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33 - SHOPVILLE GRAN RENO (2)

L'Audi A4 della famiglia Gallo sfrecciava nell'oscurità, con l'obiettivo impellente di trovare Franco de Simone e (speravano) un bel po' di risposte esaurienti ma, soprattutto, desiderosi di mettere più strada possibile, nel minor tempo possibile, tra loro e il ricordo di quella angosciante nottata.

Antonio si era addormentato cinque minuti dopo aver lasciato il parcheggio del Gran Reno; Silvia l'aveva imitato quasi subito. Salita in macchina aveva consegnato al marito la cartina che, effettivamente, era riuscita a trovare appena entrata dentro alla Feltrinelli, e che si era infilata nella tasca posteriore dei pantaloni.

«Sei una grande!» le aveva detto Alessandro con un sorriso stanco, riponendola nel vano portaoggetti.

«Per il momento non ci serve. Allontaniamoci da qui.»

Non avevano parlato, nemmeno dopo che il loro eroico e prodigioso ragazzo si era addormentato. Sapevano entrambi molto bene che nessuno dei due poteva chiarire i dubbi dell'altro, e inoltre l'adrenalina era scesa come l'acqua in una vasca a cui è stato tolto il tappo e la stanchezza, subentrata alla miriade di emozioni provate in quell'assurda notte, stava nettamente vincendo su tutto.

Silvia sbocconcellò il panino rimasto, guardando la strada davanti a loro con gli occhi spenti, addormentandosi con il cartoccino in mano. Alessandro, conscio d'avere pure lui assoluto bisogno di riposo, si sforzò di restare sveglio il tempo necessario per divorare il Crispy e le crocchette di pollo, per scolarsi un'altra birra e smarcare più chilometri possibile.

Aveva riflettuto sulla strada da percorrere, almeno per indirizzare il muso dell'Audi in direzione Trentino, e aveva deciso di non percorrere tangenziali e autostrade, senza ricordare il perché di questa decisione; al momento, le sue facoltà mentali lavoravano solo per farlo guidare e per far sì non si addormentasse. Resse per circa venti chilometri, rischiando una, forse due volte di assopirsi.

Nei pressi di Sala Bolognese parcheggiò l'auto all'interno di un piccolo sentiero sterrato, sulla provinciale che stavano percorrendo; gli parve di intravedere, illuminato dai fari, un cartello di divieto d'accesso, ma non se ne curò. In lontananza, in mezzo a uno dei tanti campi agricoli che li scortavano, risplendeva nella notte il bagliore di una bolla.

Alessandro spense il motore e reclinò un po' all'indietro lo schienale. Accese lo schermo del telefono: erano quasi le quattro di mattina e la batteria era al 12%, prossima a esaurirsi del tutto. Ormai il cellulare serviva solo come orologio, quindi non se ne crucciò più di tanto.

Diede un'occhiata a sua moglie e a suo figlio, immobili sempre nella stessa posizione.

Sorrise, chiuse i due finestrini, posò la testa e si addormentò all'istante.


La mattinata di domenica giunse con un cielo velato di nubi grigie e una tenue promessa di pioggia che, con ogni probabilità, non sarebbe stata mantenuta; allentò però un pochino l'opprimente stretta della calura, persino nella campagna emiliana dove l'umidità in genere era piuttosto cattiva, grazie a una piacevole brezza di aria fresca di cui pochi, molto pochi, poterono godere.

I tre passeggeri dell'Audi A4 dormivano ancora della grossa, quando la luce del sole, sebbene opaca e offuscata, cominciò a rischiarare il cielo. La temperatura interna dell'abitacolo si era rinfrescata durante la notte, grazie al venticello entrato dai finestrini abbassati; ma, una volta chiusi, l'aria intorno a loro, sigillata, aveva piano, piano cominciato a riscaldarsi, e l'umidità prodotta dai loro respiri, dal loro sudore, si era addensata.

L'arrivo del giorno diede la botta finale e quando alle nove Silvia aprì gli occhi di scatto, si ritrovò fradicia, con perline di sudore che si rincorrevano sulla fronte, la maglietta bianca talmente appiccicata alla pelle da distinguere, sotto la stoffa, senza bisogno di alcuna immaginazione, le aureole dei capezzoli.

Per un breve istante rimase ferma a fissare la patina perlacea che aveva davanti agli occhi, chiedendosi cosa fosse, e dove si trovasse, e perché facesse così fatica a respirare. Poi ricordò, realizzò, si tirò su; le girava un po' la testa. Il caldo era asfissiante, mentre sui vetri appannati, minuscole goccioline facevano a gara per arrivare in basso, lasciandosi dietro sottili scie che parevano sentieri nascosti nella nebbia.

«Ale! Ale! Antonio!»

