Capitolo 9
In quel mese era stato costruito e progettato tutto alla perfezione: Stanislas aveva sollecitato i mastri costruttori a fare più in fretta possibile; e sebbene non gli competesse, qualche volta aveva coinvolto i suoi uomini e si era sporcato le mani fino ad affiancarli. L'esercito che guidava, in fondo, era numeroso, e grazie alla collaborazione di tutti si riuscì a compiere una gran bell'impresa.
Solo allora, quando tutto fu pronto, Volos prese a bearsi della vista della struttura, assicurandosi personalmente che tutto fosse allestito secondo regola: al centro c'era una bassa barriera in legno, quella che separava i due cavalieri durante lo scontro ed evitava ai cavalli di scontrarsi frontalmente; ai lati del terreno di gioco, invece, le impalcature con le sedute in legno, quelle che nate per sostenere nobili e popolani su diversi lati.
Sfoggiando, come sempre, la sua solita eleganza, e questa volta per proteggersi dal freddo, Volos coprì le sue vesti con un pesante mantello bordato di una calda pelliccia di volpe. Era in attesa dei cavalieri partecipanti al torneo, uomini che per l'occasione avrebbe fatto alloggiare nel castello, o nei palazzi limitrofi: quello era un grande onore, un gioco di elevato prestigio; e altrettanta levatura avrebbe offerto ai suoi ospiti.
Aveva ordinato al suo servitore di vestirsi a festa per fare da annunciatore, perciò, non appena lo vide mettersi sull'attenti per presentare uno dei cavalieri, tese le orecchie.
«Sua altezza il duca di Borgogna e marchese di Provenza, Deimos Dubois e sua grazia la duchessa Rona Drăculesti Dubois».
Volos sorrise e s'incamminò verso di loro. Salutò la consorte del cavaliere facendo un lieve cenno con il capo, e lei rispose con una riverenza. Poi spalancò le braccia in direzione di Deimos e disse: «Che piacere vederti, Fratello. Quanto tempo è passato?».
Lui strinse Volos in un forte abbraccio e rispose: «Se non vado errando, tua moglie stava aspettando Alojzy».
«Sono passati cinque anni», confermò, «maledizione, come vola il tempo!».
«Avanti, Volos, non fatevi prendere dai sentimenti e dalla nostalgia, ora siamo qui, no?», lo rimproverò bonariamente.
«Avete ragione, fratello».
«Ditemi...», iniziò Daimos. Lanciò un'occhiata a Volos e poi si riparò dai raggi del sole con una mano coperta di pelle nera. «Sapete bene quanto io ami i tornei», riprese, ferendosi le iridi chiare, «quest'invito è dovuto a un caso, o c'è sotto dell'altro? Un motivo particolare, dico».
Era sempre stato maledettamente scaltro, così si disse Volos, o forse lo conosceva meglio di chiunque altro. «Mi sono intrufolato in questo villaggio dopo aver deposto il loro signore. Ne ho preso terreno e poteri, perciò devo pur impressionare la gente in qualche modo il popolo».
«Mi sembra corretto». Deimos fece finta di bersi quella scusa.
«Ci avete messo un'eternità ad arrivare...», lo rimproverò Volos per cambiare il discorso, «tutti i signori degli altri paesi si sono recati fin qui già da ieri, mentre voi vi siete fatto attendere. È forse successo qualcosa?».
«No, fratello, state tranquillo. Mi sono dovuto trattenere in Francia più a lungo per sbrigare alcune faccende per Luigi».
«Capisco, allora farò scortare vostra moglie al castello», annuì, «lì c'è Mira, e con lei potrà intrattenersi, parlare del viaggio... Voi avete bisogno di riposarvi?».
«No, non c'è bisogno», negò Deimos, «Mio figlio?».
«È nelle scuderie, si sta preparando».
«Bene, accompagnatemi».
Volos gli fece strada, dividendosi dalle guardie, che avrebbero scortato la donna al castello, e incamminandosi verso le scuderie, distanti solo pochi minuti a piedi dalla struttura.
Stanislas era nelle scuderie insieme a Călin, che lo stava aiutando a sellare il cavallo con i vari stendardi della famiglia: quel cavallo gli faceva quasi tenerezza, anche il muso gli doveva coprire. Sapeva che non era volere del suo generale, ma che erano i codici del torneo a richiederlo, perché la provenienza dei cavalieri doveva essere visibile a occhio nudo affinché i presenti potessero tessere le lodi del vincitore senza problemi, così come farlo sprofondare nel fango.
