16 - LA FORTEZZA DELLE SCIENZE (1)
Alberto fissava il soffitto dello scompartimento nel quale Monica l'aveva sistemato, dopo avergli medicato la ferita alla mano (quella più grave), i graffi a schiena e caviglia, e avergli indicato la porta del piccolo bagno, dove si era lavato e aveva indossato abiti più comodi e puliti. Si era poi sdraiato sul letto nella cuccetta del vagone, stremato, con un leggero tremolio che gli faceva vibrare appena le gambe, residuo dell'eccessiva adrenalina pompata in lui durante l'inseguimento.
La donna gli aveva portato un vassoio con succo di frutta, croissant, pane fresco e marmellata di fragola. Ad Alberto pareva di non aver mangiato mai roba così buona. Ringraziò la donna almeno dieci volte e altrettante volte provò a farle delle domande, ma la risposta era sempre la stessa. «Pazienza e ti verrà spiegato tutto.»
Monica era un donnone grasso, dalla faccia rotonda, rubiconda e rubizza, con capelli lunghi, biondi a boccoli. Sotto alla giacca a vento dismessa una volta all'interno del treno, indossava un maglione di lana grossa turchese che non riusciva a nascondere del tutto il rigonfiamento dei suoi enormi seni, proporzionati al resto del corpo, e dell'altrettanto enorme pancia sulla quale poggiavano. Portava una lunga gonna scozzese che si fermava qualche centimetro prima di toccare terra, dalla quale spuntavano due stivaloni neri e lucidi. Aveva lo sguardo gioviale di una persona divertente, con cui è piacevole fare conversazione, ma sicura di sé, difficile da prendere per il naso. Gli occhi, azzurro intenso, avevano spesso un contorno dolce e rassicurante, senza l'ombra delle palpebre o di rughe sulla fronte, e irradiavano il viso di sincera fiducia; altre volte, invece, assumevano una forma leggermente più ovalizzata, con le palpebre a mezza altezza, come per indagare nel profondo l'interlocutore che aveva davanti. Le labbra erano sempre a forma di sorriso, ma se il più delle volte era bello e accattivante, altre si stringeva appena, in un ghigno ironico accentuato ancor di più dalle sopracciglia aggrottate. In quei casi dalla bocca potevano uscire commenti o domande taglienti, che quasi sempre colpivano nel segno. E se non parlava, la frecciatina arrivava dagli occhi. A guardarla bene, ci si poteva domandare se quel viso avesse mai conosciuto la tristezza, la rabbia, la delusione. Senza dubbio sì (nessun essere mortale può vivere un'intera vita senza provare mai tali sentimenti), ma la sua maschera era di quanto più resistente potesse esserci sul viso di una persona.
«Riposati e rilassati, qui sei al sicuro. Arriveremo a destinazione tra un paio d'ore» gli disse. «Non è lontanissimo il posto, ma il treno è lento e i binari un po' decrepiti. Avevo paura non arrivaste in tempo... anzi, arrivassi. Purtroppo, ci sei solo tu. Il Professore ha un appuntamento con il medico oggi pomeriggio e non può saltarlo, ma voleva assolutamente esserci al vostro... tuo arrivo.»
Gli fece l'occhiolino esibendo il suo bel sorriso. Poi aggrottò la fronte e gli lanciò lo sguardo indagatore. Colto alla sprovvista, Alberto rimase interdetto: ebbe la sensazione che lei sapesse chi fosse e cosa aveva fatto. Monica non parlò, ma lui lesse il suo pensiero su quel faccione. "Ti meriti questo? Ti meriti la marmellata di fragola?"
«Grazie» fu tutto quello che riuscì a risponderle.
Avrebbe voluto chiedere nuovamente il perché si trovasse lì, ma immaginava che la risposta sarebbe stata la stessa avuta fino a quel momento.