Cominciò a scrollare i suoi due uomini, pure loro zuppi, e aprì la portiera, catapultandosi fuori. Fu investita dalla brezza fresca creatasi e un'ondata di brividi la travolse, facendole accapponare tutta la pelle bagnata e inturgidendole i capezzoli che divennero, se mai fosse possibile, ancora più evidenti. Spalancò in tutta fretta gli altri tre sportelli, e l'aria ricominciò a circolare.

«Sveglia! Ehi, su!»

Per un attimo, solo per un terribile e interminabile attimo, temette fossero morti, cotti a puntino nel forno che era diventata l'auto, mentre loro, stupidi, dormivano beati. Ma l'interno dell'abitacolo non era ancora diventato così insopportabile, tanto da uccidere qualcuno. E mentre lo pensava, sia Alessandro, sia Antonio, si svegliarono.

«Madonna, che caldo!» disse il marito, lisciandosi con la mano il coppino bagnato. «Ma che ore sono?»

«Le nove! Tato, stai bene?»

Antonio era subito sceso e stava con la faccia un po' sollevata, per raccogliere più arietta fresca possibile.

«Cccaaa... caaaldo!»

Silvia estrasse una bottiglia d'acqua dal nylon della cassa e bevve una lunga sorsata.

«Bleah! È bollente! Almeno recuperiamo un po' di liquidi. Su! Bevete anche voi.»

Alessandro e Antonio ubbidirono, mentre lei apriva il baule, recuperando da uno dei borsoni tre magliette pulite. Lanciò quella più grande al marito.

«Asciugati con quella che hai addosso. Speriamo di riuscire a fare una doccia molto presto. Tato, vieni qui.»

Tolse la maglietta al figlio, gli versò sulla testa un po' dell'acqua della bottiglia e, mentre lui rideva contento, lo asciugò, rivestendolo con l'indumento pulito. Fece poi lo stesso su sé stessa.

«Ehi! Mostriamo le tette così liberamente, all'aria aperta?» gli sussurrò Alessandro sorridendo, accarezzandola mentre Antonio fissava la campagna.

Lei ricambiò facendogli l'occhiolino, poi si rivestì. «Dove siamo? Direi non in Trentino...»

«Pensavi guidassi tutta notte? Ero morto, stanotte! Ho tenuto botta finché ho potuto, finché riuscivo a tenere gli occhi aperti... Ho retto venti chilometri! Non di più! Siamo a Sala Bolognese.»

«Sala... Bolognese? Ma che strada stiamo facendo?» Lei lo guardò sgranando gli occhi.

«Ho voluto evitare autostrade e tangenziali.»

Ricordava, ora, anche il perché.

«Ho pensato che se gli uomini viola son arrivati anche là, potrebbe esserci il rischio di trovare sbarramenti di auto abbandonate.»

«Non corriamo lo stesso rischio anche su queste strade?»

«Meno, secondo me. E qui possiamo aggirarli con più facilità. In autostrada invece, dovremmo tornare indietro di chilometri.»

«Quindi che strada stiamo facendo?»

«La provinciale fino a Ferrara, poi strade statali e regionali che passano da Padova, Castelfranco e su, fino al Trentino. Sono più chilometri e più ore che con l'autostrada, ma ho deciso fosse meglio così.»

Silvia annuì. Diede un'occhiata ad Antonio, chinato sul ciglio della strada a giocare con dei sassi.

«Sai dove andare? Anche in caso di deviazioni, intendo. Non abbiamo navigatori a disposizione... Non è che ci perdiamo, vero?»

«Un po' di fiducia, suvvia!»

Le stampò un sonoro bacio sulle labbra.

«Devo solo vedere dove si trovano quei sentieri di cui ti parlavo perché, se dobbiamo arrivare in Trentino, almeno è meglio sapere esattamente dove.»

Sorrise, e di nuovo sporse in fuori le labbra, assumendo quell'espressione che sembrava essere rimasta dormiente sotto la sua faccia attuale.

Silvia non disse nulla e lo fissò mentre lui si chinava dentro la macchina e recuperava la cartina conquistata con grande fatica e grandissimi rischi. La dispiegò sul tetto dell'Audi e cominciò a consultarla, muovendo le labbra in silenzio, mentre ragionava.

«Che fai, tato?»

Silvia si era avvicinata al figlio, lasciando Alessandro un momento solo con le sue ricerche.

«La ggg... gueee... eerra ddei ssaaa... aaasssi!»

«La guerra dei sassi? Carino!»

Rimaneva sempre affascinata dai mondi che suo figlio creava, dalle storie nelle quali s'immergeva, come solo lui sapeva fare e dove lei, talvolta, lo accompagnava quando giocavano insieme. Ormai, tutta la tristezza provata dopo l'ecografia che aveva rivelato la condizione del feto dentro di lei, tutta la disperazione che l'aveva tormentata i primi tempi, all'idea delle difficoltà che avrebbero dovuto affrontare, lui per primo, tutte le fatiche sopportate, i tormenti, le lacrime versate, i rimpianti per ciò che poteva essere e non era stato, tutto si era condensato in una piccolissima sfera di silenziosa malinconia, accantonata in un angolo del suo cuore e che, con sempre meno frequenza, riusciva a far sentire la sua fioca voce. Il merito era di Antonio! Certo, anche suo e di Alessandro, ma l'allegria, l'ironia, la contagiosa voglia di vivere del loro bambino aveva fatto il grosso del lavoro.