Călin guardò per un attimo il suo generale: portava le calzebraghe nere e, sopra alla casacca del medesimo colore, la veste senza maniche nera e dorata, che scendeva fino alle ginocchia; ai laterali era aperta per permettere il migliore dei movimenti ed era stretta in vita da una cintura. Al centro della veste, un Uroboro, l'immancabile stemma della famiglia. «Vi consiglio di non mettervi armatura e protezioni adesso, generale, o finirete solo per appesantirvi».
«Vi ringrazio, Călin, ma ci avevo già pensato. Voi sarete il mio araldo quest'oggi non è così?».
«Certo, generale, farei di tutto per voi, mi sono offerto io stesso per il ruolo».
Stanislas gli sorrise sinceramente: le sue parole gli avevano scaldato il cuore. Mentre si legava in vita la spada, poi, udì passi e, pronto a reagire, volse subito la testa; tuttavia non vide un nemico, bensì suo padre. Aspettò che lui e suo zio si avvicinassero, infine fece un inchino seguito dal suo araldo. «Buongiorno, zio. Padre...», lo salutò.
«Stanislas vi trovo bene, vedo che siete ancora sano e salvo: scoppiate di salute».
«Faccio quello che posso, padre».
Călin si meravigliò vedendo la freddezza mostrata dall'uomo a lui sconosciuto.
«Ditemi, zio, tra quanto si terrà il torneo? Chi aprirà la giostra?». Stanislas puntò lo sguardo verso Volos e attese una risposta.
«È tutto pronto, inizierà tra un'ora. Si stanno mobilitando dame, cavalieri e popolo. Per quanto riguarda chi inizierà il gioco...»
Volos venne interrotto da Deimos, che sembrava avesse urgenza di esprimere la sua opinione: «Voglio che sia Stanislas e il nostro casato a dare inizio alla giostra».
Volos si accigliò, perché suo fratello doveva essere così invadente? Così gli rispose: «Non volete che inizi qualche altra casata migliore così che i cavalieri si scaldino?».
«No, Volos. Voglio vedere il terrore nei loro occhi. Voglio che sappiano subito con chi hanno a che fare».
Volos guardò Stanislas, il quale annuì con un leggero cenno del capo. «Non vi preoccupate, zio. Lasciate che sia io ad aprire il torneo. Sarò fiero di adempire al mio scopo. Ora dovrei finire di prepararmi, visto che sarò il primo».
Deimos lasciò la scuderia e, seguito da Volos, prese posto sulle alte panche di legno della struttura fuori dall'aria di gioco, mentre lì di fronte si affollava il popolo per fare altrettanto. Volos sorrise in cuor suo. Vedeva i contadini, i servitori e tutti i suoi sudditi essere felici, chiassosi: si godevano quella domenica sacra e i giochi. Perfino a Thalis era stato permesso partecipare e, con lo stratagemma di un cappello e qualche vestito decente, il servitore cui era stato affidato aveva fatto in modo che si spargesse la voce su uno straniero provenuto da una delle tante e lontane terre del principe.
Stanislas si era messo i gambali dell'armatura, la cotta di maglia sopra i suoi abiti, infine l'armatura in testa, quella tipica delle giostre. La odiava a dirla tutta. Sentiva caldo, era più coprente di quelle in battaglia e decisamente più pesante. Solo le sue gambe erano libere. Il cuore gli batteva forte per il nervoso e sulle spalle aveva un peso ben più grande della morte.
Si avvicinò al cavallo e, con le mani ricoperte dal pesante ferro, ne prese le redini. Accarezzò il collo del fidato destriero, mormorando: «Adaad, conto su di te, non fare scherzi». Così, mettendo un piede nella staffa, montò su di lui che, piuttosto contrariato dal drappo, pareva un fantasma nero dalle orecchie bianche.
Fu allora che Călin gli passò l'elmo e che Stanislas lo incastrò prontamente sottobraccio. Era pronto: al cenno del suo araldo sarebbe uscito.
