3 - LE BOLLE (2)
Veronica corse verso l'entrata del condominio; la porta era spalancata. Abitavano al secondo piano, ma non prendeva mai l'ascensore; come d'abitudine, quindi, iniziò a salire le scale. Al primo piano svoltò l'angolo percorrendo il breve corridoio che lo univa alle scale che portavano di sopra.
Una donna era ferma, in piedi davanti alla porta aperta del proprio appartamento: era scalza e la fissava. Veronica trasalì per la sorpresa.
«Ciao, Dalila...» le disse titubante, fissandola un secondo, per poi proseguire. La donna non rispose.
Aveva sempre provato un misto di paura e compassione per quella persona. Circa cinque anni prima, un pazzo aveva ucciso suo marito, sua figlia e altra gente, in una chiesa durante la celebrazione della messa. Così almeno le avevano raccontato i suoi genitori. Da allora si era chiusa in sé stessa, non usciva di casa quasi mai e quelle poche volte che l'aveva incontrata non aveva spiccicato una parola.
Arrivò al suo appartamento, l'aprì ed entrò.
Non si accorse che, proprio in quel momento, da quella strana luce arancione che sovrastava il centro di Bologna, cominciarono a dipanarsi infiniti rami in infinite direzioni; milioni di piccole scie dirette ovunque. In un attimo il cielo divenne una rete a fittissime maglie, una rete color arancio vivo.
Il telefono di Riccardo era sul tavolo della sala, ma Veronica non lo vide subito; andò prima a cercare nello studio, dove di solito lo lasciava.
Sentì il vociare di fuori crescere all'improvviso. Le discussioni sul restare o sull'andare evidentemente si stavano accalorando, pensò. La faccia di Max riempì subito i suoi pensieri e un mezzo sorriso apparve sulle sue labbra.
Non trovando il telefono guardò in camera: magari era rimasto sul comodino, durante il riposo pomeridiano che, quel giorno, era stato bruscamente interrotto. Nulla.
Tornò in sala mentre le voci fuori rasentavano il grido vero e proprio. "Ma che fanno? Si scannano?" suppose, con una punta d'amarezza. Ebbe la tentazione di andare alla finestra e assistere alle discussioni che la sua mente si era figurata, ma vide il telefono, se lo mise in tasca e si avviò verso l'uscita.
Si bloccò, mentre afferrava la maniglia.
C'era qualcosa di strano intorno a lei. Stette ferma, davanti alla porta ancora chiusa, immobile, forse trenta secondi. Un brivido le corse giù per la schiena, inseguito da una goccia di sudore, non provocata dal caldo torrido. Cosa stava succedendo? Perché le sue gambe non volevano muoversi? Poi, capì. Era il silenzio.
All'improvviso non si sentiva più volare una mosca, lo stridio di voci all'esterno era sparito. Girò la testa verso la finestra. «Cosa succede?» sussurrò. Impose ai suoi piedi di staccarsi dal pavimento e, lentamente, si avvicinò alle vetrate che avevano lasciato a ribalta. Scostò la tenda e le si ghiacciò il sangue nelle vene!
Una cupola arancione copriva tutto lo spiazzo, una cupola che sembrava una mezza bolla di sapone, trasparente. Con la coda dell'occhio ne scorse un'altra, al di là della strada, semicoperta da un palazzo un po' più basso del suo. Il cielo era solcato di strisce del medesimo colore, alcune sbiadite che si stavano dissolvendo, altre che si formavano in quel momento. Ma cosa le stesse formando, non riuscì a capirlo.
All'interno della cupola vide molte delle persone che solo qualche minuto prima stavano discutendo con fervore intorno a lei. Erano ferme, in piedi, le braccia inerti lungo i fianchi, la testa assurdamente rovesciata all'indietro, la bocca aperta che non emetteva alcun suono, lo sguardo perso nel vuoto, rivolto al cielo.
Di fianco alla cupola, a far da sentinella, c'era un uomo più alto del normale, forse due metri e venti, viola dalla testa ai piedi.
Al posto della faccia aveva uno SMILE.