"E adesso ci salva pure la vita!" pensò, sentendo l'orgoglio allargarsi dentro di lei come olio sull'acqua.

"L'orgoglio!"

All'improvviso le tornò in mente quello strano (incubo) sogno che aveva fatto, e quel senso di fierezza misto all'ansia che aveva provato mentre osservava...

«Ok! Trovato! So dove dobbiamo andare!»

La voce di Alessandro spense i suoi pensieri e i suoi tormenti, come uno spiffero d'aria farebbe con una candela accesa. Non disse nulla, si limitò a fissarlo.

«Dovremo trovare un posto per la notte quando siamo là, in zona.»

Silvia fece due passi verso di lui. «Non riusciamo ad arrivare all'FDS entro oggi?»

«Se si arrivasse diretti con l'auto, sì, ma purtroppo non si può. Dobbiamo percorrere un sentiero a piedi e non lo possiamo fare certo col buio.»

Silvia guardò l'ora. «Abbiamo ancora più di dodici ore di luce, Ale. Ci vuole così tanto?»

Lui ripiegò la cartina. «Ci vogliono almeno sei, forse sette ore d'auto per arrivare ai sentieri, salvo deviazioni e contrattempi. E se non facciamo soste.»

Silvia si voltò di nuovo su Antonio, sempre più immerso nel suo gioco.

«Dovremo fermarci invece, ogni tanto. Lo sai bene. Per lui...»

«Lo so amore. Ero ironico!»

Dopo tanti anni insieme, ancora lei si emozionava quando lui la chiamava "amore".

«Guardando la cartina e facendo un approssimativo calcolo,» continuò, «credo ci vogliano circa tre ore di cammino per svalicare il sentiero che porta all'FDS. Tre ore in salita, stanchi e con lui. Per non parlare dei due borsoni che ci siamo portati dietro, riempiti mentre non ricordavamo assolutamente di dover inerpicarci a piedi su per una montagna, vero? Quindi dico tre ore, ma penso che saranno non meno di cinque...»

Le fece l'occhiolino, cercando di sdrammatizzare la situazione.

Silvia sospirò. «Mi sa che hai ragione.»

«Allora... senti il mio programma.»

Si pose davanti a lei, con le braccia in avanti come se stesse per declamare una poesia a memoria, o un impegnativo pezzo di teatro drammatico.

«Cerchiamo un benzinaio perché siamo quasi a secco, e incrociamo le dita che le pompe siano ancora in funzione. Dopodiché, sperando non ci siano intoppi, ci dirigiamo verso la nostra meta in assoluta tranquillità, come se stessimo andando in vacanza. Senza fretta, senza ansie. Ci fermiamo a mangiare quando abbiamo fame, ci fermiamo a fare i bisogni quando ci scappa, ci fermiamo a riposarci se siamo stanchi. E quando arriviamo lassù, cerchiamo un bel rifugio per passare la notte. È triste dirlo, ma credo non sia complicato trovare case vuote, al momento. Ci diamo una bella lavata (ne avremmo già bisogno ora!) e facciamo una bella dormita su un letto comodo, così domattina siamo belli freschi e pronti per la "scalata". Che ne dici?»

«Dico che mi piace, Gallo!»

Si diedero un bacio appassionato.

«In tutta tranquillità?» chiese lei, quando si staccarono.

«In tutta tranquillità!» confermò lui. «Basta ansie, spaventi, preoccupazioni. Tato! Sali in macchina. Ripartiamo.»

Antonio alzò lo sguardo e sorrise. Raccolse i sassi con cui stava giocando e obbedì.

Salirono pure loro, e ripartirono.


Alessandro fu di parola: il viaggio fu relativamente tranquillo e abbastanza piacevole, al netto almeno dei nuovi parametri che l'invasione aveva imposto, primo fra tutti il paesaggio costituito da bolle arancioni e desolazione ovunque, sia che si attraversasse la campagna, la collina o la montagna. Ci si abituava troppo in fretta a quei tristi spettacoli, e questo era l'aspetto più inquietante.

Ciò a cui Alessandro invece non riusciva ad abituarsi era l'incertezza che a ogni centimetro percorso, a ogni secondo passato, sentiva gravare su di loro. L'incertezza di un futuro che era divenuto d'un tratto buio, nero come la notte più profonda ma, soprattutto, l'incertezza del presente, sensazione mai provata prima, o almeno non in quei termini, e per questo ancora più spaventosa.

