17 - LO SCRIGNO E IL CUSTODE (2)
Alberto staccò gli occhi dal libro. La pioggia aveva smesso di cadere, chissà da quanto, ma fuori l'oscurità era totale.
Si allungò, con attenzione, e prese l'orologio appoggiato sul comodino. Erano quasi le diciotto e trenta. Le parole del libro lo avevano catturato in maniera totale e, come Augusto, forse grazie a lui, era come se avesse vissuto tutto in prima persona.
Credeva a quello che aveva appena letto? Si fece questa domanda, subito. Una parte di lui, forse la maggiore, no. Come poteva essere? Donne che cadono dal cielo, che invecchiano in un attimo, energie che si spostano, che creano vita, mondi lontani... e chi più ne ha più ne metta. Sembrava un ingegnoso e ben architettato (forse nemmeno quello, a dirla tutta), lavoro di fantasia. Però, perché? Qual era lo scopo di inventarsi una roba simile? Perché Franco avrebbe rischiato sé stesso e tutto quello che aveva per liberare degli ergastolani, solo per propinare una storia assurda e sconclusionata? Questo non aveva molto senso, in effetti.
"Fai lo sforzo di credere. Quello che leggerai è successo sul serio!".
Le parole del vecchio echeggiavano nelle sue orecchie. Sembrava sincero e, sia il volto, sia la fama che lo precedeva suggerivano che lo fosse sul serio.
"E poi l'hai appena vissuto in prima persona. Hai visto con i tuoi occhi quella donna. Hai sentito con le tue orecchie quello che ha detto."
La piccola parte decisa a credere lo pungolava, subdolamente. Ma appassionarsi a un racconto ben scritto, immedesimarsi con il personaggio, non è che volesse proprio dire che ciò che si aveva letto fosse vero. Doveva riconoscere, comunque, che la lettura gli aveva lasciato un certo senso di inquietudine addosso. Aveva molti dubbi a riguardo e sperava fossero dubbi fondati.
Voltò l'ultima pagina. Nel retro c'era un elenco di nomi e date: custodi e scrigni. Augusto, a quanto pareva, aveva svolto bene il suo presunto compito e lo stesso aveva fatto chi era venuto dopo.
Lesse l'ultimo nome scritto a fianco di "custode":
FRANCO DE SIMONE
Certo. Aveva senso.
Scorse poi i nomi degli scrigni, nomi ovviamente senza alcun senso per lui, ma rimase ancora più perplesso dalle ultime due righe:
NICOLAS (guar.)
I 9
Qualcuno bussò alla porta.
«Alberto... Sei sveglio?»
«Sì»
«Tra quarantacinque minuti è pronta la cena.»
«Grazie, Monica. Ci sarò.»
«Vorrei ben vedere...» ridacchiò lei, mentre si allontanava.
Gli piaceva quella donna. Era sorprendentemente ironica e divertente. Anche se suggeriva una certa, attenta cautela, grande pregio in una persona secondo lui, perché non permetteva mai di abbassare la guardia. E lui, nella sua situazione, non poteva farlo. Capiva il perché Franco se la tenesse ben stretta.
Chiuse il libro, lo mollò sul letto e si mise a guardare la finestra.
Aveva un pensiero fisso nella mente, che non si spostava.
«Devo parlare al più presto col vecchio.»
Il telefono di Franco de Simone era squillato quel pomeriggio, mentre lui era attaccato alla macchina per la dialisi, in una stanza dell'ospedale, stanco e ingrigito.
Sapeva chi fosse ancor prima di leggere il nome sul display.
«Ciao, Francesca» rispose, con la voce affaticata.
La telefonata era stata breve. Lei aveva chiamato solo per comunicargli che Fabio Santini aveva aiutato alcuni prigionieri a fuggire e che era stato ritrovato morto nel bosco, sbranato da un branco di lupi. Ovviamente lui lo sapeva già, ma reagì commuovendosi, piangendo lacrime sincere, senza sforzarsi troppo per essere credibile, perché voleva bene al ragazzo e si sentiva responsabile dell'accaduto.
