14 - UN UOMO SOLO (1)
Qualcosa grugniva e grufolava fuori dal capanno.
NC360 aprì gli occhi e guardò l'ora. Le tre.
«Cazzo! Mi sono addormentato.»
Un'ondata di panico lo assalì. Lo schiocco di un ramo spezzato svuotò le sue orecchie anche delle ultime gocce di sonno rimaste, e un'ombra passò davanti alla porta chiusa.
Trattenne il respiro, sperando di non aver pronunciato la sua esternazione a voce troppo alta.
Alberto dormiva ancora, con un respiro profondo e silenzioso. Per fortuna non russava. Doveva essere talmente stanco da essere praticamente svenuto.
La misteriosa presenza si era fermata davanti alla porta; sembrava stesse annusando il terreno e, dall'ombra che la luce lunare spingeva a fatica tra i tanti, piccoli pertugi della vecchia porta del capanno, sembrava molto grossa. Una figura si stagliò nella mente di NC360, la figura di un animale che credeva non esserci da quelle parti.
"Dai, scemo! Forse è solo un cervo." Ma i cervi non grugnivano a quel modo, che lui sapesse.
Provò a sbirciare tra le fessure della parete ma riusciva a scorgere solo una minima parte della radura, appena illuminata dalla luna.
L'ombra si era spostata, ma all'improvviso ripassò davanti al capanno, sostando nuovamente. NC360 si tirò indietro di scatto e rimase immobile. L'animale respirava in modo pesante e annusava, sbuffando ed emettendo piccoli grugniti. Ruggì appena e cominciò a scavare sotto la porta, colpendola più e più volte.
Alberto si lamentò nel sonno, ma continuò a tenere gli occhi chiusi e a dormire, in apparenza, sereno.
L'animale raspava e rugliava, frenetico, grattando il terreno e la porta, chiusa solamente da un asse di legno infilata in un'asola arrugginita. NC360, impietrito dal terrore, guardava la porta che presto avrebbe ceduto, poi fissò Alberto, poi di nuovo la porta, sentendosi impotente, in balia del destino che, sotto forma di grosso animale (no, non era certamente un cervo!), stava venendo a chiedere il conto finale. Pensò a sua figlia, a quello che non le aveva mai detto e a quello che voleva ancora dirle; pensò a sua moglie e a ciò che le aveva fatto passare, ai momenti di disperazione che le aveva causato (e che, forse, ancora le causava); pensò ai compagni rimasti all'abbazia e alle angherie che avrebbero continuato a subire. Ebbe un pensiero persino per Fabio, morto probabilmente, per farli evadere.
Ma, soprattutto, pensava a lei, la donna a cui aveva distrutto la vita, ealla (supplica) promessa che le aveva fatto...
"Col cazzo!" pensò.
Aveva intenzione di saldare i suoi errori e non poteva finire tutto in un modo così passivo, dentro a una misera capanna marcia, aspettando che qualcosa entrasse a dilaniarlo.
Agì d'istinto. Colpì la porta con un calcio, cercando di imitare lo stesso grugnito che proveniva da fuori, ma più profondo e più roco. La bestia si fermò. Emise un sommesso lamento e annusò ancora un paio di volte la porta, poi si allontanò. NC360 sbirciò dalla fessura e vide appena una grossa massa camminare nella radura e sparire subito dalla vista.
Rimase in ascolto per diversi minuti, tendendo le orecchie e cercando di cogliere ogni minimo fruscio, ma sul bosco sembrava essere ripiombato il silenzio più totale. Riguardò l'orologio, sperando che lo spavento gli avesse annebbiato la vista, ma le lancette, impietose, confermarono che si era addormentato ed era molto, molto tardi, almeno per la tabella di marcia che si erano imposti.
Alberto non si era quasi mosso, nemmeno durante il tentativo d'attacco dell'animale. Si era fatto quasi cinque ore di sonno profondo; ritenne quindi si fosse riposato abbastanza.
