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3 - LE BOLLE (1)

La prima cosa che uscì dalla bocca di Max, mentre tentava di riaccendere la tv spenta, fu un'imprecazione. Assenza di segnale in ogni canale. Imprecò ancora.

«Per favore, Max! C'è mia figlia, qui.»

«Il telefono...» Non pareva neanche averlo sentito. «Bene, si è acceso.»

Riccardo era sul divano, abbracciato a Veronica che ancora fissava lo schermo nero del suo Samsung, spento.

«Non c'è linea, wi-fi morto. Connessione... zero. Ma che cazzo è?»

«La trasmissione del messaggio deve aver interrotto in qualche modo tutto il resto. Satelliti, ripetitori...»

«E noi come facciamo a sapere cosa sta succedendo?»

«Forse è proprio quello che vuole... O non vuole. Non vuole che sappiamo, e che comunichiamo tra di noi. Ma magari non è così. Può essere un problema momentaneo.»

Max, piantato in piedi davanti a lui, lo squadrava con lo sguardo perplesso. «Come fai a essere così tranquillo?»

«Non sono per niente tranquillo! Mi sto cagando sotto, in realtà. Scusa, Vero. Azzardo solo ipotesi. Ovvio che non ci capisco nulla come te e come credo tutti. Sto ancora pensando alle cose che ha detto... Come si chiama?»

«Ismel» intervenne Veronica. Ancora fissava il telefono riacceso tra le sue mani. La schermata principale era occupata dalla foto di sua mamma, sorridente, felice, mentre teneva in braccio la sua bimba piccola, con meravigliosi capelli color del rame.

«Eh... proprio lui!» Riccardo deglutì. «Ti dico la verità: il fatto che tv, telefoni e quant'altro siano muti, è solo una preoccupazione che si aggiunge alla lunga lista di preoccupazioni che si è creata nell'ultima mezz'ora. Al primo posto, però, ci metto quel "qualcuno vi contatterà". Cosa voleva dire?»

«L'hai appena detto tu! Non ci capiamo nulla! Non lo so.»

«Mi spaventa l'idea che qualcosa che abbia a che fare con quell'individuo venga a cercare me o mia figlia e... MERDA! I miei! I genitori di Erika! Vero, prova a chiamare i nonni per favore.»

«Non c'è linea, Riky. Tutto morto.»

«Non va internet, ma i telefoni... Forse quelli funzionano.»

Veronica lo fissava col telefono appoggiato all'orecchio, scuotendo la testa. Riabbassò il braccio. «Nulla. Tutto muto.»

E riprese a fissare lo schermo.

«Quindi? Cos'hai intenzione di fare?» chiese Max, sprofondando nella poltrona che c'era di fronte alla tv.

«Devo andare dai miei e dai genitori di Erika e poi trovare un posto sicuro dove rifugiarsi.»

«Un posto sicuro in cui rifugiarsi? Perché, le nostre case non lo sono?»

«Non so dirti. Ho la sensazione di essere in pericolo a restare qui. E per qui, intendo nel paese. Se quello cerca la gente eviterei di restare dove ce n'è tanta, in zone molto abitate. Ma sono supposizioni, solo sensazioni.»

«Io non lascio casa mia!» disse Max, lo sguardo deciso. «Per andare dove, poi? Qui ho un letto, cibo, tutte le comodità. Voglio vederci chiaro, prima.»

«Dopo che hai visto chiaro, magari è troppo tardi! Forse dobbiamo agire d'anticipo.»

Max alzò la schiena dalla poltrona e lo squadrò con un sorrisetto ironico. «Ok... tu hai una seconda casa? Che so... sperduta in un bosco o sul cucuzzolo di una montagna?»

«Ovviamente no! Ma pensavo...»

«Conosci qualcuno che potrebbe ospitarci in un qualche posto isolato?» incalzò Max.

«No! Ma che c'entra? Dicevo solo...»

«E allora dove vuoi andare? In giro, a caso? Se poi risuccede qualcosa che fai? Dove sbatti la testa?»