Alessandro non sapeva cosa potesse sbucare da ogni macchina abbandonata che sorpassavano, da ogni casa che vedevano, vicina o lontana, da ogni paese che attraversavano. Ogni sosta che facevano poteva nascondere un'insidia. Antonio aveva detto che non c'era più pericolo a stare fuori, ma Alessandro era sicuro si riferisse agli uomini viola che, terminata la loro caccia, erano ora dentro alle bolle intenti a svolgere l'altro compito assegnatogli. Non sapeva come facesse a saperlo, ma aveva capito che in qualche modo era connesso con quegli eventi.

Ma l'altra gente? Quelli che, come loro, erano riusciti a scamparla? Rifugiati in casa o in viaggio, con chissà quali mete, quali scopi, perlopiù terrorizzati. E sapeva bene come il terrore fosse in grado di cambiare una persona, e mai per il meglio. Erano stati invasi da forze aliene, ma le sue paure più grandi venivano dagli umani come lui! Se non era un paradosso questo...

Aveva comunque promesso a sua moglie un viaggio il più possibile sereno e tranquillo, per questo dissimulava i suoi pensieri e le sue paure in facce compiacenti e sorridenti, ricevendone altrettante in cambio. Si chiedeva se anche Silvia non fingesse, spaventata pure lei dagli stessi pensieri che aveva lui, o magari da altri, diversi, ma forse neppure troppo.

"Certo che è spaventata pure lei!" si diceva. "Come non potrebbe?"

Poi guardava Antonio, a volte nello stesso momento in cui pure Silvia lo faceva, e lo vedeva sempre calmo, sempre sorridente, immerso nei suoi mondi che fungevano da schermo protettivo. Se non fosse stato per lui non sarebbero stati lì, ma dentro una bolla o dentro agli stomaci di due cani inferociti. E subito la sua testa si riempiva di domande, di dubbi, di perplessità, e tutto confluiva verso un unico nome: "FRANCO DE SIMONE". Ormai l'aveva idealizzato (e sicuramente anche Silvia) a oracolo, a qualcuno che avrebbe schiarito ogni loro zona d'ombra; quel nome era l'unica luce che riusciva a scorgere nell'oscurità che si dipanava sul loro cammino. Sperava con tutto il cuore di trovarlo e di non rimanerne deluso, sperava che quella timida fiammella non si spegnesse.

Sentiva d'averne bisogno, disperatamente. Non capiva il perché, ma sentiva che era così.


Trovarono un distributore dopo un paio di chilometri; la pompa funzionava.

"Un miracolo!" pensò Alessandro.

Riempì il serbatoio, trovò alcune taniche in quella che doveva essere l'officina e riempì anche quelle, sistemandole nel bagagliaio, per fortuna ampio, dell'Audi.

Dopodiché tutto proseguì abbastanza liscio. I tormenti di Alessandro rimasero tali e non incontrarono mai anima viva.

Dovettero allungare la strada tre volte, facendo giri più tortuosi a causa di invalicabili sbarramenti di mezzi abbandonati ma, per il resto, il viaggio fu come promesso.

Fecero diverse soste, la più lunga per mangiare in un bar, in un paese di nome Campordasego, dove scoprirono, senza troppa sorpresa, che non c'era più elettricità, né gas. L'acqua ancora a usciva dai rubinetti, seppur in un sottile filo: presto se ne sarebbe andata anche lei.

«Merda Ale! Come si fa senza luce, gas per cucinare, acqua per lavarsi...»

«Un po' me l'aspettavo, Silvia. Non c'è più nessuno che manutiene. Per fortuna che almeno abbiamo fatto scorta di benzina.»

«Sì, ma...»

«Lo so cosa vuoi dire! Cerchiamo di arrivare dove vogliamo arrivare, intanto. Un problema alla volta. E stasera ci laveremo con le bottiglie d'acqua.»

Il bar era fornito anche di cucina, in cui trovarono alcuni barattoli di pasta al pomodoro già pronta e del pane non fresco. Si fecero andare bene tutto, vista la situazione.

Verso le sette di sera Alessandro entrò nel parcheggio di un grande albergo. Erano giunti in un paese piuttosto grande, circondato da alte montagne che già da un po' facevano loro da scorta. C'erano altre macchine ferme negli appositi settori ma, come ormai triste consuetudine, nessuno era nei paraggi. Avevano intravisto una grossa bolla, appena prima di entrare nel paese; Alessandro era sicuro che ogni persona si fosse fatta trovare lì, quando quegli esseri erano arrivati, ora si trovasse là sotto.

«Ci fermiamo qui?» chiese Silvia.

Alessandro annuì, scendendo dall'auto e andando ad aiutare Antonio a infilarsi lo zaino sulle spalle.

«Credo che saremo più al sicuro in un albergo piuttosto che in una singola casa. Ci sono più camere, è molto più dispersivo. E, se so ancora leggere una cartina, siamo a una trentina di chilometri dai nostri sentieri.»