«E gli altri due che fine hanno fatto?» aveva domandato.
«Uno sembra avercela fatta, per il momento» rispose lei. «L'altro è finito più o meno come il ragazzo.»
«Posso fare qualcosa per aiutarti?»
«No zio, nulla. Volevo solo dirti di Fabio. Forse potrai stare vicino alla sua famiglia, se ti è possibile.»
Dopodiché, aveva riattaccato.
Pietro Masi aveva un piano.
Il direttore non avrebbe agito, ne era certo, e la fiducia che riponeva in quella donna calava in continuazione. Era debole, inadatta a quel ruolo, diversa in tutto e per tutto da sua madre, che l'aveva assunto perché condivideva i suoi stessi ideali e metodi. La mela era caduta dall'albero, rotolata lontana, giù per la collina e marcita in un attimo. Toccava a lui risolvere tutto, come sempre dopotutto.
Non era tanto per l'abbazia e per quello che combinavano lì dentro; non gliene importava proprio un cazzo se avessero chiuso tutto e scoperchiato il vaso. Sarebbe uscita tanta merda, di quella densa e compatta perché, per quanto gli intenti di quella struttura fossero nobili, era pur certo che non fossero per niente legali. Lui si riteneva al sicuro: svolgeva un lavoro, eseguiva degli ordini. Non sarebbero venuti da lui. E nemmeno gli importava dei singoli prigionieri. Erano solo carne da macello, piccoli parassiti da massacrare, giorno dopo giorno. Erano scappati NC360 e AR396? Chi se ne frega. Uno valeva l'altro. No, non era questo che lo infastidiva.
Semplicemente non sopportava di essere stato raggirato in quel modo e non permetteva a nessuno di prenderlo per il culo. E quei due l'avevano fatto, sparendogli da sotto il naso, aiutati da quel grosso maiale grufolante, senza che lui si accorgesse di niente. Lupi e orsi avevano in parte rimediato a questo inghippo, ma uno era ancora là fuori, e lui poteva quasi vedere la sua faccia compiaciuta, poteva sentire i suoi pensieri da uomo libero mentre diceva: "Masi... ti ho fottuto, stronzo!"
Il sangue ribolliva nelle vene, facendogli digrignare i denti per la rabbia.
Se ne stava così, impalato nella Cava, a guardare il mucchio di vermi rimasto a spaccare pietre e intanto stringeva il manico del manganello talmente forte da avere le nocche della mano completamente bianche.
«Sta bene, capitano?»
La voce di Burci giunse da un altro pianeta.
Aveva messo gli occhi su uno dei detenuti che, con estrema imprudenza non era riuscito a tenere a freno gli occhi e, solo per una frazione di secondo, l'aveva guardato. Scorse un accenno di sorriso sulle sue labbra.
Estratto il bastone glielo calò con forza dritto sulla bocca, spaccandogli due denti, esattamente come aveva fatto qualche ora prima col compagno.
«Torna al lavoro, ora!» disse con calma, rinfoderando il manganello mentre il malcapitato si rialzava stordito, sputando sangue.
Burci, Vignoli e Karl, i tre uomini che montavano la guardia con lui, si guardarono e non dissero nulla. Sapevano che non era mai prudente mettersi in mezzo, soprattutto quando il loro capitano era alterato per qualcosa, come era, senza nessun dubbio, in quel momento.
«Il direttore non farà niente per riacciuffare AR396!» parlò, all'improvviso. «Denuncerà tutto, vedrete. Perderemo il lavoro e finiremo dietro le sbarre, sicuro come la merda che puzza.»
Non la pensava così ovviamente, ma aveva bisogno di loro e spaventandoli sperava di ottenere il loro completo aiuto.
«Come non farà niente? Gliel'ha detto lei?» Burci lo guardava con occhi preoccupati.
«Non può restare a guardare...» disse Vignoli, col medesimo sguardo accigliato.