«Max! Sto solo facendo ipotesi. Sto cercando di riflettere. Mi concederai di essere un tantino confuso in questo momento... e spaventato?» replicò Riccardo, risentito.

«Devi essere lucido, invece! E non prendere decisioni affrettate e sbagliate!»

«Insomma... le mie decisioni sono sbagliate perché sono diverse dalle tue? Non voglio correre il rischio di finire come un topo in una trappola, e soprattutto non voglio che il rischio lo corra Veronica. E restare qui... beh, ho paura che il rischio si concretizzerebbe.»

Max lo guardò sorridendo, poi si alzò scuotendo la testa, andò in cucina e prese una birra dal frigorifero. Tornò in sala bevendo di gusto. Riccardo si rese conto di avere sete: l'angoscia di quei momenti gli aveva seccato ancor di più la gola, già secca per l'insopportabile afa. Max però aveva solo una lattina in mano e se la stava scolando avidamente. Era sempre stato un pessimo ospite. «Vai pure dove ti pare. Io non mi muovo da qui» disse, e ruttò.

«ISMEL!» Veronica si alzò di scatto, facendoli sussultare tutti e due. «ISMEL! Così ha detto di chiamarsi.»

«Sì, e allora?» Max la fissava con aria interrogativa. Aveva quasi rovesciato la birra sul tappeto.

«Ma non capite?» Gli occhi di Veronica brillavano, ma non irradiavano il solito senso di sicurezza, anzi, apparivano molto spaventati. «È l'anagramma di SMILE. Avete visto la faccia del robot in quel video? Era la faccia dell'omarino stilizzato che sorride. Non esiste anche un adesivo, mi pare, e delle spille con quell'immagine. Lo SMILE, appunto.»

Riccardo la guardava perplesso.

«Io continuo a non capire» intervenne Max, dando voce anche ai dubbi dell'amico. «Dove vuoi arrivare?»

«ISMEL è l'anagramma di SMILE. Ci prende in giro, ecco cosa fa. Dubito che quello sia il suo vero nome.»

«Mah! Quello che ha appena fatto a Bologna non sembra tanto una presa in giro! E poi, in fondo, chi se ne frega di come si chiama!»

«Amore, perché pensi questo?» Riccardo le aveva preso una mano.

«Perché è così! È venuto qui da non so dove e non so come. Ha creato il... robot, o quello che è, nella forma di una delle cose più banali e stupide che esiste: l'uomo come viene disegnato dai bambini piccoli. E ci ha messo come faccia lo SMILE, la faccia sorridente...» Deglutì con gli occhi lucidi e la voce cominciò a tremarle. «...e con questo ha ucciso migliaia di persone e distrutto una città. Capisci?» Due strisce di lacrime le rigavano il viso. «La gente è morta guardando un omino con una faccia sorridente. È una cosa agghiacciante, papà...Non si è limitato a sterminare...» Si appoggiò sulla sua spalla, singhiozzando.

«Vero...» Riccardo non sapeva cosa dirle.

«Cosa c'è di più piacevole e leggero di un sorriso? Una persona sorridente migliora l'umore di tutti. Lui ce l'ha mostrato e ce l'ha reso un nemico!»

Riccardo la strinse forte, col cuore che martellava per l'angoscia. Era stupito dal talento di sua figlia, anche se doveva onestamente ammettere che, come Max, anche lui faceva fatica a seguire il ragionamento. Sentì un intenso calore avvolgerlo, e impiegò qualche secondo per capire che proveniva da Veronica.

Si staccò e la fissò. «Tesoro! Scotti! Stai male? Hai la febbre?» chiese, posando la mano sulla sua fronte.

«No, sto bene. Mi succede ogni tanto, quando mi agito. Mi si scalda la pelle, ma poi passa subito.»

«Perché non me l'hai mai detto?»

Max diede l'ultima sorsata e schiacciò la lattina tra le mani. «Scusa, non capisco però il nesso» li interruppe. «D'accordo con le cose che ha fatto, d'accordo la storia del nome, che però mi sembra una cazzata...» Riccardo lo guardò torvo. «Ma perché ci prenderebbe in giro? Mi sembra un discorso senza senso. Senza offesa, eh...»