Portarono dentro i due borsoni, la sacca con le cibarie e la cassa d'acqua, entrando dal grosso buco che sostituiva quello che era stato l'ingresso. Alessandro tornò poi a prendere la borsa da medico; era vero che non c'era nessuno in giro, ma non si fidava comunque a lasciarla incustodita in macchina, preferendo a ogni modo averla sempre a portata di mano.

L'albergo era composto da tre piani, ma visto che l'ascensore non funzionava, si fermarono al primo, scegliendo la camera che sembrò loro la più grande, composta addirittura da due ambienti. Era la numero 217.

«Come sono numerate?» disse Alessandro, guardando la moglie con un mezzo sorriso. «Al primo piano dovrebbero iniziare tutte con l'uno!»

Lei si strinse nelle spalle. E quando finalmente, dopo aver recuperato altra acqua dalla cucina, e qualcos'altro di ancora commestibile da mettere sotto i denti, poterono chiudersi la porta alle spalle e dare le mandate con la chiave, sembrò loro d'aver isolato tutte le brutture e le angosce di quella giornata e di quel nuovo mondo, all'esterno, e di essersi rinchiusi in una piccola sfera protettiva, dove potevano, almeno per una notte, essere al sicuro.

Si lavarono, mangiarono, poi si rilassarono con un gioco di società che Antonio si era infilato nello zaino, ridendo e divertendosi, e riuscendo a dimenticare per un po' le tante angosce e preoccupazioni.

A un certo orario misero il ragazzo a nanna nell'altra stanza, attesero si addormentasse, e fecero l'amore, non alla loro maniera, ma in silenzio, senza strilli e senza Led Zeppelin.

Fu molto bello comunque, e quando finirono, stanchi morti, si addormentarono nudi e abbracciati.


Alessandro spalancò gli occhi.

Tremava dal freddo, ed era disorientato.

"Dove sono? Cos'è questo freddo?"

Si frizionò le braccia con le mani, scoprendo di essere a petto nudo. Intorno a lui era buio pesto, ma sapeva di non essere nella sua casa, né nel suo letto. Allora dove si trovava?

Alzò appena la testa e cercò di mettere a fuoco con gli occhi. Alla sua destra c'era una finestra dalla quale filtrava appena un raggio di luna; dovevano esserci le tende tirate, perché si capiva che qualcosa ostruiva alla luce di passare del tutto.

Si alzò e vide di essere nudo; aveva fatto l'amore con sua moglie, questo lo ricordava.

D'un tratto tutto gli tornò in mente. Scostò un po' le tende e il pallore lunare si spanse nella camera illuminando il letto in cui dormiva Silvia, sul fianco sinistro, completamente avvolta nelle coperte. Ecco perché aveva freddo: sua moglie, dormendo, l'aveva scoperto, com'era solita fare. E nonostante fosse giugno, uno dei giugni più caldi della sua vita, si trovavano in un paese di alta montagna, dove di notte le temperature scendevano drasticamente. Ricordava di essersi messo un pigiama addosso, levatogli da lei non appena avevano capito che Antonio si era addormentato; lo ritrovò appallottolato sul pavimento e lo indossò. Decise di non richiudere le tende, in modo da essere svegliati ai primi raggi di sole, e non rischiare di dormire più del dovuto. Non potevano più indugiare troppo.

Tornò a letto e, sorridendo, sfilò un po' di coperta da sotto il corpo di Silvia; la donna sospirò, si lamentò appena e si voltò verso di lui, senza mai aprire gli occhi. Lui la fissò con dolcezza e le diede un delicato bacio sulla fronte.

«Buonanotte, anima mia! Ti amo da morire.»

Poi, seduto nella sua parte, si protese in avanti per sistemarsi la coperta. Ma si bloccò.

Antonio era in piedi sulla soglia che divideva la loro dalla stanza in cui dormiva, con il suo pigiama azzurro cosparso di piccoli squaletti, e i capelli arruffati. Lo fissava serio, senza nemmeno l'ombra di quel suo solito sorrisetto contagioso e furbo, gli occhi ridotti a due fessure, il labbro inferiore che sporgeva meno del solito, almeno da quel che Alessandro poteva vedere in quell'oscurità appena rischiarata. Stava osservando il viso di suo figlio come sarebbe stato senza (la tua guarigione) quella maledetta sindrome di Down che gli si era appiccicata addosso.

Alessandro deglutì, tanto sorpreso dalla visione, quanto spaventato. Non riuscì a dire nulla subito, e quando si decise a parlare, lo fece Antonio per lui. Alzò il braccio destro e puntò l'indice su di lui.

«Vu. Effe» disse, senza balbettii o strascicamenti di parole, come faceva sempre e, ultimamente, un po' di più.

Alessandro non capì, ma rimase zitto, terrorizzato dal suo stesso ragazzo.

«Vu. Effe» ripeté e questa volta il dito era puntato su sé stesso. Poi si voltò, e scomparve nella sua stanza.