Dopo che fu uscita, finì la sua colazione, poi si sdraiò a pancia in su, coprendosi bene con la coperta e rincalzandosela accuratamente intorno. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
Dalle base del collo partì all'istante una scarica di brividi che, come lo srotolare di un mantello, scese fino alle caviglie, increspando tutto il corpo di pelle d'oca. La sensazione era meravigliosa. Respirò ancora e un'altra scarica, ancora più forte, lo investì. Le ferite pulsavano un po', soprattutto alla mano, ma mai dolore era stato tanto dolce come in quel momento. Vecchi ricordi gli tornarono alla mente, di quando, da bambino nel suo letto, provava quella sensazione, soprattutto in inverno o quando fuori scrosciava la pioggia, credendo d'avere un'invisibile barriera che lo avvolgesse come un campo di forza prodotto da lui stesso, per proteggerlo da tutto e da tutti.
"Provate a prendermi adesso, lupi del cazzo!" pensò, beandosi sempre di più nel calduccio che c'era sotto quelle coperte e nella morbidezza del timido materasso che aveva sotto la schiena.
Strofinava i piedi, uno contro l'altro, pensando a quanto erano stati bravi e assurdamente resistenti in tutto il lavoro che lui gli aveva richiesto di fare, sin dalla partenza dall'abbazia. Ora potevano godersi il meritato riposo. Se poi fosse veramente meritato... beh, aveva smesso di chiederselo e se lo godeva, a prescindere.
"Dove sei, Masi? Vieni a darmi venti bastonate ora, figlio di puttana!".
La nuova scarica fu più potente e quasi sobbalzò per la rapidità con cui arrivò, passando dal collo ai piedi e scaldandogli la pelle per un attimo.
Ripensò a quello che era successo quando l'orso stava per attaccarlo e, similmente, a quello accaduto mentre NC360 moriva.
Cos'era? Cosa significava tutto questo? Poteva essere solo una potente reazione conseguente alle fortissime emozioni provate, ma perché, prima di adesso, non gli era mai capitato?
Ogni dubbio evaporò nello stesso preciso momento in cui gli si formò un groppo in gola, al pensiero dell'amico morto, di cui non sapeva nemmeno il nome. Arrivò un'altra scarica, più tenue, dolce e leggera come le prime e, mentre cercava di capire cose che non era ancora in grado di comprendere, si addormentò profondamente.
Dopo la telefonata di Masi, Francesca ebbe nuovamente la forte tentazione di chiamare lo zio. Non sapeva bene nemmeno lei cosa potesse ottenere da lui e, soprattutto, pensava ancora fosse assurdo che quel vecchio uomo potesse centrare qualcosa con la fuga. Ma le coincidenze cominciavano a diventare un po' troppe.
Prima le aveva chiesto di assumere Fabio, il quale aveva aiutato due ergastolani a evadere, che a loro volta avevano deciso di scappare usando la vecchia ferrovia che, proprio suo zio, anni prima aveva comprato. Avrebbe dovuto chiamare Angelo Branduardi piuttosto, e proporgli di modificare il testo de "Alla fiera dell'est"! Un sorriso si affacciò timidamente sul suo volto ma si spense in un secondo.
Suo zio era sempre stato un uomo buono, ricco sfondato (e difficilmente si diventa così ricchi facendo sempre e solo cose oneste), ma non aveva mai negato a nessuno il proprio aiuto e tutti gli avevano sempre dimostrato, e ancora gli dimostravano, un sincero affetto.
Il fatto che le avesse chiesto di aiutare quel ragazzo esclusivamente perché aveva preso a cuore la sua difficile situazione, non era così tanto strano. Se costui poi, si era rivelato un falso, un traditore o quello che era, non per forza poteva essere colpa di Franco de Simone.
Ma perché? Cristo, perché? Questa domanda continuava a ronzarle nella testa. Perché un innocuo ragazzone, in apparenza "non finito de fa'" (citando la divertente espressione che usava una sua compagna di liceo marchigiana, quando prendeva in giro la professoressa d'inglese, una donna a cui necessitavano sempre due minuti più degli altri per capire un concetto), avrebbe aiutato due assassini a scappare di prigione? Quali motivazioni avrebbe mai potuto avere? Per quanto si scervellasse non le veniva in mente nessuna ragione plausibile.