«Secondo te, uno che massacra e intanto ti ride in faccia, fa giochetti di parole, scherza come fosse a una cena tra amici... Tutto questo è un discorso senza senso?»

Stavolta era stata Veronica a rispondergli, con gli occhi gonfi ma con una grinta che lasciò di sasso Riccardo, e anche Max. Rimase in silenzio a guardarla per qualche secondo, rigirandosi la lattina schiacciata tra le dita.

«Ha ragione papà» continuò la ragazzina. «Dobbiamo andarcene subito. Non ha sicuramente buone intenzioni. Io non voglio che i suoi "incaricati" mi trovino.»

«Però mi sembra un po' azzardato trarre delle conclusioni da un anagramma!» rispose, sarcastico, Max.

«Sei più cocciuto di un mulo! Cristo, Max!» Riccardo scuoteva la testa.

Dalla finestra aperta cominciò a salire il vocio delle persone, che andava aumentando. Il campanello suonò. Max andò al citofono.

«Sì! Sì! Va bene... Grazie.» Riagganciò. «Fanno una riunione giù nel giardino. Tutti e sette i palazzi. Andiamo?»

«Direi proprio di sì. Vieni, amore.»

Riccardo gli passò davanti, guardandolo un momento negli occhi. Poi tirò dritto. Veronica era dietro di lui. Max prese il telefono dal divano e li seguì, chiudendosi la porta alle spalle.


Nel giardino c'era già un consistente numero di persone.

Erano centosessantotto gli appartamenti totali del complesso. Quando erano venuti ad abitare lì, Riccardo aveva calcolato circa cinquecento persone, battezzando una media di tre persone a unità abitativa. Odiava il rumore e temeva che con così tante anime, la possibilità di trovare i classici "casinisti" fosse abbastanza elevata. Per fortuna, non era stato così e, a parte sporadici casi (qualche ragazzino rimasto a parlare a voce alta nel giardino a notte fonda, o qualche festicciola sul terrazzo protrattasi un po' troppo a lungo) la zona era sempre stata silenziosa.

Non era così adesso. Nonostante fosse evidente che non erano presenti tutti (alcuni sicuramente erano in vacanza, alcuni, terrorizzati, erano rimasti in casa), c'erano comunque, a occhio, trecento persone e tutte guardavano verso Bologna, chi imprecando, chi gridando o chi semplicemente in silenzio, con le mani nei capelli o sulla bocca.

Sopra la città nessun elicottero volava più; uno strano riverbero arancione, infiammato ancor di più dai riflessi del sole, occupava ora la scena. Non potevano capire cosa lo provocasse (erano troppo distanti); sembravano i riflessi di un incendio, ma tutti sapevano che non era il fuoco a provocarlo. Avevano visto le immagini in tv, finché le tv avevano funzionato: che nel centro di Bologna ora ci fosse del fuoco era altamente plausibile; che quel fuoco fosse la causa di quella luce, no. Era troppo arancione, viva e lucente, come pittura uscita direttamente dal tubetto. Senza contare che non c'era fumo.

Il vociare aumentava sempre di più, incontrollato.

Un signore in canottiera e pantaloncini da casa, pelato, con una folta barba grigia, un paio di occhiali con la montatura molto spessa e una prominente pancia, prese la parola. Riccardo lo riconobbe: era il caposcala del condominio di fondo, quello che guardava direttamente verso Bologna. Si chiamava Benisi, ma non ricordava (o forse, mai l'aveva saputo!) il nome di battesimo. All'ultima riunione per le parti comuni, a dicembre scorso, era arrivato quasi alle mani con Max per la questione dei posti auto. Quando i due amici ne avevano discusso a fine riunione, Riccardo era rimasto il più possibile neutrale, ma in cuor suo aveva tenuto la parte del vecchio; Max l'aveva aggredito quasi subito, senza fargli finire il discorso e la cosa era poi degenerata tra gli insulti. Voleva bene a Max, avevano condiviso tante serate divertenti ed era stato presente quando Erika era morta, (senza contare che gliela aveva presentata lui), ma aveva un carattere impossibile e quando si impuntava su una questione, spesso era meglio troncare la discussione o si arrivava al litigio.