I nobili, le dame, i signori e i loro cortei avevano preso posto. Dhalia sedeva in seconda fila, vicino a sua sorella. Era emozionata e preoccupata al tempo stesso per Stanislas: non aveva mai visto una giostra, non sapeva cosa aspettarsi. Sua sorella le aveva detto che sarebbe potuto morire, per questo tentava di cacciare quel pensiero continuamente. Aveva incontrato un uomo pieno di qualità e il destino sarebbe stato troppo crudele a sottrarglielo.
Volos si alzò dalla struttura per dare via ai giochi; lo avrebbero potuto paragonare a un imperatore romano nel Colosseo. «Miei illustrissimi ospiti, vi ringrazio dal profondo del mio cuore per aver aderito così numerosi a questo torneo di onore e privilegio. Spero possiate coprirvi di gloria. Quanto ai miei amatissimi sudditi, spero possiate divertirvi. Che il torneo abbia inizio».
Tutti applaudirono e, quando il silenzio calò, puntarono i loro occhi verso Călin, che stava per raggiungere il centro della zona designata. In quanto araldo di Stanislas, questi indossava i panni del tipico colore della famiglia Dubois.
Si guardò attorno e, certo di dover presentare al meglio il suo signore, prese un bel respiro e poi iniziò a parlare: «Signori e gentil dame, oggi ho l'arduo compito di presentare il mio signore. Non ci sono parole per descrivere tutta la sua magnificenza, ma cercherò di fare del mio meglio. Preparatevi a rimanere incantati dall'abilità con il quale si destreggerà. Prego signori, scaldate le mani, e signore, aprite i vostri cuori. Voi tutti, acclamate il generale, sua altezza il principe di Borgogna, marchese di Provenza, cavaliere di sua maestà Luigi XI, legittimo successore al trono di Transilvania, Stanislas Drăculesti Dubois». Călin fece un inchino per salutare la folla, chi conosceva Stanislas applaudiva e chiamava il suo nome con vigore, chi non lo conosceva era curioso di scoprire chi era questo talentuoso cavaliere.
Stanislas sentì la sua presentazione e sorrise appena, doveva ricordarsi di ringraziare il suo sottoposto, poi diede due colpetti con i piedi ad Adaad. «Tocca a noi, non farmi sfigurare».
Il cavallo prese a muovere qualche passo e Stanislas, con ancora il viso scoperto, fece la sua entrata in campo. Le signore lanciavano i fiori dagli spalti, gli uomini lo acclamavano.
Stanislas si fece avanti, condusse il cavallo fino al centro degli spalti e poi salutò suo zio e suo padre. A parlare fu Volos: «Generale, se avete qualche promessa o qualche proposta da fare, qualche pegno da offrire, è il momento di farlo».
Stanislas annuì appena e, sotto l'espressione incredula di suo padre, si diresse verso di lei: la donna dei suoi desideri, del suo cuore; lei gli sorrise subito nel vederlo, ignara di tutto.
Si portò una mano alla bocca, stupita, quando vide che Stanislas fece fare l'inchino al cavallo per protrarsi alla sua altezza e attendere un cenno. «Potete parlare, generale», gli disse. Aveva udito la sua presentazione, e in quel momento ricordò subito Arhiman, il tentativo d'offesa con la scusa dei titoli. Perché sì, li aveva celati, ma Dhalia non immaginava che fossero tanti. Saperlo, immaginarlo dopo averlo visto accanto a costruttori e contadini, era strano e le riempiva il cuore di gioia. In fondo Stanislas era un principe, e quali e quanti altri principi lo avrebbero fatto?
Adaad si tirò su da quella posizione scomoda e Stanislas prese a parlare: «Dhalia, dedicherò a voi la mia vittoria, ma ho bisogno di una vostra promessa: sarò vivo solo se accetterete il mio amore, il mio pegno, e la mia promessa di fare di voi la mia sposa», le disse.
Dhalia arrossì. Non ci contava, quasi pensava che l'attrazione del principe fosse di sua immaginazione, ma poi, di colpo, quell'illusione pareva essersi avverata.
«Non dovete rispondere, mia cara, basterà un vostro dono, un porta fortuna che mi accompagni durante il torneo».
Dhalia stava per alzarsi, quando sua sorella la fermò trattenendola per mano. Dalla seconda fila era difficile sporgersi, ma lei voleva accettare quella proposta e regalargli il velo dorato che le copriva il capo.
Deimos rimase sconvolto e indignato strinse il pugno dalla rabbia. In quel momento comprese la trappola di suo fratello.