«Beh... sarà così! Non farà un cazzo! È stato suo zio a farli scappare e lei ha paura di lui. Accetterà la cosa e manderà tutto a puttane.»
«L'ingegner Franco de Simone? Aiutare due ergastolani a fuggire? Ma perché? Non è stato Santini?»
«Che cazzo te ne frega? È importante il perché? Dobbiamo riprendere quel pezzo di merda e riportarlo qua, alla svelta.»
Ignorò volutamente l'ultima domanda.
«Io so dov'è, ma ho bisogno di uomini, uomini fidati e con un po' di palle. Se tutto va bene, domani notte potremmo riaccoglierlo tra di noi, con i dovuti onori.»
Burci e Vignoli si scambiarono uno sguardo perplesso, poi il primo parlò. «Capitano, il direttore...»
«Lei non muoverà un dito, ve l'ho già detto! E voi prendete ordini da me!»
«Ma lei prende ordini da Francesca Fontana. Mi dispiace, capitano, ma io non ho intenzione di andare contro le regole e non voglio intromettermi in nulla che non sia autorizzato da chi dirige questa struttura.»
Gli occhi di Burci erano spaventati, ma determinati a tenere testa a quelli di Masi, piantati nei suoi e pieni di sdegnosa furia.
«Se qualcosa verrà fatto, l'ordine deve venire dalla donna e da nessun'altro.»
«Ho capito! Mi fai schifo...»
Masi guardò Vignoli che teneva la testa bassa. Poi si rivolse a Karl che non aveva ancora aperto bocca.
«E tu, tedesco del cazzo? Ti comporterai come loro, come quello che sei sempre stato? Un vigliacco?»
L'uomo alzò appena gli occhi su di lui e li riabbassò subito.
«Siete delle merde!»
Si girò e li piantò lì. Aveva già in mente a chi rivolgersi e sapeva che in quel caso non sarebbe rimasto deluso.
Francesca sedeva pensierosa alla scrivania, rigirandosi tra le dita uno dei contratti d'affitto prossimi alla scadenza, pronto per essere discusso con il diretto interessato ma, in realtà, senza ancora averlo degnato di uno sguardo.
Pensava, in quel particolare momento, ad Astra e a quello che, insieme al branco, avevano fatto a Fabio. L'amore che provava per la sua lupa era enorme e il risentimento verso il ragazzo, altrettanto. Eppure, sentiva proprio al centro del petto un peso grave, che la faceva stare male.
Lasciò cadere il documento sul piano di mogano e, appoggiatasi allo schienale della sedia, col gomito sul bracciolo, nascose la fronte nella mano. Sentiva gli occhi colmi di lacrime, ma neppure una goccia stava scendendo, dandole quasi l'impressione che, anche loro, fossero indecise sullo stato d'animo d'assumere. Si sentiva proprio così! Dentro di sé aveva un turbine d'emozioni, pensieri diversi e contrastanti tra loro, che vorticavano impazziti, cozzando gli uni con gli altri. Astra era solo l'ultima aggiunta e aveva contribuito ad aumentare la confusione che regnava in lei.
Amava sua madre, quello che sempre aveva rappresentato e quello che aveva fatto, con coraggio, determinazione, prendendo in mano la sua vita con una grinta fuori dal comune, dopo aver subito un'afflizione così pesante, tal era la disgrazia capitata alla famiglia.
Quando era morta aveva continuato la sua opera con dedizione, convincendosi che fosse una giusta causa, cosa che, in parte, credeva sul serio, fingendo a volte una cattiveria che in realtà sapeva non appartenerle. Ma una piccola ombra di dubbio non aveva mai lasciato il suo cuore, qualcosa veniva sempre a galla a chiedergli, timidamente, se sul serio fosse soddisfatta di ciò che, ogni giorno, approvava.
Masi era il motivo principale di questi suoi tormentati pensieri, solo e unicamente Masi e i suoi metodi, la sua cattiveria, il modo in cui eseguiva i suoi ordini, in modo perfetto a prima vista, ma mettendoci sempre quel pizzico di sadismo in più che lei non richiedeva, ma che di fatto lui estraeva dalle sue parole, rendendola inevitabilmente complice.