Decise di fare un veloce controllo all'esterno, poi l'avrebbe svegliato e si sarebbero rimessi, senza più indugi e soste, in marcia. Erano in fuga da circa sette ore, sette ore di vantaggio sull'abbazia che ancora sonnecchiava ignara, come un'aquila nel suo nido, sul picco di una montagna. Cinque ore però, le avevano sprecate dormendo. Alberto ne aveva bisogno, non ce l'avrebbe fatta a proseguire, ma la realtà dei fatti era quella. Si sentiva ancora terribilmente troppo vicino ai tentacoli del direttore e di Pietro Masi, alla loro perfida malvagità che, da lì a poco, si sarebbe risvegliata e sarebbe diventata vera furia.
Aprì cauto la porta e uscì, scavalcando la buca scavata dall'animale.
La radura era vuota, immobile, silenziosa. Ripensò all'ululato che avevano sentito e a Fabio. Non sapeva dove fosse il ragazzo che li aveva aiutati in tutto e per tutto, ma quell'urlo... era la sua voce, ne era certo. Nella sua mente si formò l'immagine del suo corpo sbranato, lasciato a marcire in mezzo al bosco che sembrava aver assorbito tutta la cattiveria che l'abbazia irradiava da quarant'anni. Rabbrividì e tutti i peli del suo corpo si rizzarono.
Avanzò di qualche passo, fermandosi davanti alla catasta di legni marci, guardandosi circospetto intorno.
Poi, dal nulla, come materializzatosi per magia, udì qualcosa di enorme correre verso di lui, da destra.
Fece solo in tempo a girarsi prima che l'orso gli balzasse addosso, atterrandolo e piantandogli i grossi artigli nelle spalle.
Respirò a pieno il tanfo di carne morta che veniva dalla bocca dell'animale, mentre cominciava a mordergli la faccia.
Un urlo soffocato svegliò Alberto.
Si ritrovò a occhi spalancati, a fissare l'oscurità intorno a lui, incapace di ricordare dove si trovasse.
Un altro grido, simile più a un verso gorgogliante, riempì le anguste pareti. Girò la testa e vide la porta accostata. Si rizzò seduto, sbattendo le palpebre, e la sua mente si aprì all'improvviso: "abbazia, Francesca, fuga, treno, Fabio... NC360".
Dov'era il suo amico?
Stavolta l'urlo fu forte, ma secco e soffocato, e spaventosamente vicino. Si alzò, aprì la porta e il terrore di quello che vide lo investì in pieno.
Un gigantesco orso, vicino alla catasta di legna, gli dava le spalle, chino sopra a un fagotto che si muoveva appena. Era un uomo, e lo stava... mangiando! Riconobbe le scarpe, i sacchetti che le coprivano e il colore dei pantaloni.
Non rifletté nemmeno un secondo; d'istinto raccolse uno dei rami da un angolo del capanno e si avventò contro la bestia urlando, consapevole di rischiare seriamente che l'orso cambiasse obiettivo in fretta.
L'animale tirò su il muso insanguinato, si girò sorpreso e fu colpito in pieno, in mezzo agli occhi. Grugnendo dal dolore e dallo spavento inaspettato, indietreggiò, inciampando nella sua preda e andando a sbattere contro la catasta. Un grosso tronco mezzo marcio si spostò e rotolò sulla sua zampa. L'orso emise un forte lamento di dolore e si allontanò, sparendo tra gli alberi.
Alberto s'inginocchiò subito vicino a NC360 e capì all'istante che avrebbe proseguito il viaggio da solo. L'orso l'aveva dilaniato.
La faccia era una maschera di sangue che colava, pulsando, dal buco che aveva al posto del naso. Il giaccone era tutto strappato e bagnato di rosso anch'esso. Tra gli squarci si intravedeva la carne maciullata delle spalle e del petto. Aveva un braccio girato in una posizione innaturale e la mano a cui mancavano due dita.