Alessandro rimase cinque minuti seduto, incapace di capire se fosse successo tutto sul serio o se avesse sognato. Attorno a lui l'unico rumore era il respiro profondo di Silvia. Si accorse di essere sudato; il freddo era aumentato. Decise di alzarsi e fu come se le sue gambe fossero ricoperte da un sottile strato di ghiaccio.

Prese il cellulare dal comodino si diresse verso la camera di Antonio. La luce della luna non riusciva a filtrare fin lì, così si avvicinò a tentoni al letto del figlio e quando toccò con lo stinco la sponda, accese il telefono. Antonio dormiva, e sembrava sereno.

Guardò lo schermo: erano le 3.28 e la sua batteria era all'1%.

Proprio in quel momento si spense, emettendo un basso suono vibrante, lasciandolo al buio più completo.


L'Audi sfrecciava circondata dagli imponenti abeti e dai larici che formavano il fitto bosco stagliato sia a destra che a sinistra. Erano le 7.40 di mattina e si erano rimessi in viaggio da poco meno di venti minuti.

Alessandro li aveva buttati giù dal letto alle sette in punto, spronandoli a vestirsi in fretta.

Silvia notò subito che il marito non era di buon umore.

«Ho dormito male!» rispose, quando lei gli chiese cosa avesse.

«E voglio arrivare all'FDS. Sono stanco di stare in giro!»

Non disse nulla sulla disavventura notturna avuta con suo figlio, semplicemente perché non avrebbe saputo cosa dire. Nemmeno lui sapeva cosa fosse successo. Quelle due lettere, "Vu", "Effe", pronunciate di notte, in quel modo inquietante un po' da film horror, non significavano niente per lui.

«Va bene, va bene! Ci sbrighiamo» aggiunse solo Silvia, continuando a scrutarlo di sottecchi. Capiva benissimo che c'era qualcos'altro; dopo tanti anni insieme, per lei era un libro aperto. Ma aveva anche imparato a fermarsi quando era chiaro che non voleva andare oltre. E quella mattina, era una di quelle volte.

Antonio era tornato quello di sempre e pareva non ricordare nulla di quello che aveva detto solo qualche ora prima. Alessandro non aveva avuto dubbi che sarebbe stato così; nella mezz'ora che passò sdraiato nel letto, prima di scivolare in un sonno leggero e agitato, aveva rimuginato sull'accaduto, venendo alla conclusione che il figlio aveva agito sotto l'effetto di una sorta di trance, sicuramente collegata a tutti gli altri episodi di quei giorni, in cui aveva dimostrato di sapere molte cose sugli avvenimenti che stavano succedendo.

"Quindi Vu e Effe c'entrano qualcosa con questi alieni?" si chiese senza potersi dare risposte.

Una cosa sola era certa: dovevano trovare prima possibile de Simone. Lui avrebbe chiarito tutto. Ormai se ne era talmente convinto che il fatto di non trovarlo, o di trovarlo ma scoprire che non sapeva niente di niente, l'avrebbe fatto cadere nello sconforto più totale. Non poteva essere così! Non doveva essere così!

Arrivati a una biforcazione della strada, Alessandro fermò l'auto e consultò per l'ennesima volta la cartina.

«Ci siamo! Qui sulla destra dovrebbe partire il tratto di sentiero.»

Ed era vero.

«Quindi da qui si cammina?» chiese Silvia.

«Oh, no! Finché si può, andiamo con la macchina.»

Percorsero tre chilometri a passo d'uomo, visto che il sentiero era in sterrato e pieno di buche.

Giunsero a una radura bloccata da un'intricata barriera di alberi. Il sentiero si restringeva e vi finiva dentro, biforcandosi subito in due direzioni, diritto e a sinistra. C'erano dei cartelli fatti a freccia, attaccati a un palo piantato nel punto in cui il viottolo si divideva.

«Stop!» disse Alessandro. «Da qui si cammina. Preparate la roba. Vado a vedere cosa dicono quei cartelli.»

Erano quattro, di legno, con la punta della freccia dipinta di rosso. Quello più basso, puntato a sinistra, recava la dicitura "Panoramico", seguito da "5h". Gli altri tre, invece, erano diretti nell'altra direzione, davanti a lui e, nell'ordine, riportavano "Ciasa de Bortoli 4h 30'", "Vetta del Lupo 3h 30'" e "Rossi 4h 10'".

Alessandro consultò di nuovo la cartina e annuì. Silvia lo raggiunse.

«Quindi?» Lesse anche lei.

«Sono i nomi dei sentieri e il tempo stimato per raggiungerli e percorrerli. In genere questi cartelli indicano la destinazione, non il nome del percorso, ma siccome portano tutti alla valle dell'FDS, tenuta volutamente nascosta, hanno scritto così.»

«Caspita! Ma ci vuole un sacco per percorrerli! Avevi parlato di tre ore!»

«Ho fatto un calcolo a mente guardando una cartina! Era molto approssimativo...»

«Abbiamo due borsoni, Ale! Come facciamo a portarli per tutto quel tempo?»