E poi, perché proprio quei due? Li aveva scelti a caso? Poco credibile. Forse loro l'avevano costretto? I dettagli di com'erano fuggiti sembravano dimostrare il contrario. Allora doveva esserci per forza qualcuno che manovrava i fili da fuori. E per quanto non volesse, per quanto la cosa le creasse dolore, inevitabilmente tutto portava sempre e solo a suo zio. Dopo aver saputo poi che, almeno l'unico che ce l'aveva fatta, (lui, per fortuna!), era scappato usando proprio quella ferrovia...
Tutto questo prendendo per buone le illazioni di Masi. Quell'uomo era un sadico bastardo ma su certe cose difficilmente si sbagliava. Decise di aspettare il suo ritorno e sentire cosa le avrebbe raccontato.
Masi arrivò all'abbazia alle dieci e trenta esatte. Era sudato fradicio a causa del sole quasi primaverile che, posizionato in alto nel cielo, cominciava a spingere i suoi raggi sulla terra in maniera piuttosto prepotente, soprattutto per chi indossava un pesante giaccone e aveva percorso quasi quindici chilometri a un passo molto vicino alla corsa. Nonostante tutto, non aveva il fiatone. Si teneva in forma nel poco tempo libero; la dedizione che metteva nella cura del corpo andava di pari passo con quella che usava nel distribuire le punizioni ai prigionieri.
Era passato accanto alla guardiola occupata da Günther senza nemmeno degnarlo di uno sguardo e si era diretto di volata verso l'ufficio del direttore.
«Su, mi racconti tutto, per filo e per segno.» l'aveva subito incalzato lei, seduta alla sua scrivania intenta a scartabellare documenti, senza in realtà concludere nulla di concreto.
Lui raccontò gli eventi dell'intera mattinata, da quando avevano lasciato l'abbazia a quando era sceso dal ponte.
«Ed è convinto al cento per cento delle conclusioni a cui è giunto?» insisté lei, che cercava rassicurazioni su Alberto, ovviamente facendo in modo che Masi non se ne accorgesse.
«Se sostiene che ha visto i lupi trascinare qualcosa da lontano, come può essere sicuro che non stessero trascinando AR396? Lui scappa sul ponte, in un momento di panico improvviso. Il branco lo raggiunge sulla banchina e lo ritrascina in basso...»
«E gli levano il giaccone?» la interruppe Masi, con un'espressione a metà tra lo scettico e l'infastidito. «Direttore, si fidi di me. Non c'era sangue che proseguiva all'interno del bosco.»
Fece una pausa e si piazzò davanti alla finestra con le mani dietro la schiena.
«Qualcuno lo aspettava lassù, ne sono certo. Qualcuno d'accordo con Santini. Karl mi ha detto che quei binari sono ancora usati per il trasporto merci da diverse aziende, e terminano all'FDS.»
Si girò a fissarla e lo sguardo che gli sputò addosso poteva solo fa presumere che fosse arrivato alle sue stesse conclusioni.
«L'azienda di suo zio...»
Francesca non capì se avesse buttato fuori quella frase come a esternare i suoi sospetti o solamente come informazione aggiuntiva.
«C'è modo di sapere quali sono queste aziende?»
Francesca distolse lo sguardo. Aveva in testa il nome di Franco, ma qualcosa la frenava a parlarne davanti a quell'uomo.
«Mi sta nascondendo qualcosa, direttore?» Masi si avvicinò e le piantò dritto in faccia i suoi occhietti neri da squalo. Lei continuava a non fissarlo.
