. «Mi fa piacere, ma cosa c'entra con tutto il resto?»
«Niente. Era solo per continuare la conversazione. E per alleggerirla un po'.»
Anche lui rideva. Una risata sincera, anche se amara.
«Me ne racconti una?»
«Oh, no! Adesso proprio no, ma ti giuro che se ne usciamo vivi, lo farò.»
«Spero di sopravvivere solo per questo!»
Pian piano l'ilarità si spense e nel giro di dieci minuti, tutti e due dormivano profondamente.
Il sonno pesante di Roberto sfumò come una densa nuvola nera di fumo, spazzata via dal vento.
Galleggiando in un sottile dormiveglia, percepiva una luce davanti a sé e voci ovattate che sembravano uscire da bocche lontanissime. C'era qualcosa che gli solleticava il naso, ma non riusciva ad aprire del tutto gli occhi, appesantiti da una stanchezza talmente profonda, che sembrava immune a ogni riposo.
Quando finalmente vi riuscì, con uno sforzo immane, vide Giancarlo, in ginocchio davanti a lui. Aveva in mano un grosso pezzo di salsiccia e la teneva ferma proprio sotto il suo naso. Puzzava di cane bagnato ed era nera, striata in alcuni punti da un bruttissimo verde spento.
«Annusa, Roby, dimmi come ti sembra. Volevo fare un'altra SCP, stasera. Che ne dici?»
Roberto cercava di tirare indietro la testa appoggiata al muro e arricciava il naso per il disgusto.
«Puzza! Che schifo, Giancarlo!»
Ma il vecchio gliela stampò contro le labbra e grugnì.
«Chi cazzo è Giancarlo?»
Roberto sentì un sapore dolciastro sulla lingua e risate tutt'intorno. Aprì gli occhi, stavolta sul serio, e il tanfo che credeva d'avere sognato, gli entrò nelle narici.
Enrico era davanti a lui, completamente nudo, e con un piede gli lisciava la faccia. Aveva la mano destra fasciata, conseguenza del pugno che aveva dato in faccia ad Alberto. Rideva, ma pareva la risata di qualcuno che aveva perso contatto con la realtà.
«Vuoi piluccarmi anche le altre dita, o ti è bastato l'alluce?»
Roberto si ritrasse, per quel che poteva, girando la testa su un lato. Alberto era ancora addormentato e una ragazzina, bionda, sporca e nuda anch'essa, era in piedi davanti a lui.
«Lei è Caterina e adesso sveglierà il nostro amico» disse Enrico che, ancora sghignazzando, aveva tirato giù il piede.
La ragazza, a gambe larghe, si posizionò col bacino proprio sopra la faccia di Alberto, piegò leggermente le ginocchia e tenendo aperta la vagina con le dita, urinò su di lui.
«Ma che fai?» tentò di dire Roberto, ma Enrico si chinò in tutta fretta, tappandogli la bocca con il palmo. Puzzava come mai aveva sentito qualcuno puzzare e sentì un conato salirgli dallo stomaco.
«Taci! Non devi parlare!»
Alberto cominciò a scuotere la testa a destra e sinistra mentre il getto dorato sprizzava sul suo volto.
Tossì e aprì gli occhi. «Ma che...»
Caterina cominciò a ridacchiare. «Avevi sete, bello?»
«Ora basta!»
Una terza persona entrò in campo, un ragazzo riccio e biondo, nudo come i suoi compari. Aveva in mano un fucile.
«Direi che sono svegli. Preparateli. Io li tengo sotto tiro.»
«Capito, uomo dotato di poteri magici?» sibilò Enrico, proprio davanti alla faccia di Roberto. «Se fate anche solo una mossa falsa, vi impalliniamo!»
Il tanfo dell'alito era insopportabile, come quello di tutto il resto. Di nuovo, qualcosa si mosse nello stomaco di Roberto.
Enrico e Caterina aprirono i ganci che tenevano fisse le catene, e i due uomini poterono finalmente abbassare le braccia, operazione che risultò alquanto complicata. I muscoli erano indolenziti, così come il collo e la schiena. Alberto sentì riacutizzarsi il vecchio dolore che aveva sofferto all'FDS, mentre si lisciava lo zigomo dolorante, nel punto in cui Enrico l'aveva colpito.
«In piedi, veloce.»
Roberto non staccava gli occhi dal fucile puntato ora su di lui, ora su Alberto, cercando disperatamente di farsi venire una qualsiasi idea, cosa che apparve subito come molto remota; se poteva esserci l'occasione di fuggire, non era in quel momento. Erano costretti a ubbidire, e lo sguardo di Alberto suggeriva che anche l'amico la pensava in quel modo.
«Spogliatevi!» disse Caterina.
I due uomini si fissarono per un secondo.
«E per quale motivo?» si arrischiò a dire Roberto.
Il biondino avanzò e usando il fucile come bastone lo colpì sul fianco del ginocchio sinistro. Roberto mugolò e si accasciò di nuovo.
Enrico sorrideva compiaciuto. «Cosa ti avevo detto sul fatto del parlare?»
Il cuore di Alberto sprofondò. Il dejà vu lo tramortì come un'onda su un castello di sabbia, e l'odiata immagine di Masi fece capolino nella sua mente.
«In piedi e nudi! Vi do un minuto» disse il biondino, puntando il fucile alla tempia di Roberto.
Obbedirono, e una volta levati tutti i vestiti, Caterina recuperò due paia di manette dalla mensola a fianco della porta, e li legò, con le mani dietro la schiena. Enrico li dispose uno a fianco dell'altro.
«Gabriele...» disse, rivolgendosi al biondo.
Questi avanzò, fermandosi davanti ai due uomini, quasi increduli di quello che stava succedendo.
«Per nessun motivo, e per nessuno intendo nessuno, dovete parlare durante l'Offerta» disse. «Il Capo pretende un pubblico nudo e silenzioso, ed è quello che avrà. Sono stato chiaro? Disobbedite una volta, e avete già visto cose succede. Disobbedite una seconda e vi pianto una fucilata nel ginocchio. Non credo che serva dirvi cosa potrebbe accadervi alla terza...»
«Coraggio, bei fusti.» Caterina prese la lampada dalla mensola e la spense.
«Camminare!»
Eseguendo i tre pazzi, Roberto e Alberto uscirono nel cortile, illuminato dalla luna alta nel cielo.
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