Veronica corse nello studio e aprì di scatto il primo cassetto della scrivania, richiudendolo all'istante. Ripeté l'operazione con gli altri tre cassetti.
«Dov'è? Dov'è?»
Le gambe le tremavano e il cuore martellava all'impazzata.
«È sempre stato qui...»
Spalancò l'armadio ripieno di raccoglitori, libri, vecchie riviste, cartucce per la stampante, risme di carta. Ma non trovò quello che cercava. Sentì le lacrime affacciarsi alla base degli occhi.
«Dove l'hai messo papà?»
Corse in camera, aprì il grande armadio: pantaloni, maglie, maglioni. Le giacche, estive e invernali. No! Lì non poteva essere. Si fermò un secondo, guardandosi intorno e cercando di riflettere. L'anta del comodino! Ed eccolo, finalmente: il binocolo.
Si precipitò nuovamente alla finestra, posizionandosi sulla destra; da lì riusciva a vedere l'intero giardino racchiuso nella cupola. A occhio nudo poteva scorgere il viso delle persone più vicine, ma aveva bisogno di lenti potenti per vedere gli altri.
Riconobbe subito Max. L'aveva già visto al primo sguardo (era uno di quelli più vicino all'ingresso del condominio), ma voleva essere sicura, sperando di essersi sbagliata, anche se era certa non fosse così. L'uomo sicuro di sé (e un po' arrogante) di poco prima, ora fissava il cielo a bocca aperta, inebetito come tutti gli altri. La scena era straziante e due calde lacrime spuntarono sotto i due cannocchiali. Spostò la visuale a sinistra, sperando di non trovare ciò che stava cercando.
«Ti prego, ti prego, ti prego...»
Scorse uomini, donne, bambini, molti dei quali conosceva di vista o di persona, impietriti, con lo sguardo allucinato, a guardare probabilmente il nulla nel cielo. Stavano respirando. Il petto si alzava e si abbassava con cadenza regolare. Non erano morti, e questo conferiva alla scena un'inquietudine ancora più profonda.
«Ti prego, ti prego... NOOOO!» L'aveva trovato. Riccardo.
Era uno degli ultimi, vicino al bordo sinistro della cupola, quasi nei pressi del condominio di Benisi. Al suo fianco c'era Lina.
Veronica si accasciò a terra, singhiozzando. Seduta, la schiena contro la finestra, le ginocchia al petto, si prese la testa tra le mani e pianse.
Quando risollevò la testa, non sapeva quanto tempo fosse rimasta in quella posizione; forse un minuto, forse cinque. Sfregandosi gli occhi gonfi con le dita si rialzò, rigirandosi verso la finestra e verso quell'orribile visione in cui c'era anche il suo papà. Doveva andare a prenderlo. Forse, se l'avesse tirato fuori da quell'orrenda cupola si sarebbe ripreso. Non doveva disperarsi.
Cercando di calmarsi e pensando a come procedere, riprese a scorrere l'intera cupola con lo sguardo, finché non incrociò gli occhi con quelli dell'uomo viola che, del tutto inespressivo (fatta eccezione per il grigio e insapore sorriso che esibiva), stava guardando nella sua direzione.
Le tornò alla mente il discorso confuso che aveva fatto a suo papà e a Max, confuso anche per lei avendo solo dato voce al turbinio di pensieri che vorticavano in lei. L'atrocità di tutta quella situazione era ora davanti a lei, racchiusa in quello sgorbio così semplice e banale alla vista, ma orrendamente inquietante e carico di tutta la disperazione del mondo, in realtà.
Un urlo agghiacciante partì da uno dei balconi del palazzo di fronte. Due donne si erano affacciate, bianche come un lenzuolo: gridavano il nome di qualcuno. L'uomo si voltò di scatto; una luce intensa, color arancio, apparve sotto i piedi e Veronica lo vide sollevarsi in aria. Comprese all'istante chi stava disegnando quelle strisce nel cielo. Non riusciva a credere ai propri occhi. In una frazione di secondo volò davanti alle donne che, urlando, stavano indietreggiando; le imprigionò in una piccola sfera arancione, formata dalla solita luce che si spandeva dal braccio destro. La sollevò e la trasportò dentro alla cupola, dove scoppiò come una bolla di sapone. Le donne gridavano sempre più forte, ma non appena la palla si dissolse, rimasero inebetite a fissare il cielo come gli altri.