«Le devo ricordare che abbiamo un evaso, assassino, stupratore in libertà. Potrebbe venirgli voglia di ricommettere i suoi crimini... a quel punto, chi avrebbe le mani sporche di sangue, oltre a lui? Oppure potrebbe pentirsi, riconsegnarsi alla giustizia e spifferare tutto su questa sua fiorente attività. Scelga lei quali delle due alternative sarebbe peggio.»
Francesca alzò la testa di scatto. «Non le permetto di parlarmi in questo modo! Sono ben cosciente dei rischi che corriamo.»
Masi, più divertito che intimorito, arretrò di un passo e assunse una finta posizione di remissione.
«Le chiedo scusa direttore se sono stato insolente. Non era mia intenzione. È che tengo a questo posto come a lei. E tengo a lei, come tenevo a sua madre; cerco solo di proteggervi da qualsiasi rischio la faccenda può procurare.»
La donna aggrottò le sopracciglia. Quel discorso, uscito da quella bocca, suonava abbastanza stonato ma, purtroppo, aveva ragione. I motivi delle sue titubanze erano legati esclusivamente allo zio.
Non aveva rapporti con lui da un po' ormai, ma era stato una figura molto importante per lei, sostituendo il padre che non era riuscita a godersi. L'affetto che la legava all'unico parente prossimo che le era rimasto, non si era spento. Almeno da parte sua. Per quanto provasse delusione e rabbia al pensiero che potesse, in qualche modo, aver architettato qualcosa ai suoi danni e ai danni dell'abbazia, non era sicura di volerlo accusare di qualcosa che potesse nuocergli. Era un uomo molto anziano e, a quanto sapeva, malato.
Ma sull'altro piatto della bilancia c'era Alberto. Lo rivoleva. Non per bastonarlo, torturarlo, lasciarlo nelle grinfie di quel miserabile uomo che aveva davanti in quel momento (che, era certa, sbavava all'idea di fargli pagare l'affronto). No! Lei lo rivoleva nel suo letto, voleva tornare ad accucciarsi tra le sue braccia. E, inutile dirlo, il piatto pendeva parecchio di più da questa parte.
«Sì, quella linea è di mio zio. La comprò negli anni Sessanta, quand'era ferma e abbandonata dalla fine della guerra. Collega casa sua con il capannone della fabbrica, a valle. E poiché passa per vari paesi e varie zone in cui sorgono altre aziende, è diventata una linea per il trasporto di persone e merci. Dopo la chiusura della fabbrica, credevo avessero smesso di usarla, ma su questo non sono molto sicura. Non parlo con lui da parecchio.»
Gli occhi di Masi, per quanto neri, parvero brillare, solo per un momento. «Non è suo zio che le ha chiesto di assumere Santini?»
«Sì. Ma voglio che lei sappia che ritengo abbastanza improbabile che sia coinvolto in qualcosa. Non sarebbe nel suo stile, glielo assicuro. Credo che stiamo ingigantendo la cosa. Abbiamo due detenuti evasi, aiutati da una guardia. Forse gli hanno promesso dei soldi, chi lo sa. Comunque... due sono morti e il problema è risolto. Per quanto riguarda il terzo, se veramente è ancora vivo, lo troveremo. Non credo che voglia farsi riprendere, e se spiffera, torna dentro» concluse.
«Molto bene. La prossima mossa?»
«Me ne occupo io. Lei torni al suo lavoro e non si preoccupi.»
«Direttore, è sicura...»
«Lei non si preoccupi, le ho detto!»
Karl arrivò una buona mezz'ora dopo, distrutto dalla fatica.
Quando aveva appurato che il tedesco non teneva il suo passo, Masi l'aveva pesantemente insultato e lasciato indietro, cosa che a Karl in fondo non era dispiaciuta. Aveva potuto proseguire con la sua andatura, fermandosi ogni tanto a riprender fiato, stando attento comunque a non tardare troppo, per non scatenare una inevitabile nuova scarica di insulti contro di lui.
Entrò nel salone proprio mentre Masi scendeva dalla scalinata con l'aria irritata; era difficile capire se fosse a causa del colloquio che, immaginava, avesse appena avuto col direttore, perché l'espressione sul viso di quell'uomo era in pratica sempre arcigna.