Poi c'era suo zio, il grande Franco de Simone. Ed era grande davvero! Adorava quell'uomo fin da quando era bambina. Aveva assunto il ruolo del padre che le avevano tolto, anche se in maniera diversa. La riempiva di regali e di attenzioni.
Ricordava con nostalgia i Natali in cui sua mamma la portava nella grande villa sulla montagna dove passava con lui e Monica tutto il periodo delle feste.
Che giorni meravigliosi erano, per lei! Ogni mattina si svegliava piena di meraviglia, coccolata e servita come una principessa.
Adorava soprattutto quando lui la portava alla fabbrica che per lei era il parco giochi, incantata da tutti quegli strani oggetti che creava. Quando compì dieci anni, addirittura, le insegnò a guidare il treno e da quella volta, ogni volta che andavano alla fabbrica, era lei a mettersi ai comandi. Non che durante gli altri giorni dell'anno sua mamma le facesse mancare nulla, ma il lavoro all'abbazia le prendeva molto tempo e, a parte la sera e la notte, passava i momenti in cui non era a scuola con la baby-sitter.
L'allontanamento tra fratello e sorella era stato, per Francesca, l'ennesimo duro colpo; fu costretta a scegliere tra i due e scelse sua mamma. Non voleva inferirle un'altra pugnalata e sapeva che tenere vivi i rapporti con Franco avrebbe portato a questo.
Quando la madre morì, Francesca avrebbe potuto (e voluto) riallacciare i rapporti con il vecchio zio, ma lo vedeva come uno sgarbo alla memoria di lei e permise all'ingombrante ombra materna di coprirla anche da morta. Si gettò a capofitto nel lavoro e cercò di non pensarci. Senza riuscirci.
Suo zio le aveva mentito. L'aveva ingannata. L'aveva convinta ad assumere Fabio Santini solo per far evadere quei due. Ne aveva la prova. Gliel'aveva confessato lui stesso, senza volerlo.
Eppure, sapeva che doveva esserci un motivo valido, perché conosceva Franco e mai nella sua vita aveva compiuto un'azione che non fosse giustificata da una buona causa.
"Perché non ha parlato con me invece di architettare un piano così subdolo? L'avrei ascoltato... Ma chi voglio prendere in giro? Gli avrei sbattuto il telefono in faccia, invece!"
Si sentiva sdoppiata, come se un'altra persona si fosse insinuata dentro, trascinandola sempre nella direzione opposta che sceglieva di prendere. Ed era ovvio comprendere che questa presenza, era sua mamma.
«Ma dovremo parlare, adesso! Deve spiegarmi. Lo merito. E rivoglio il mio Alberto...» disse, ad alta voce.
"Lo rivuoi... per farci cosa?" la voce rimbombò nella testa. "Hai un lavoro da svolgere, signorina! Quello viene prima di tutto. Devi riportarlo qui, punirlo e fare in modo che non succeda più. E smetterla di andare a letto con lui. Togliti dalla testa queste stupide idee sull'amore. Ricordati la fatica che ho fatto per mettere in piedi tutto questo..."
Batté il pugno sul tavolo. Era stufa di prendere ordini da un'ombra, anche se era quella della sua amata madre. Era stanca di privare la sua vita delle cose che voleva, e di cui aveva bisogno, solo per rispettare una vecchia vendetta che ormai era sepolta sotto il peso degli anni.
Amava Alberto e riteneva fosse l'uomo con cui aveva condiviso ore meravigliose, non quello che aveva ucciso due donne. Ci credeva fermamente e voleva aiutarlo a uscire dall'abisso che da solo si era scavato sotto i piedi. Dentro l'abbazia non sarebbe stato possibile, ma adesso, forse, c'era un piccolo spiraglio. E allo stesso tempo, forse, poteva riallacciare i rapporti con lo zio.