Sentì l'amico, a suo fianco, brontolare. «Oh, mamma! Cosa vuole adesso, questo?»

«Signori!» esordì il vecchio. «Fate silenzio, per favore! Silenzio! Ascoltate...»

«Chissà che cazzo dirai...» Riccardo gli diede una gomitata.

«Qualcuno è riuscito negli ultimi dieci minuti a telefonare a qualcuno?»

Un coro di no si alzò dalla folla. «Non va più niente!» «Tv... internet... Da me è tutto spento dopo quel messaggio...» «Io ho provato a chiamare mio cognato che abita vicino ai Giardini Margherita, ma il telefono è muto...» «Anche i canali radio sono spariti. Il messaggio era trasmesso anche lì...» «Anche la radio?» Le voci si sovrapponevano, una sull'altra.

«Va bene, va bene...» riprese il vecchio, alzando le mani per riottenere una parvenza di silenzio. «Credo che tutti abbiamo visto cosa è successo a Bologna prima che il messaggio interrompesse tutto...»

Di nuovo un ghirigoro di voci esplose tutto insieme. «Sì... mio Dio... è tremendo...» «Mia sorella era in stazione, mi ha scritto un minuto prima del messaggio... Stava bene...» «Dobbiamo andarcene da qui... Cosa aspettiamo?» «No, io non vado...»

«Signori, per favore! Calma! C'è già abbastanza confusione. So già la risposta, ma qualcuno sa per caso cos'è quella strana luce che c'è sopra Bologna, adesso? O almeno, ha qualche idea?»

Stavolta nessuno rispose, ma molte teste dondolarono a destra e sinistra.

«Lo immaginavo! La situazione è tragica e molto confusa, ma dobbiamo restare calmi, il più possibile. Purtroppo, questa sorta di blackout non ci aiuta, non so se è casuale quindi momentaneo, o voluta da... il tizio che ci ha parlato.»

«Ismel!» gridò Veronica.

«Grazie! Izmer... no... Ismel... Quello che è. Spero la prima ipotesi.»

«È sicuramente voluta questa cosa...» «Non ci fa sapere cosa sta succedendo...» Le voci stavano ricominciando a salire...

«Signori, non possiamo saperlo. L'unica cosa che possiamo fare è tenere monitorata la situazione. Le linee internet e telefoniche potrebbero tornare all'improvviso.»

Riccardo si ricordò all'improvviso del suo telefono, lasciato sul tavolo in casa.

«Qualcuno ha pensato a cosa fare? Io suggerirei di andarcene da qui. Non so cosa ne pensiate voi, ma quando ha detto che qualcuno ci contatterà, beh... un brivido mi è corso giù per la schiena.»

«Ma dove vorresti andare?» Max era stato il primo a intervenire. «Dove? Il posto più sicuro è casa tua!»

Subito il coro di schiamazzi si rianimò. «È vero, io non lascio casa mia...» «Ha ragione! Siamo in trappola se restiamo qui... Se torna quel mostro gigante...» «Ma dai... perché dovrebbe venire qui?» «Vorrà dei soldi... il governo pagherà...» «E tu come fai a saperlo?»

«Per favore, per favore...» Benisi aveva alzato la voce e di nuovo le mani per riottenere l'attenzione. «Se mi fate finire... Ho una casa, una seconda casa, sopra il Botteghino di Zocca. La chiamo da sempre "Ginepri". È sopra un colle, spaziosa e abbastanza isolata. Ho ristrutturato di recente anche la vecchia stalla.»

«Dio mio se è montato lui qua!» sussurrò Max, a braccia incrociate.

«Organizzandoci con sacchi a pelo e altro credo che potremmo starci in parecchi. Almeno finché non capiamo cosa succede, credo che là saremmo più al sicuro, se agiamo con prudenza. Non lo so, non mi viene in mente nient'altro al momento.»

Di nuovo fu interrotto dall'intreccio sconnesso di voci. «Ma perché dobbiamo andare a vivere come vagabondi quando abbiamo le nostre case?» «Invece è una buona idea...» «Se te vuoi andare vai ma non pretendere che vengano tutti...»