«Ne facciamo uno solo, cercando di alleggerirlo solo con lo stretto necessario. Se siamo fortunati, forse de Simone ha qualche mezzo per tornare a prendere il resto.»

«E se non siamo fortunati?»

Alessandro si fece torvo. «Non dirlo nemmeno!»

«Ale, cos'hai stamattina? Lo vedo che c'è qualcosa di strano, sai?»

«Ne parliamo quando arriviamo. Dai, prepariamo la borsa.»

Silvia lo prese per un polso e lo fissò intensamente; lui resse lo sguardo solo per un momento.

«Quale sentiero prendiamo?» disse poi lei, indicando con il mento i cartelli.

«Il "Panoramico". Siam venuti qui per quello. È il più lungo perché è il più facile, solo leggera salita. Credo che sarà una piacevole scampagnata.»

«Ma con il "Vetta del Lupo" c'impiegheremmo un'ora e mezza in meno!»

«Non farti ingannare dai cartelli, Silvia. Sì, è più corto, ma perché è più diretto e di conseguenza più ripido. Con il borsone e con Antonio ho paura che ci impiegheremmo un bel po' più di cinque ore. Sempre se arriviamo in cima! Fidati di me.»

Furono pronti in dieci minuti. Alessandro avrebbe portato il borsone, molto alleggerito, nel quale trovarono posto anche le quattro bottiglie d'acqua rimaste; Silvia prese la borsa medica e se la mise a tracolla, mentre Antonio aveva sulle spalle il suo inseparabile zaino. Salutarono l'auto e Alessandro, chiudendola, si chiese se l'avrebbe mai più rivista. La cosa però, in quel momento, non era così importante.

«In marcia!» disse, e si mosse, seguito dalla famiglia.


Impiegarono quattro ore a percorrere il "Panoramico", un'ora in meno dell'orario stimato dal cartello. Alessandro non ne rimase sorpreso; dopo nemmeno mezz'ora di marcia, con il sentiero che era stato fin lì pressoché quasi sempre pianeggiante, s'imbatterono in una deviazione che tagliava a sinistra, direttamente in mezzo al bosco, segnalato da un altro di quei simpatici cartelli alpini: "Panoramico 3h 30'". Lì la pendenza aumentava, ma nemmeno troppo, e permise loro di guadagnare parecchio tempo.

Non si stupì nemmeno della sua resistenza o di quella di Silvia e del fatto che non fecero nemmeno una pausa, escludendo le brevi fermate di un minuto per estrarre dal borsone l'acqua da bere; il caldo si faceva sentire in tutte le sfumature tipiche di un giorno di fine giugno.

Chi gli diede più da pensare fu Antonio.

Erano quasi due giorni che succedeva e ormai forse non si sarebbe più dovuto stupire di nulla; di cose "fuori dal comune" ne aveva dette e fatte abbastanza!

Eppure, non poté non notare l'urgenza che sembrava muovergli le gambe, nonostante sul volto avesse sempre la solita, serena e, a volte, assente espressione. Suo figlio non aveva mai amato la fretta e, se decidevi di portartelo dietro, dovevi rassegnarti alla pazienza. Non credeva fosse un aspetto direttamente collegato alla sua sindrome; era più che sicuro che fosse proprio la sua indole, ereditata dal nonno, suo papà, forse la persona più pigra mai apparsa sulla faccia della Terra.

Tant'è che, quel giorno, Antonio marciava spedito, con un passo che, sia lui, sia Silvia, faticavano a tenere; ogni tanto si voltava a guardarli, senza dire nulla, ma in quegli occhietti semichiusi, Alessandro riusciva a scorgere una sorta d'incitamento ad aumentare l'andatura.

Senza volerlo, nuove domande gli spuntavano in testa, dove già c'era un intricato ammasso di dubbi, paure, perplessità, angosce, talmente fitto che cominciava a dubitare che un singolo uomo potesse essere in grado, non tanto di radere al suolo tutto, ma nemmeno riuscire ad aprirsi una minuscola via che portasse all'uscita.

Antonio giunse nel piccolo spiazzo dove l'ascesa del "Panoramico" finiva. Da lì partiva la discesa, molto più breve, che portava giù nella valle. I suoi genitori arrivarono poco dopo, sbuffando, talmente sudati che sembravano essere passati sotto a una doccia. Alessandro lasciò cadere il borsone e si sdraiò sull'unico pezzetto d'erba che c'era, a ridosso di un grande abete. Silvia lo raggiunse subito.

«Fffrraaa... aanco!» disse il ragazzo, indicando di sotto.

Alessandro alzò la testa. «Come, tato?»

«Fffrrr... Fraanco!» ripeté Antonio. In quel momento pareva meno tranquillo del solito, e abbastanza agitato.

Alessandro si tirò su, lo raggiunse e rimase senza fiato.

La famosa FDS era là, in tutta la sua imponente magnificenza. L'aveva sempre e solo vista in foto, negli anni in cui più faceva parlare di sé, ma doveva ammettere che dal vivo era tutta un'altra cosa.