Il problema più grosso era Masi. Doveva trovare il modo di liberarsi di lui, un compito tra l'arduo e l'impossibile, come sapeva bene.
"E manderai tutto all'aria, dunque? Lascerai che un assassino se la cavi così? Farai in maniera che la voce intrisa di fango di quelle due povere anime, abbandonate nude in un fosso, continui a tormentare i sogni dei loro mariti? Questo farai?"
La voce della mamma era sempre lì, a buttarle giù ogni volta il castello di carte che con fatica riusciva a erigere e, ogni volta, a farle tornare gli stessi, tremendi dubbi.
«SMETTILA!»
La sua voce risuonò forte nell'ufficio, accompagnata dal secondo botto del pugno sulla scrivania. La cornice con la foto di Antonella de Simone, coniugata Fontana, cadde in avanti.
Si guardò intorno, con occhi spaventati.
«Sto diventando matta... Sto diventando matta!»
Rimise al suo posto la foto.
«Scusa mamma...» disse, mentre due righe di lacrime cominciavano a scendere.
Qualcuno bussò alla porta.
«Avanti» disse, con voce stanca, asciugandosi gli occhi.
Era Karl. «Ehm... Buonasera, direttore...» disse, guardando prima lei e poi il resto della stanza, come se si aspettasse di trovare qualcun altro.
Quello che le disse riaccese la sua mente.
«Fammi capire... L'uomo che mi ha sempre dato dell'ubriacone, disprezzandomi ogni volta che mi piantava gli occhi addosso, adesso è qui a chiedere il mio aiuto? Mi pare non siano passate troppe ore da quando mi hai detto di levarmi dalle palle.»
René, seduto su una sdraio, nello sporco portico davanti all'ingresso di casa sua, sorseggiava una birra e guardava Masi con aria divertita.
«Elencami le ragioni per cui dovrebbe fottermi qualcosa di questa storia.»
Pietro Masi aveva uno sguardo disgustato, ma, allo stesso tempo, sapeva di essere nel posto giusto.
«Un ergastolano è a piede libero, tanto per cominciare.»
La risata che scaturì quasi soffocò René, proprio mentre ingollava una nuova sorsata. Rivoli di birra gli bagnarono la grigia e sporca barba. Tossì, ruttò e ripiantò gli occhietti divertiti sull'uomo che stava ritto di fronte a lui.
«E che cazzo me ne frega a me, scusa? Sai quanta gentaccia a piede libero c'è in questo momento?» E gli sorrise, mostrando la fila di denti neri.
Si sentiva compiaciuto per l'inaspettato coraggio che stava dimostrando e stava quasi per sfuggirgli di bocca che sarebbe stato un bene che anche Pietro Masi fosse rinchiuso in un buco, invece che a piede a libero. Ma questo non lo disse. In alcune persone il coraggio, quelle poche volte che si mostra, fa solo qualche passo prima di girarsi e correre a rintanarsi dove sempre è stato. La realtà era che aveva sempre avuto paura di lui, per quanto provasse a mostrarsi irriverente e sfrontato.
Masi sfilò una busta dalla tasca e la lanciò sulle assi polverose, a fianco dell'ex guardiano.
«Immaginavo avresti risposto così. Lì dentro ci sono tremila motivi. Vedi di trovarne almeno uno che ti soddisfi, ubriacone!»
René raccolse l'involucro e sbirciò l'interno.
«Ci tieni proprio a riprenderti questo tizio, eh?»
Svuotò la bottiglia con un'ultima sorsata e la gettò in un secchio.
«Cos'avevi in mente?»
«Riesci a radunare qualcuno per stasera? Direi che un paio di brutti ceffi come te dovrebbero bastare. Voglio gente che non faccia domande e che si scordi di noi subito dopo! Intesi?» ringhiò.
René annuì.
«Bene. Torno qui per le nove.»
Si girò per andarsene ma si arrestò, ributtandogli lo sguardo disgustato addosso. «Sei solo un cazzo di mercenario, lo sai vero?»