«Gente! È una proposta, l'unica cosa che mi è venuta in mente. Se veniamo attaccati di nuovo da quel coso non abbiamo certo possibilità di difenderci. Credo che nascondersi sia saggio e prudente. E nascondersi vuol dire andare in un posto isolato. Se poi c'è chi ha idee migliori, sono tutt'orecchi...»

Le ultime parole furono sovrastate dalle mille discussioni che esplosero all'improvviso: chi era d'accordo, chi no, chi brontolava, chi gridava, chi voleva avere ragione senza proporre fondamentalmente niente.

Riccardo si guardava attorno, scuotendo la testa. «Così non risolveremo mai nulla. A me sembra una bella idea, è molto gentile a mettere a disposizione la sua casa per tutti.»

«Ma dai, Riky! Ma che senso ha? Non eri tu che dicevi di non stare dove c'è tanta gente? Ti vai a rinchiudere in un buco con persone che non conosci, a dormire per terra... Io non ci penso neanche!» Max sembrava irremovibile.

«È grandioso, invece!» Dietro di loro aveva parlato una donna, mora e bassa. Riccardo la conosceva: era Lina, la giornalaia, moglie di Edicola. «Io ci vado. Sapete dov'è questo posto?»

«Ha detto sopra il Botteghino di Zocca. È vicino. Circa venti minuti da qui, forse qualcosa di più, verso le colline. Ciao Lina, a proposito.»

«Riccardo, ciao. Ciao, Veronica» sorrise. La ragazzina ricambiò il sorriso. «Voi che intenzioni avete?»

«Pensiamo di andare. Non mi va di restare qui.»

«Riky, pensaci bene per favore. Come fate a dire che là sareste al sicuro più che a casa tua?» intervenne Max. «Comunque, piacere, Massimiliano. Non ci conosciamo...» Lina gli strinse la mano.

«Non lo so... È una sensazione. Ma credo che, se vuole trovare la gente, per prima cosa andrà nei centri abitati. Una casa, isolata, sopra a un colle... magari lì non viene, magari non viene nemmeno qui. Non lo so, Max. Non so cosa pensare. Non sappiamo con cosa o con chi abbiamo a che fare. So solo che ha distrutto il centro di Bologna e non voglio che mia figlia abbia contatti con questo individuo. Se tu decidi di restare è una tua scelta. Mi dispiace, io e Veronica andiamo. Se cambi idea puoi sempre raggiungerci.»

Max stava per ribattere ma fu anticipato da Lina.

«Anche mio marito e mio figlio vogliono restare qui, ma li convincerò.»

«Dove sono?»

«Sono rimasti in casa, hanno mandato me come ambasciatore!» Mostrò uno stanco sorriso. «Avevo bisogno di uscire un attimo. Quelle immagini, quella voce... Ero nel panico... Mio Dio!»

«Ti capisco!» Riccardo ricambiò il sorriso.

«Suo figlio è il ragazzo che ci ha mostrato il video poco fa, papà.»

«Ah, caspita!» Riccardo provò un po' d'imbarazzo ripensando a come aveva strappato il cellulare dalle mani del ragazzo.

Intanto la bagarre era scoppiata e Benisi aveva rinunciato a farsi ascoltare. Si era girato e incamminato verso il suo condominio, scuotendo la testa.

Si erano formati numerosi capannelli di gente che discuteva animatamente e a Riccardo tornò di nuovo in mente di non avere con sé il telefono: voleva riprovare a chiamare i suoi. «Scusami, devo tornare su in casa un momento. Ho lasciato il telefono. Veronica, corri a fermare il signore, per favore. Digli che noi siamo disponibili ad andare con lui.»

«Diglielo tu, papà. Vado su io a prenderlo. Dammi le chiavi.»

Riccardo gliele consegnò. «Ci ritroviamo qui, ok?»

«Ti accompagno, Riky» disse Lina.

Max si era unito a un gruppetto vicino, in cui la maggioranza sembrava pensarla come lui.

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