Era ancora vivo; respirava a fatica ed emetteva un sordo e continuo lamento. Gli occhi di Alberto si riempirono di lacrime nel vederlo. Voleva aiutarlo, fare qualcosa, ma non sapeva dove mettere le mani. NC360 tossì violentemente, vomitando un fiotto di sangue. Aprì gli occhi e li fissò su di lui, vuoti. Si aggrappò alla sua giacca con la mano sana e cercò di trascinarlo su di lui. Alberto si abbassò.
«Mia fi...»
Un nuovo accesso di tosse lo investì, facendogli sputare altro sangue.
«Mia figlia...» sussurrò, con la voce ridotta a un filo, impercettibile. Alberto gli accarezzò i capelli.
«Dille... che... dispiace...»
«Glielo dirò. Te lo prometto.»
Due scintille rosse brillarono negli occhi di NC360, vivide, che si confondevano quasi col sangue che colorava il volto martoriato. Alberto d'un tratto sentì una scarica attraversargli il corpo; si lasciò cadere all'indietro e rimase seduto, attraversato dalla sensazione che tutta la pelle stesse friggendo.
In un attimo, tutto cessò.
Si rialzò e si avvicinò all'amico. Non respirava più. Gli occhi erano rimasti aperti, ma non brillava più nessuna luce in essi.
«Fa' un buon viaggio, amico mio. Spero che chiunque ci sia ad accoglierti, di là, ti permetta di lasciare le tue colpe in questo schifo di mondo e di riposare in pace.»
Aveva la voce incrinata e proferì quelle parole quasi senza pensarle. Venivano dal cuore, dal cuore di un uomo sempre più nuovo.
Gli chiuse gli occhi e rimase un minuto accanto a lui, tenendogli la mano sul petto. Il suo amico era morto senza dirgli il suo vero nome.
In lontananza echeggiò di nuovo l'ululato.
Il terzo suono svegliò Francesca.
Aprì gli occhi, seccata. Riconobbe subito il campanello del portone d'ingresso. Recuperò il telefono dal comodino e guardò l'ora: le 4.33. Era la seconda volta, nel giro di poche ore che veniva disturbata da quel trillo.
"Che cacchio combina René, stasera?" pensò, saltando giù dal letto. "Bisogna che ci faccia due chiacchiere, prima o poi!"
Il campanello suonò ancora, ma questa volta seguito da colpi forti, che rimbombando nella vasta sala, giungevano chiari fino a lei.
S'infilò le pantofole sbuffando, si allacciò la vestaglia, spalancò la porta, attraversò il salotto di gran carriera e uscì, appoggiando le mani alla fredda ringhiera della balconata. La sala, sotto di lei era avvolta nell'oscurità totale.
«René!» chiamò. «Mi spieghi cosa stai facendo?»
Ci fu un ulteriore trillo, e l'eco, mescolandosi a quella della sua voce, si perse nel buio, rendendo il tutto molto spettrale.
I colpi alla porta erano sempre più forti e insistenti. Dall'altro lato giungevano delle voci.
«Che caspita succede!»
Tastò con la mano il muro dietro di lei e trovò l'interruttore vicino alla porta del suo ufficio. Il grosso lampadario effuse subito la sua luce. Scese le scale con un misto di rabbia e ansia che le salivano in gola.
La guardiola era vuota. Sul tavolo c'erano un mazzo di chiavi e un paio di manette. Un'orrenda sensazione la colpì d'improvviso.
Aprì il portone e l'aria gelida l'avvolse, dirigendosi soprattutto sulle caviglie e i piedi nudi, infilati nelle pantofole.
Davanti a lei c'erano quattro uomini, illuminati dalla luce gialla della lampada alogena montata sul muro esterno. Avevano le facce stravolte, ma le loro espressioni mutarono in stupore quando riconobbero chi aveva aperto.
«Direttore...» Masi la squadrò dalla testa ai piedi. «Mi scusi. Che succede? Dov'è René?»
«È quello che vorrei sapere anch'io! La guardiola è vuota» rispose acida, scostandosi per farli entrare.
«Come sarebbe vuota?» Masi non credeva ai suoi occhi, mentre entrava di gran carriera, costringendo Francesca a spostarsi per lasciarlo passare.