«BASTARDO!» Da un altro balcone un ragazzo inveiva contro l'uomo. In un lampo anche lui fu imprigionato.
Si sentiva piangere da un terzo appartamento, all'ultimo piano dello stesso palazzo: sembravano bambini e chiamavano la mamma. L'essere volò dentro la casa, passando dal balcone infrangendo la porta finestra e, in un attimo, uscì con la palla arancione al seguito. All'interno i due bambini, uno molto piccolo, urlavano: smisero subito.
«No, no, i bambini...» Veronica era impietrita dal terrore.
Vide l'uomo (sempre se di uomo si poteva parlare) entrare e uscire da altri appartamenti, attirato probabilmente da suoni, grida, pianti. E altre persone si unirono a quella terribile folla nel giardino.
Veronica si rese conto di essere in pericolo; l'uomo l'aveva vista o poteva anche solo aver visto la tenda muoversi. Aveva pure gridato quando aveva visto suo padre. Sarebbe venuto anche lì, era questione di poco. Doveva nascondersi, sperando servisse a qualcosa.
Il primo impulso fu di uscire di casa, di corsa. Precipitarsi in giardino, afferrare suo padre e portarlo via.
Andò alla porta e mise la mano sulla maniglia, ma si fermò. Era una pazzia; aveva visto la velocità con cui si spostava l'uomo, oltretutto volando. L'avrebbe acchiappata in un baleno. E se anche non fosse successo, se lui, impegnato a catturare gli altri, non l'avesse vista, o in qualche modo fosse riuscita a evitare di essere presa, come avrebbe potuto liberare suo padre? Quella bolla arancione poteva non essere attraversabile, magari l'avrebbe bruciata, o uccisa forse. "E se non fosse così?" Il pensiero arrivò senza che lei se ne accorgesse. "Se fosse solo un'inutile, stupida e insignificante patina di un qualcosa alieno?"
Quell'idea improvvisa le ridestò la convinzione e aprì la porta. La richiuse subito. "Fermati, Veronica! Se anche lo tiri fuori potrebbe non svegliarsi. Come faresti poi a trasportarlo?" La sua innata capacità di ponderare ogni aspetto di una questione e di trovarne sempre la soluzione, si stava scontrando con gli istinti più primordiali che invadono la mente e l'anima di chi si trova in una situazione estrema. Inoltre, non era certa che la sua coscienza le avrebbe permesso di abbandonare tutti gli altri, Lina e Max in primis. Ma come poteva aiutare tutti? Era sicura che non si sarebbe salvata nemmeno lei.
Uno schianto molto vicino, la risvegliò dai suoi pensieri. Si girò verso la finestra, avvicinandosi lentamente.
Un bagliore arancione la illuminò d'improvviso: l'uomo si era introdotto nell'appartamento sopra il suo e ne era uscito con le sue prede. Veronica soffocò un grido con la mano: i signori Casalini si erano uniti agli altri sventurati. Aveva passato tantissimo tempo con loro. Viola, la moglie, le aveva fatto da baby-sitter molte volte, quando era piccola. Il marito era un disegnatore meccanico, invalido, che lavorava in casa. Erano persone eccezionali, purtroppo senza figli, e le avevano voluto bene come se fosse stata la loro bambina. E lei, a sua volta, voleva bene a loro. Li aveva sempre considerati come dei nonni. Erano stati molto vicini sia a lei che a suo padre, quando sua madre se ne era andata. Vederli là, in mezzo a quella sorta di spettri, faceva male al cuore.
Si guardò intorno, in cerca di un nascondiglio.