Soffermò un po' di più lo sguardo sulla torretta, la celebre torretta con l'antenna fatta a stella che comandava dalla sua sommità, famosa quanto la Torre di Pisa, o il campanile di Piazza San Marco, o le Due Torri di Bologna.

"Beh... non più adesso!" pensò, sentendo un morso doloroso al cuore.

Non si accorse che Silvia era al suo fianco, ma quando la vide, notò lo sguardo e il pallore che pareva averle cancellato dalla faccia i segni della fatica appena compiuta.

«Che c'è?» le chiese, sentendo il pulsare del cuore aumentare un poco.

«Io lo conosco questo posto!»

«Tutti lo conoscono, tesoro. È stato mille volte sui giornali, in tv...»

Lei si girò verso di lui. «No! Lo conosco come se ci fossi già stata.»

Alessandro deglutì. «Cosa intendi?»

«Intendo che l'ho sognato, ma non sono sicura fosse proprio un sogno. Era come... come...»

«Come?» La incalzò lui, sentendo l'ansia salire come le bolle di una lattina troppo gasata.

Silvia abbassò il capo, con la punta delle dita sulla fronte. «Non lo so! Non so spiegarlo. Era tutto così chiaro durante, e così confuso dopo...»

«Dooo... dobbbiaa... mo aaa... andaaare.» s'intromise all'improvviso Antonio.

Il suo sguardo era quanto di più lontano dal solito Alessandro avesse mai visto. Ma, per questa volta, scelse d'ignorarlo. Prese Silvia per le spalle e la guardò con attenzione negli occhi.

«Quando... hai fatto questo sogno?» chiese, parlando molto lentamente.

Lei esitò un momento, poi parlò, con un principio di lacrime agli occhi. Non piangeva per il fatto d'aver taciuto a suo marito il sogno e quella strana sensazione di consapevolezza che si annidava dentro di lei. Era quel posto! Vedere dal vivo il prato e il pezzo di cielo dove, in compagnia di qualcuno, aveva fissato... non ricordava cosa, ma era molto forte in lei il sentimento d'orgoglio che aveva provato. E il terrore! L'ansia!

Chiuse gli occhi e fu allora che rivide l'esplosione e quella luce, gialla, arancione, rossa... Le sensazioni erano riemerse in lei in tutta la loro potente intensità e il dubbio che forse quello non fosse stato solo un sogno, ora, mentre fissava con i suoi occhi il posto, era vivido e quasi scontato.

«Sabato notte, quando abbiamo dormito, prima di partire...»

«Cazzo, Silvia! E perché non me l'hai raccontato?»

Lei sgranò gli occhi; non poteva crederci! Cominciò a ridacchiare.

«Senti, senti... Chi è che non racconta le cose? Tu cos'hai oggi? E non mi dire che hai solo dormito male, caro!»

Alessandro fu colto nel vivo. Sorrise, ma il sorriso si spense subito. Era faticoso, in quel contesto, trattenerne uno sulle labbra a lungo.

«Dobbiamo parlare con de Simone, al più presto.»

Gli cadde l'occhio su Antonio che stava girando in tondo sul posto, come fosse una tigre alienata.

«Tato, che...»

«Cosa è successo là?» lo interruppe Silvia. Alessandro si voltò.

Indicava col dito l'unica cosa che non ricordava d'aver mai visto in nessuna foto e che, forse abbagliato dallo stupore, non aveva notato alla prima occhiata.

Tutto il perimetro dell'azienda, compresa la deliziosa baita in cui presumeva de Simone vivesse, era circondato da un enorme recinto, simile al tendone d'un circo... "trasparente". Dall'antenna partivano quelli che, dalla sua posizione, sembravano impalpabili fili di ragnatela, collegati ad alti pali neri conficcati nel terreno, connessi tra loro allo stesso modo.

«Pare un recinto...» disse, restando a bocca aperta.

«Sì, ma io intendo in quel punto, laggiù...»

Alessandro la guardò aggrottando le sopracciglia, vedendo il suo dito indicare con decisione un punto alla loro destra che lui non aveva ancora notato. Due di quei pali erano piegati in avanti, e lo schermo creato dai quasi invisibili fili bianchi, pareva interrotto.

«Frraaa... aanco ha biii... soogno!» Antonio li guardò di nuovo.

Ora pareva arrabbiato, e s'incamminò giù per la discesa, senza aspettarli.

«Tato! Aspetta...»

«Antonio...»

Il ragazzo non si voltò.

«Cazzo! Andiamo, dai.»

Alessandro recuperò il borsone in tutta fretta, mentre Silvia faceva lo stesso con la valigetta medica.

«Cos'è che ha detto? Che Franco ha bisogno?» chiese lei, cominciando a scendere dietro al marito.

Lui si voltò un attimo. «Non lo so, Silvia. Ormai è da un po' che non capisco cosa dice!» e si affrettarono a seguirlo.

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