«Che sia in bagno?» disse uno degli altri uomini.
«Si assenta solo per pochi minuti in genere e mai quando sa che stiamo per arrivare. Queste?»
Aveva sollevato le chiavi e le manette e le sventolava davanti alla faccia di Francesca e degli altri uomini. «Qui è successo qualcosa.»
La donna spalancò gli occhi. «I prigionieri! Correte a controllare, presto!»
«C'è Fabio giù nei sotterranei...» disse la stessa guardia che aveva parlato poco prima.
Masi imprecò e si precipitò alla scala che portava di sotto, seguito dai colleghi. Sapeva già cosa avrebbe trovato e chi non avrebbe trovato. Il tavolino dell'incaricato alla sorveglianza notturna era vuoto, ma tutte le sette porte delle celle erano chiuse, come solito. Il capitano si fermò, contemplando la scena e digrignando i denti. Serrò il pugno in cui teneva il mazzo di chiavi appartenuto alla guardia Fabio Santini.
"Pezzo di merda!" pensò, ruggendo.
Dall'ultima cella in fondo provenivano strani grugniti. La guardia si girò verso gli altri tre uomini, immobili, a bocca aperta, lenti a comprendere cosa fosse successo.
«Suonate la sirena e aprite queste cazzo di porte, imbecilli!»
Fecero uscire i prigionieri e li allinearono in fila. Masi entrò nell'ultima cella e ne trovò uno, sdraiato sul giaciglio di pietra, legato come un salame con un sacchetto in testa, che si dimenava. Gli scoprì la faccia e guardò René, sorridendo. Aveva il naso incrostato di sangue.
«Ti sei fatto fregare da un maiale?» gli disse, scuotendo la testa.
L'uomo lo guardò e bofonchiò qualcosa di incomprensibile con la bocca tappata dal nastro.
«Dovrei lasciarti qui, sporco e miserabile ubriacone!» Strappò via il nastro.
«Dov'è quella palla di merda? Dove si è nascosto?»
«Se n'è andato, coglione!»
Gli occhi colmi di disprezzo con cui Masi squadrava René, lo spaventarono. Nonostante l'atteggiamento canzonatorio che teneva spesso durante i suoi turni di guardia, aveva sempre avuto paura di quell'uomo.
«Capitano!» Masi si voltò. «Ci sono quindici prigionieri. Ne mancano due all'appello.»
«E si è portato via due amichetti, a quanto pare!» concluse, ripuntando gli occhietti neri in quelli stanchi e pieni di vergogna di René.
«Dovete trovarli e riportarli subito qui! Chiaro?»
Le urla del direttore Francesca Fontana riecheggiavano per tutta l'abbazia. Camminava avanti e indietro nella sala e sembrava sull'orlo di una pesante crisi isterica. Masi era ritto, in piedi davanti a lei, a bocca chiusa, ma la fissava senza abbassare mai lo sguardo.
«È una sua responsabilità, Masi. Come capo del servizio di sorveglianza è pagato, e non poco, per assicurarsi che i prigionieri escano ed entrino dalle loro celle quando decidiamo noi, e non quando vogliono loro.» Si fermò dirimpetto a lui. «Li rivoglio qui, tutti e due, entro l'ora di pranzo. Vivi.»
«E per quanto riguarda Santini?»
«È complice nell'evasione di due ergastolani. Sarebbe perseguibile penalmente, in teoria...» Sorrise. «Peccato che noi non possiamo denunciare nessuno. Trovi anche lui capitano, e lo porti da me.»
Gli si fece sotto, fissandolo con intensità. Le narici di Masi furono investite dall'odore ammaliante della donna e i suoi occhi neri furono attraversati da un lampo di libidine.
«Incolume!» proseguì Francesca, senza accorgersi di nulla. «Voglio capire il perché di tutto questo.»
Alzò davanti al suo viso le manette. «Faccia annusare queste ad Astra. La porterà da chi le ha indossate qualche ora fa.»