L'uomo stava entrando in uno degli appartamenti al piano terra del condominio di fondo, passando dal piccolo giardino, per poi uscirne con la solita bolla. Non stava seguendo uno schema preciso; si fiondava negli appartamenti a caso, probabilmente attirato dai rumori o dai movimenti che scorgeva. Veronica sospettava che, calato il silenzio totale, si sarebbe introdotto anche in tutte le altre case, per scovare chi si nascondeva.
Proprio in quel momento una ragazzina poco più grande di lei, corse fuori dall'ingresso del palazzo di fronte al suo.
«Mamma, papà...» gridava e piangeva.
L'uomo era sospeso in aria, sopra la cupola dove aveva appena depositato il nuovo ospite; si girò di scatto, nel momento stesso in cui la ragazza si stava gettando nella bolla. Attraversò la patina arancione come fosse solo un'immagine emanata da un proiettore, ma non appena fu del tutto all'interno si fermò, stese le mani sui fianchi, rovesciò la testa all'indietro e si mise a osservare il cielo a bocca aperta. Veronica fissò la scena sgomenta. Sentiva i piedi pesantissimi, come se nelle scarpe avesse due blocchi di marmo. Non poteva salvare suo padre, non poteva tirarlo fuori da lì, nessuno poteva essere portato via. Erano condannati a rimanere in quello stato a fissare... cosa? Il cielo? O chissà... D'un tratto comprese che prima o poi anche lei sarebbe finita là dentro. Come pensava di scappare? Si chiese se la stessa cosa stesse succedendo anche negli altri condomìni del suo paese. Guardò di nuovo le strisce nel cielo: ora erano un po' calate. Se ognuna delle scie arancioni comparse e che vedeva ancora adesso, corrispondeva a uno di quegli esseri viola, la cosa stava succedendo non solo nel suo paese, ma dappertutto.
Impose alle sue gambe di muoversi, al suo corpo di scrollare via il torpore di cui era avvolto, per la paura, l'angoscia, la disperazione, per il suo papà, ma anche per tutti gli altri, compresa sé stessa. Era attivo solo il cervello e aveva un piano.
Corse all'ingresso e spalancò la porta, poi si voltò e si precipitò in camera sua. Aveva un letto contenitore a un'anta e mezza, sollevò rete e materasso con l'apposita maniglia, tolse i tre piumoni, ben piegati nei loro sacchi trasparenti e li gettò nell'armadio delle giacche. Si sdraiò nel vano, sopra al sottile pianale di laminato e, di nuovo con la maniglia, richiuse il letto. L'oscurità e il caldo asfissiante calarono subito su di lei. Cominciò a sudare. Si ricordò che una volta si era nascosta lì dentro con il suo papà mentre giocavano a nascondino con la mamma. Non era riuscita a trattenere le risate per l'eccitazione e il divertimento e lei li aveva scovati subito. Aveva sette anni.
Non era sicura di poter resistere a lungo, ma s'impose di rimanere ferma e zitta. E attendere. Non voleva essere presa. Doveva esserci una soluzione, un modo; lei lo avrebbe trovato.
Non sentiva più nessun rumore. Tutto era ovattato. L'unico suono che udiva era il suo respiro, ansimante per il caldo sempre più opprimente. Cominciava a mancarle l'aria e la voglia di aprire, solo per un secondo, per incamerarne un po', stava diventando irresistibile.
La finestra della sala esplose. Uno schianto secco di vetri infranti le arrivò all'improvviso alle orecchie e la fece trasalire. Sbatté il gomito destro contro il lato del contenitore, provocando un suono sordo. Si mise subito le mani sulla bocca e cercò di rimanere il più possibile immobile. Il cuore le martellava all'impazzata, poteva quasi sentirne il rimbombo.
Dalla sala provenivano suoni metallici, a intervalli regolari, che sembravano avvicinarsi. Qualcuno stava camminando. L'uomo era in sala e la stava cercando. Veronica aveva lasciato aperta la porta d'ingresso nella speranza che quella cosa pensasse che chiunque abitasse in quella casa fosse uscito, e magari fosse già imprigionato nella cupola. In parte era così. Ma i passi si avvicinavano. Sembravano dirigersi proprio verso la camera.