«Alla buon'ora! Ti sei fermato a farti una chiavata con Heidi?» gli disse, sarcastico, dirigendosi a passo spedito verso la Cava.
Il treno si arrestò.
La leggera frenata riscosse un poco Alberto che aprì gli occhi e si guardò intorno per una manciata di secondi, cercando di ricordare dove si trovasse. L'eco dello sbuffo del treno risuonava appena nelle sue orecchie.
La porta dello scompartimento si aprì.
«Sveglia, dormiglione! Siamo arrivati.»
Monica gli porse un giaccone rosso e un paio di stivali.
I fumi del sonno si stavano diradando e, nonostante avesse ancora bisogno di riposo, Alberto si alzò, infreddolito più dalla stanchezza che dal clima; si vestì e la seguì, scendendo dal vagone. Il dolore alla mano pulsava e vide che sul bendaggio c'erano delle chiazze di sangue.
Seppure ci fosse bisogno del cappotto, l'aria era decisamente più calda di quella che aveva patito nel canalone. Erano più a valle, anche se le vette che li circondavano suggerivano un'altitudine ancora abbastanza importante, e il sole, alto nel cielo, avvertiva tutti che entro pochi giorni iniziava la primavera.
Si guardò attorno, a bocca aperta. Conosceva quel posto ma, fino a quel momento, l'aveva visto solo in fotografia.
La corona di montagna circondava un grande spazio verde di forma quasi ovale che, se da un lato, quello da cui erano giunti, presentava due strette gole parallele da cui sbucavano il fiume e i binari, dall'altra era completamente chiusa dalle rocce, tranne che per un angusto passaggio nel quale lo stesso fiume, dopo essersi riposato in una dolce e tranquilla navigazione lungo la vallata, si gettava a capofitto, formando quella che dal rumore sembrava un'importante cascata (dalla sua posizione non riusciva a vederla).
I binari tagliavano il prato lasciandone un pezzetto vuoto alle loro spalle, per poi svoltare a sinistra, dove, arcuando all'indietro, si ricongiungevano con il primo tratto. A destra, circa a metà del rettilineo, una piccola porzione di rotaie portava a una piccola costruzione dove, senza fretta, in retromarcia, stava rientrando il trenino dal quale era appena sceso.
Alberto fissava la scena perplesso.
«Chi guida il treno? Non mi pareva ci fosse qualcun altro a bordo!»
«Franco de Simone non ha bisogno di autisti per i suoi treni!» rispose la donna, facendo l'occhiolino.
La rimessa era la prima e decisamente la più piccola edificazione di una fila di tre.
Quella di mezzo era una baita su due piani, grande quanto un albergo, molto carina e ben curata, con i tipici balconi fioriti della zona.
L'ultima costruzione era la più grande e la più stonata del luogo. Era fondamentalmente un enorme capannone, di quelli che si possono vedere nelle zone industriali delle città e che in genere ospitano magazzini, officine e uffici. In larghezza arrivava a lambire la riva del fiume; in lunghezza quasi toccava l'estremità della valle, parendo quasi appoggiato alla parete che la chiudeva. Ma l'imponenza maggiore la dava l'altezza. Alberto stimò che, a occhio e croce, raggiungesse i quindici metri solo lo stabile. Sul tetto, poi, svettava una torretta cilindrica, alta pressappoco una decina di ulteriori metri, completamente di cemento tranne che per la parte in alto, circondata da vetrate scure. Una grossa antenna fatta a stella completava l'opera.
Per quanto avesse visto quel casermone più volte sui giornali o in televisione, dal vivo aveva tutto un altro aspetto e effetto. Tra la baita e il fiume, infine, c'era uno spiazzo di cemento, riconoscibile come pista d'atterraggio per elicotteri, mezzo, a quanto pareva, usato dal vecchio.
«La famosa FDS!» esclamò, meravigliato, quanto ancora un po' intontito.