Dhalia si sporse con il braccio, cercando di raggiungere Stanislas che tendeva la mano verso di lei. La sorella di Dhalia sapeva che, una volta lasciato quel velo, non avrebbe potuto fare più nulla per ostacolarli.
«Mio adorato generale», lo chiamò come a invitarlo a sporgersi di più.
Stanislas mosse il suo cavallo più vicino che poté verso l'impalcatura e, mentre vedeva quel velo svolazzare e brillare alla luce del sole, decise che lo avrebbe preso in un modo o nell'altro. Tentò il tutto e per tutto. «Adaad da bravo, ora resta immobile», sussurrò al suo cavallo.
Così, facendo appello a tutto il suo equilibrio messo a dura prova dal peso dell'armatura, tolse i piedi dalle staffe: prima uno, poi l'altro. Si diede lo slancio, si accucciò sopra la sella e, mentre tutta la folla lo guardava attonita, in attento e muto silenzio, stordita da una scena d'amore tanto ardua, cercò di tirarsi in piedi sulla sella. Finalmente ritto sulle sue gambe, vacillò. Dhalia trasalì, ma lui trovò l'equilibrio e le disse: «Mia signora, il velo. Presto!». Tese la mano e lei gliela afferrò, consegnandogli il velo.
«Come sempre date prova del vostro coraggio e della vostra determinazione, generale. Abbiate cura del mio cuore», disse.
«In cambio ho promesso la mia vita. Avete già il mio cuore e la mia anima nelle vostre mani, madame». Stretto tra le mani il velo, Stanislas si rimise seduto sulla sella. Lo legò al collo, in fondo doveva portarlo con sé; e, ne era certo, non se ne sarebbe più separato. Attese nella sua postazione il suo avversario. Ormai aveva posizionato sul capo anche l'elmo, solo la visiera era alzata.
Si guardò intorno, scorse chiaramente il disappunto di suo padre, la preoccupazione di sua madre e l'ammirazione di suo zio. Dhalia lo guardava cercando di non far trasparire la preoccupazione e tutta la folla era adorante e curiosa.
Vide poi un uomo, un altro araldo, muovere i suoi passi per annunciare il cavaliere avversario.
Lo stendardo dell'araldo portato era nero e su di esso, come loro avevano l'Uroboro, era dipinta la testa di un lupo rosso.
«Vi ringrazio signore per averci fatto l'onore di partecipare a questa giostra. Il mio signore ve ne sarà riconoscente», disse l'araldo, parlando direttamente a Volos, il quale non rispose; dopotutto non gli interessava la riconoscenza di quella famiglia.
Gli fece solo un cenno con la mano per indicargli di proseguire con la sua presentazione.
«Dame e cavalieri, signori del popolo, è con estremo onore che vi presento un nobile quanto valoroso cavaliere. Vi garantisco che, anche se non è stato fregiato di numerosi titoli, il suo destino farà parlare di lui. Vi prego, ospiti, un applauso per il conte Ahriman Szaniszlofi». Fece un inchino per congedarsi lasciando la folla nell'incertezza. Applaudirono.
«Ci avrei giurato!», bofonchiò Stanislas tra sé e sé, «Scontato e patetico in ogni fibra del suo essere». Attese di vedergli prendere posto per completare la sua vestizione e notò subito che il cavallo di Arimah non riusciva a stare fermo: pareva quasi bramoso di correre all'impazzata ai margini dell'impalcatura, mentre Adaad d'altro canto, era immobile sotto il peso del suo padrone.
Stanislas abbassò la visiera dell'elmo e lo stesso fece Arhiman. I due araldi, allo stesso passo e allo stesso ritmo, si diressero dai rispettivi signori. Călin porse lo scudo nero e con l'uroboro dorato a Stanislas, che lo fece scorrere lungo l'avambraccio per tenerlo ancorato a sé; lo stesso fece Arhiman con il proprio.
«Generale, state attento. I vostri uomini sono con voi», disse Călin a Stanislas, prima di passargli la lancia.
Lui annuì, poi si armò e prese un bel respiro; tuttavia si lasciò trafiggere da un brutto presentimento.
I due cavalieri erano in posizione, attendevano l'uno di scagliarsi contro l'altro.
Volos si alzò di nuovo e disse: «Cavalieri, siete pronti? Date inizio alla giostra!».
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