"Ha sentito il colpo che ho dato col gomito." pensò Veronica.
I suoni si fermarono: l'uomo doveva essere nel corridoio. Da lì si accedeva alle camere, ai due bagni e allo studio. Pareva stesse decidendo dove dirigersi. Veronica pigiò ancor di più le mani sulla bocca, cercando quasi di bloccare il respiro. Era completamente fradicia di sudore. I passi ripresero.
Il cuore della ragazzina diede un battito talmente forte che le sembrò di sentirlo rimbombare nell'angusto spazio in cui era rintanata: era entrato. Poteva udire i passi ai piedi del letto, a pochi centimetri dalla sua testa. Poi si fermarono. Furono i secondi più lunghi della sua vita. Aspettava di vedere il letto aprirsi all'improvviso e di trovare quell'orrendo sorriso morto che la fissava; un raggio arancione l'avrebbe presa, rinchiusa in una bolla e addio! Sentì qualcosa cadere e infrangersi, poi i passi ripresero e si allontanarono. Le sembrò di scorgere nuovamente un rumore di vetri rotti, ma molto flebile, appena accennato. Poi fu di nuovo il silenzio.
Veronica non si mosse, completamente paralizzata dal terrore, incapace di far vibrare qualsiasi muscolo. Tendeva l'orecchio il più possibile per cercare di captare anche il più piccolo dei sussurri.
Ripresero a sentirsi quasi subito scoppi e grida. Capì che l'uomo aveva ricominciato la caccia negli altri appartamenti. Si era nascosta bene, almeno sembrava.
Decise di uscire. Non poteva restare chiusa lì dentro per sempre, doveva reagire, pensare a qualcosa, respirare aria fresca.
Aprì leggermente il letto e sbirciò intorno. Sembrava non esserci nessuno. Spinse con la schiena, e aprì del tutto. Subito un'ondata di aria fresca la invase. Era bellissima; sentiva quasi i polmoni gonfiarsi mentre inspirava avidamente. Non sapeva quanto fosse rimasta rinchiusa, venti minuti, forse mezz'ora, ma dopo tutto quel tempo a respirare aria viziata e soffocante, l'afa di quel giorno le pareva una fresca brezza di montagna.
Con le gambe tremanti si affacciò sulla porta della sala: la finestra non c'era più, i suoi resti erano sparsi sul pavimento e un buco ora rendeva più facile vedere la cupola nel giardino.
In quel momento non vedeva l'uomo. Sbucò all'improvviso da uno degli appartamenti di uno dei palazzi di fronte, senza nessuno, per infilarsi subito in quello di sopra. Stava facendo il sopralluogo che aveva sospettato. Non poteva rimanere lì. Non doveva restare lì. Non sapeva dove andare e soprattutto come poteva andarsene, ma doveva uscire da quella casa. Pensò ai suoi nonni: poteva provare ad andare da loro, ma abitavano lontano, sia quelli paterni, sia quelli materni. Anche ammesso che, uscendo, l'uomo non la catturasse... poi? Ne poteva incontrare altri per strada, e di strada ce n'era tanta da fare per arrivare all'una o all'altra casa. Poteva cercare un passaggio, sempre che in giro ci fossero ancora macchine, o, e qui sentì sprofondare il cuore, persone in grado di guidare. Senza contare che i suoi nonni in quel momento, potevano essere a faccia in su dentro a una bolla. Li avrebbe chiamati, o almeno ci avrebbe provato. Forse avevano riattivato i ponti, sistemato i satelliti o qualsiasi accidenti di cosa servisse per far funzionare di nuovo quelle scatolette.
Si avvicinò al tavolo e controllò velocemente sia il suo telefono che quello del padre: non c'era campo. Forse non ci sarebbe stato mai più. Compose il numero della mamma di Riccardo, ma il telefono rimase muto.
«Niente telefono!»
Veronica trasalì.
Si girò di scatto verso la porta d'ingresso, ancora aperta.
Una donna la fissava, le braccia abbandonate lungo i fianchi, i piedi nudi.
«Vieni con me...» disse Dalila.
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