Monica lo guardò e sorrise. «La Fortezza delle Scienze!»
Vide lo sguardo perplesso di Alberto e i suoi occhi, in quel momento gioviali, si spalancarono ancora di più, seguiti dal sorriso.
«Non farci caso. Il Professore era un patito del Grande Mazinga negli anni Settanta, se sai di cosa parlo.»
«Sì, conosco il cartone animato, anche se non l'ho mai visto. Sono della generazione post robot. Più Holly e Benji, per intenderci.»
Si guardò ancora intorno, estasiato. Per quanto non si fosse mai interessato particolarmente alle vicissitudini di quell'azienda e non avesse interessi per i campi in cui aveva spaziato, vederla coi propri occhi aveva comunque un certo fascino. Il tutto spruzzato dall'inquietante curiosità di sapere perché si trovasse lì.
"La Fortezza delle Scienze!" Già aveva carpito un piccolo segreto che in pochi, probabilmente, conoscevano. "La Fortezza delle Scienze..."
«Aspetta! FDS! Credevo fosse l'acronimo di Franco de Simone!» disse, d'un tratto.
«Sì, sì. All'inizio era così. E per tutti lo è sempre stato. Ma al Professore piace giocare... Questa è la sua fabbrica, la sua azienda, tutta la sua vita. Era un grande uomo. Scusami... È un grande uomo, uno che si è fatto da solo, è diventato miliardario e ha migliorato la vita a tutti, dando lavoro e futuro a tanta gente. E mai, e sottolineo il mai, ha preteso un minuto di straordinario dai suoi dipendenti, o che lavorassero il sabato e la domenica o che rinunciassero una volta alle loro vacanze, nonostante la mole di lavoro che si è sempre sobbarcato. "Se rimanete di più è perché lo volete voi." diceva sempre ai suoi ragazzi. "Ma non voglio che togliate tempo e spazio alle vostre famiglie e alla vostra vita. Non ce ne sarà un'altra. I nostri giochini possono aspettare!" Odiava, anzi disprezzava i datori di lavoro che ritenevano di pretendere che i propri dipendenti restassero a lavorare anche dopo la fine dell'orario e, personalmente, sono sempre stata d'accordo con lui. Non era molto amato per questo, dagli altri capi. Rispettato, certo! Ma in pochi condividevano la visione che aveva su come si dovevano gestire i dipendenti.»
Alberto annuiva. «Conosco la situazione. L'ho un po' subita anch'io nella mia breve esperienza lavorativa.»
Lei gli stampò uno dei suoi sguardi enigmatici.
«Ora è malato e vuole assolutamente adempiere al suo dovere prima di morire. Ha sprecato tanto tempo, rimandando... E adesso ha il terrore che sia troppo tardi. Non ha preso molto bene la notizia della morte di Fabio e del tuo amico.»
«E come fa a saperlo?»
Monica sfilò un telefonino dalla tasca, sorridendogli a trentadue denti. «Ho dovuto avvertirlo subito, appena siamo partiti dal ponte. La pazienza non è una sua virtù!»
«Aspetta! Ma di che dovere parli? Di cosa...
«Tut, tut! Non sono io la persona adatta alle spiegazioni. Come vanno le tue ferite? Fammi vedere la mano. Mmm, la fasciatura va cambiata. Ti fa male?»
«Un po', ma non troppo.»
«E schiena e caviglia?»
«Stanno bene!»
«Un'ultima cosa... Credo tu non lo sappia... In fondo, perché dovresti? Comunque, Franco è lo zio del tuo ex direttore. La signora Antonella de Simone, fondatrice dell'abbazia da dove provieni, era sua sorella. Era giusto tu lo sapessi.»
Alberto la fissò, senza dire nulla, elaborando nella mente l'informazione. Monica sorrise.
«Perfetto!» disse, prendendo il suo silenzio come prova che aveva capito. «Vieni. Entriamo. Ci sta aspettando.»
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