Si avviò giù per il vialetto, raggiunse la sua auto e partì sgommando.
René lo guardò allontanarsi.
"Che coglione!" pensò e rientrò in casa.
Nessuno dei due fece caso alla macchina ferma a circa cento metri da loro e che partì, piano, non appena i due uomini si lasciarono.
Mentre Alberto e Monica consumavano una piacevole e allegra cena insieme, conversando e ridendo come fossero vecchi amici a una rimpatriata e Masi esponeva il piano a René e a due ragazzotti butterati, figli di un vecchio amico del tedesco, il telefono di Franco de Simone vibrò per la seconda volta in quella giornata.
Il vecchio era nella stessa stanza privata in cui stava ogni volta che andava a fare il suo trattamento, e si stava godendo la sua annuale lettura di "Delitto e castigo", il suo libro preferito. Raskòlnikov aveva appena calato l'accetta sulla testa della perfida Ivànovna, quando rispose. A differenza della telefonata pomeridiana, questa lo colse di sorpresa.
«Tesoro! Ci siamo sentiti più oggi che negli ultimi dieci anni!» disse dopo aver risposto, cercando di mettere nella frase più ironia che rimprovero.
Francesca stava piangendo.
«Cosa c'è, cara? È successo qualcosa?» Era allarmato.
«Zio... mi dispiace tanto! Mi manchi tantissimo.»
Franco rimase senza parole, incapace di realizzare cosa stesse succedendo.
«Non ho mai voluto andasse così tra di noi. Tutto questo tempo sprecato...»
«Francesca... io...» Un groppo gli si stava formando in gola.
«La mamma, e tutto quello che rappresentava... È sempre stato troppo per me. Lei era lei. Io non ci riesco. Ci ho provato, ma non ci riesco.»
«Nessuno ha mai preteso che tu fossi come lei, cara. E comunque, stai facendo un ottimo lavoro. Sono sicuro che lei è fiera di te, ovunque sia adesso.»
Credeva veramente in quello che le stava dicendo.
«No! Non è vero! Sono appena evasi dei prigionieri, aiutati da una guardia. Tutto sotto il mio naso. A lei non sarebbe mai capitato. Lo so io, lo sai tu!» Tirò su col naso. «So che li hai aiutati, zio. Mi devi dire perché. Non puoi non dirmelo.»
D'improvviso Franco si sentì come trafitto da una lama e tutta la stanza si distorse ai suoi occhi, facendola apparire come avvolta da un telo di nylon. Deglutì e sentì una goccia di sudore scivolare giù dalla fronte. Era preparato a essere un sospettato, diciamolo, il maggior sospettato, ma non si sarebbe mai aspettato che la nipote lo affrontasse così di petto.
«Di cosa parli, cara?» provò a buttare giù, senza convinzione.
«Zio! Ti prego! Non mi prendere in giro.»
La voce di Francesca era ferma e decisa, non più incrinata dal pianto. Eppure, non si percepiva nessun risentimento, nessuna accusa, ma solo una velata supplica.
«Oggi, dopo che ti avevo detto che Fabio era morto, mi hai chiesto che fine avevano fatto gli altri due. Come facevi a sapere che erano due i prigionieri scappati? Io non te l'avevo detto.»
Franco chiuse gli occhi, maledicendo la sua stupidità. Un semplice numero, scappatogli di bocca durante una telefonata, rischiava di mandare in fumo anni di preparativi, attese, conferme e smentite, piani studiati al dettaglio, il progetto più importante della sua vita, un progetto per salvare il mondo. Sospirò. Il grande Franco de Simone, che aveva giocato per tutta la vita con numeri enormi, impossibili da capire e da controllare praticamente per chiunque, tranne che per lui, tradito da un due, un piccolo e banale due!
«Tranquillo, zio. So che persona sei e conosco le cose che hai fatto.»
A Francesca pareva quasi di percepire i suoi pensieri.