Si rivolse poi verso René, che stava appoggiato al vetro della guardiola, tamponandosi il naso con uno straccio bagnato.
«Tu, sei licenziato!»
L'uomo abbassò la mano con il panno e rimase impietrito per qualche secondo. «Ma... direttore...»
«Vignoli!»
La vecchia guardia che aveva accolto Alberto al suo arrivo, insieme a Masi e Fabio, si fece avanti.
«Lo sostituirà lei per il momento, finché non ne troviamo un altro. Oggi faccia il suo normale turno, da domani inizierà la nuova mansione. È un problema?»
L'uomo abbassò il capo. «Assolutamente no, direttore.»
René si fece avanti. «Direttore, senta...»
Francesca si girò e salì le scale. Giunta in cima, si fermò e ripiantò gli occhi di nuovo su Masi, ignorando del tutto l'altro uomo, rimasto immobile, a fissarla a bocca aperta.
«È inutile che le ricordi quanto sia essenziale ritrovare quei tre, vero? Se anche uno solo parlasse, tutto il castello crollerebbe. Il castello che mia madre ha costruito, con fatica.»
Si diresse verso il suo ufficio. «Qualcuno resterebbe sotto le macerie.» Aprì la porta e, dall'alto, lo fulminò. «Se lo ricordi.»
Entrò e chiuse la porta.
Masi fremeva di rabbia e fulminò René con lo sguardo.
«L'hai sentita vero? Te ne puoi andare a fanculo! E TU CHE CAZZO HAI DA RIDERE?»
Si rivolse a uno dei prigionieri, allineati e ammanettati in mezzo alla sala. Avevano assistito a tutta la scena, godendo di nascosto nel vedere il loro odiato aguzzino rimproverato come un bambino sorpreso con le dita dentro al barattolo di marmellata. Uno di loro, però, non era riuscito a nascondere la propria soddisfazione e l'aveva fatta affiorare sulle labbra. Masi fece partire il manganello, indirizzandolo proprio in quel punto. Entrambe le due strisce rosse di carne si spaccarono, insieme a due dei denti che proteggevano. Il prigioniero si piegò in avanti cacciando un urlo.
«Ti consiglio di tirarti su subito, dritto e zitto, altrimenti ti sbriciolo entrambe le ginocchia, lurido pezzo di merda! Vignoli!»
Il vecchio si fece ancora avanti.
«Chiama e fai venire subito qui Burci, Peri e Masotti! Tu e Antonio rimarrete qui tutto il giorno, a fare sorveglianza a questa feccia. Voglio che spacchino pietre da adesso fino alle diciassette, senza soste, senza cibo. Ti autorizzo alla massima violenza per ogni sgarro. Pagheranno anche per quei due stronzi che se la sono svignata. E quando li acciufferò, e succederà, mostrerò a tutti qual è lo scotto da pagare per chi prova a far fesso Pietro Masi.»
«Agli ordini, capitano!»
Si allontanò un poco mentre telefonava ad Antonio Burci per comunicargli che sia lui, sia le altre due guardie non di turno, avevano finito di dormire.
Masi si girò verso l'uscita, con le manette in mano. «Voi due con me!» disse alle altre due guardie.
«Forse ti piacerebbe sapere perché quelle manette sono qui e perché possono condurti a quei tre!»
René, fermo ancora ai piedi della scala, lo fissava. Tremava di soggezione, come ogni volta che aveva dovuto rivolgere la parola a quell'uomo, ma stavolta sentiva anche una profonda rabbia che gli covava dentro, dovuta a quella che lui riteneva una vera e propria ingiustizia.
Masi si voltò e lo squadrò, piantandogli in faccia i suoi due occhi neri.
«La troia se la faceva con l'ultimo arrivato ed era il ciccione che glielo portava là, ogni volta.»
Il capitano estrasse il manganello e si avventò sull'ex guardiano. René, deglutendo, non si mosse.
«Come osi insultare il direttore? Di cosa stai parlando?»
«Del fatto che il direttore si scopa i detenuti. Questo è il quarto o il quinto, da quando sua madre è morta. Ogni volta si trova un complice tra le guardie, incaricato di portarle su l'uccello di turno, in genere verso le 19, quando tu te ne sei già andato a casa. E ovviamente, alla stessa guardia è consigliato il silenzio, così come a me, che mi son sempre trovato coinvolto nella cosa, vista la posizione in cui lavoro... lavoravo.»
Girò la testa verso la porta chiusa, nella balconata sopra di loro.
«La prima guardia fu quella che hai portato nel bosco insieme a quel vecchio ergastolano moribondo. Te lo ricordi? Sei ritornato da solo, quella sera. Ho capito subito che senza dubbio l'aveva ricattata. E sappiamo tutti che fine si fa a tradire Francesca Fontana. Poi c'è stato Baroni che ha svolto il suo dovere in maniera ligia finché non è morto. Adesso era il turno di Fabio il ciccione.»
«Burci, Peri e Masotti stanno arrivando, capitano.» disse Vignoli, dopo aver chiuso la telefonata. «Voi altri, camminare!» Batté il manganello nella schiena del primo prigioniero e questi si mosse, seguito dagli altri.
Masi era immobile con il manganello in mano e guardava con disgusto la bocca di René sputare gocce di saliva, mentre gli dava quelle informazioni che stavano agendo come veleno, dentro di lui.
«Aspetta Burci prima di togliere le manette a quegli stronzi» gridò a Vignoli, già avviato verso la Cava.
Masi ricordava bene l'uomo che aveva lasciato legato a un albero. Era la prima volta che una guardia veniva sacrificata ad Astra e al suo branco, dopo tanti prigionieri. Francesca gli aveva raccontato che aveva minacciato di spifferare a tutti le attività dell'abbazia. A quanto pare, gli aveva mentito! Dopo tutti quegli anni di fedele servizio. E, addirittura, si scopava avanzi di galera, assassini, stupratori, quando aveva rifiutato un uomo come lui. Si era messo in imbarazzo per lei, per la prima e unica volta nella sua vita. E Baroni? Anche lui era stato complice di quella donna. L'unico amico che aveva avuto, l'unica persona per cui aveva sempre nutrito rispetto e che si era meritato le uniche lacrime della sua vita, il giorno della sua morte. Anche lui l'aveva tradito. Prendendo per buone le parole di quell'ubriacone pieno di rancore che aveva davanti, ovviamente! Ma, se René avesse dovuto scegliere un momento per mentire, Masi era certo che non sarebbe tato quello.
Sentiva la rabbia montargli dentro, inarrestabile, come sempre. La tentazione di usare il manganello su tutti quelli presenti in quella sala era forte; poi sarebbe salito dalla stronza e l'avrebbe massacrata, come meritava. Ma s'impose di calmarsi. Il momento di fare i conti sarebbe arrivato per tutti. E non era quello.
«Molto bene» disse, infilando il bastone nella fondina. «Grazie dell'informazione. Ora ti puoi levare dalle palle!»
Si girò e si avviò verso i due colleghi che lo attendevano alla porta, ma si arrestò di colpo.
«A che ora sei stato aggredito?» chiese, rigirandosi verso René.
L'uomo ci pensò un momento. «Non lo so di preciso. Poco dopo le diciotto, direi.»
«Quindi non mi hai aperto tu, quando son tornato a riprendere l'orologio.»
René, perplesso, scosse la testa.
Masi guardò l'ora. «Alle 19.15 erano ancora qui. Presumo che al tuo posto ci fosse NC360. Santini era sicuramente giù a far finta di fare il suo turno di guardia. E l'altro era su a divertirsi. L'hanno dovuto aspettare, altrimenti il direttore avrebbe scoperto subito che se ne erano andati. Così invece, hanno otto ore di vantaggio, se AR396 è rimasto a intingere la penna nel calamaio fino alle 21.»
René aveva lo sguardo di chi non aveva ben capito cosa stesse dicendo.
In quel momento suonò il campanello. Una delle due guardie aprì il portone.
«È Günther.»
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