«So che c'è un motivo valido dietro tutto questo, ma me lo devi dire. Non puoi tenermi all'oscuro! Ti supplico...» Esitò un momento. «Potrei aiutarti.»
«Francesca, è una cosa grossa. Molto grossa. Per telefono, no.»
«Io lo amo.» disse lei, all'improvviso, tutto d'un fiato.
A Franco quasi cadde il telefono di mano. «Cosa? Chi? Chi ami?»
«Alberto. Lo amo. Lo rivoglio. Dov'è, adesso? A casa tua, suppongo.»
«Sei diventata matta? Tu non puoi innamorarti di un prigioniero. Sai cosa accadrebbe se si scoprisse? Sai cosa farebbe quel tuo Masi se sapesse una roba del genere?»
Francesca rise. «Adesso sei tale e quale tua sorella! È proprio questo che voglio cambiare. Voglio ricominciare ad avere una vita anch'io, zio, senza per forza dover rinunciare al mio lavoro. Comando io, ora! Forse non me ne sono mai resa conto sul serio, come adesso. Continuavo a prendere ordini da mia mamma, anche se lei non c'era più. E poi, tu l'hai fatto evadere... Non puoi venire a farmi la paternale!»
Franco tacque, punto nel vivo.
«E, a proposito di Masi... dobbiamo parlare. Con estrema urgenza» riprese lei.
«Va bene, Francesca, va bene. Fatti trovare domani alle quattordici alla stazione che sai. Ci sarà un vagone che ti porterà qui. Ti spiegherò tutto e ti farò capire che ho bisogno di lui, senza condizioni. A dirla bene, tutti hanno bisogno di lui.»
Alberto passò una delle notti più riposanti della sua vita e non ne fu affatto sorpreso.
Gli ultimi sei mesi aveva dormito su un letto di roccia, spaccando pietre per tutto il giorno. La notte prima era stato all'addiaccio, dormendo qualche ora in una capanna, e camminando nella neve tutto il resto del tempo, braccato da lupi, orsi e uomini cattivi. Finalmente aveva trascorso una giornata riposante, facendo tre pasti decenti completi. Appena la sua testa aveva toccato il cuscino era crollato, e la notte era passata senza sogni. Aveva un vago ricordo di essersi svegliato per alcuni secondi, sentendo un ago pungere alla base del collo ma, come rapidamente si era destato, così subito doveva essersi riaddormentato.
Quella mattina però, il dolore era più vivo che mai e gli rovinò un poco l'impaziente attesa del ritorno di Franco, al quale aveva milioni di domande da fare.
Ne parlò con Monica che, dopo colazione, gli passò un antinfiammatorio e provò a fargli un massaggio locale. La fitta calò un poco, restando però accovacciata, pronta a tornare alla carica non appena l'effetto del medicinale fosse svanito.
L'elicottero dell'ingegner "professore" Franco de Simone atterrò alle undici circa. Monica andò a prelevarlo e spinse la carrozzina all'interno della casa.
Alberto fissò il suo viso e lo trovò più vecchio del giorno prima. La malattia, quando decide di manifestarsi in tutta la sua soffocante oppressione, riesce a distorcere ogni cosa, anche ciò che, solo poco prima, era parso non esserne toccato. Aveva il viso infossato in due guance scavate e, dal colletto della giacca, usciva una striscia di pelle giallastra cadente, che rivestiva a fatica un collo talmente magro da sembrare allungato. Perfino il casco di capelli ricci che gli erano sembrati tanto soffici, ora pareva schiacciato e irregolare, come se fosse una vecchia parrucca gettata a casaccio sulla testa. Ma furono gli occhi che colpirono e rattristarono Alberto più di tutto. Nel giro di una notte l'azzurro che tanto l'aveva sorpreso si era spento, ed era scivolato in uno scialbo grigio, lasciandogli quelle che parevano due pozze di acqua piovana che riflettevano l'imminente arrivo di un nuovo temporale. Quell'uomo stava morendo, era evidente. Alberto sperava solo di avere il tempo per chiarire tutti i suoi dubbi.
Come leggendo i suoi pensieri, Franco ridacchiò.
«Mi riduce sempre a uno straccio la dialisi.»
«No... la trovo bene...»
Di nuovo Franco rise, procurandosi un acceso attacco di tosse.
«Per favore! Per favore! Sono troppo vecchio per le frasi di circostanza. So di avere un aspetto di merda. E dammi del tu! Abbiamo una montagna di cose da fare insieme. Non possiamo permettere ci sia distanza tra noi. Hai letto il libro?»
Alberto annuì. «Ho parecchie cose di cui parlare con lei... con te.»
«Il signor Franco adesso deve riposare. Parlerete oggi pomeriggio.»
Monica aveva già afferrato le maniglie della sedia e stava cominciando a spingerlo verso la sua stanza.
«Aspetta!»
«Ho veramente bisogno di riposo. Perdonami. Dammi qualche ora e parleremo, e non da soli.» Poi si rivolse a Monica. «Ricordati, ti aspetta alle quattordici.»
«Certo, professore.»
Alberto non capiva. «Di chi state parlando?»
Il vecchio si girò e gli fece l'occhiolino.
«Oggi pomeriggio abbiamo un ospite. Anche questa persona si aspetta diverse spiegazioni da me. E non solo da me...» E sparì in camera.
René e i due scagnozzi parcheggiarono l'auto nello spiazzo ombroso che terminava la strada sterrata che avevano percorso. Da lì in avanti potevano procedere solo con le proprie gambe; iniziava la parte dura del sentiero ed era percorribile solamente a piedi.
Il piano di Masi prevedeva l'arrivo nella vallata dell'FDS attraverso la "Vetta del Lupo", un sentiero molto impegnativo che permetteva di superare la cresta di montagne che la delimitavano.
«Non ci sono strade che giungono là. Per treno non possiamo. L'unica è a piedi e quel sentiero è il più rapido, perché è il più diretto» aveva spiegato loro il capitano. «Lasciando la macchina in questo punto,» e intanto indicava col dito un punto sulla cartina, «sono cinque ore di cammino, anche meno se tenete un buon passo.»
«E altre cinque per tornare! E con un prigioniero che farà storie» aveva obiettato René.
Masi l'aveva guardato, come solito, in modo sprezzante. «Non dirmi che in tre non siete in grado di convincere un uomo legato a obbedire?»
I due giovani, evidentemente colpiti nell'orgoglio, avevano protestato subito. «Non si preoccupi signore. Farà quel che gli diciamo. Abbiamo ottime argomentazioni da proporgli.»
«Forse dovrei far fare tutto a loro due. Sembrano molto più sul pezzo di te, ubriacone.»
Lo sguardo di Masi, deformato in un ghigno di divertito disprezzo, lo aveva perforato da parte a parte.
René era rabbrividito, ma più per la rabbia che per la paura di quell'uomo. «Col cazzo! Loro faranno quel che dico io e tu avrai il tuo premio, bello impacchettato.»
«Molto bene. Staremo a vedere. Mi raccomando, attendete il buio per agire, quando sarete là.»
Aveva tirato fuori un'altra busta e la stava sventolando sotto il naso del tedesco.
«Questi sono altri duemila. Te li consegnerò a lavoro fatto.»
I tre uomini si misero in marcia, affrontando subito pendenze notevoli.
"Spero solo che quello stronzo abbia ragione, perché se andiamo fin là per niente, gli faccio vedere io chi è l'ubriacone!" pensava René, sentendosi sicuro di poter tenergli testa, adesso che Masi non era lì.
Era un po' preoccupato della sua tenuta fisica, a lungo trascurata e sepolta sotto litri e litri di birra. Ma non doveva e non poteva assolutamente mostrare segni di debolezza davanti a quei due mocciosi. Era sicuro che avrebbero spifferato ogni sua mancanza e lui questo non poteva permetterlo.
«Forza, gente!» disse, già coi primi accenni di fiatone. «Voglio essere là prima che faccia buio.»
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