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Capitolo 7

Volos aveva fatto in modo che la parola di Stanislas, così come la sua, fosse mantenuta; per questo, già il giorno successivo, e grazie al suo fedele servitore, era riuscito a inviare al villaggio i migliori carpentieri della zona: muratori, costruttori e manovali, tutti uomini di fatica che si erano impegnati a rimettere in piedi le case distrutte. E i contadini, riconoscenti com'erano, non poterono fare a meno di aiutarli, mentre le donne, le fanciulle e le bambine erano state incaricate di raccogliere l'aconito. Sembrava quasi che danzassero tutte insieme: si chinavano per estirpare i vari arbusti con cura e poi li riponevano nelle ceste che loro stesse avevano creato.

Volos era molto soddisfatto dell'operato del suo villaggio: sapeva che dei sudditi felici erano anche dei sudditi fedeli; e lui aveva bisogno di tutto il sostegno possibile, perfino di quello delle contadine, che si recavano a turno nelle cucine del castello per affidare alla servitù quanto raccolto e aspettare le istruzioni su come estrarre il veleno.

Volos era nella sala centrale, intento a coordinare l'operato di tutti quanti: i soldati si erano dati da fare, e addirittura Stanislas, solitamente pigro nella gestione di ciò che non lo competeva, aveva preso ad aiutare le donne con i cesti nel loro andirivieni. Sembrava un'atmosfera surreale, perlomeno agli occhi di Volos. E concentrato com'era nel suo lavoro, quasi sussultò quando venne richiamato da una voce:

«Signore, permette?».

Interrotto di punto in bianco, si voltò. Vide Thalis e a una prima occhiata gli sembrò ancora tutto nella norma: il colore artefatto dei capelli reggeva, così si disse, anche se non avrebbe saputo dire per quanto tempo ancora. «Dimmi, Thalis», lo spronò, dandogli quasi subito le spalle; dopotutto doveva gestire il lavoro di tutti, specie dei suoi servitori, che attendevano costantemente direttive.

«Mi chiedevo...», iniziò piano, «... se potessi aiutare le persone del villaggio in qualche modo».

A quelle parole Volos stentò a mantenere la calma e quasi non s'infuriò. Tuttavia rimase immobile e continuò a mantenere la sua posizione facendo un respiro profondo. Dunque riacquistò un'espressione normale e fu certo che l'ossigeno lo avesse placato appena. Era certo che, a causa di quella richiesta, si fosse contratto in viso per via dell'ira. «Ti è dato di volta il cervello?», domandò monocorde, «Non credi che le persone possano ritenerti una minaccia?».

«Ma, mio signore...». Thalis fece qualche passo in avanti, cercò di raggiungere Volos per apparire più convincente.

«Cosa?», lo rimbeccò lui, «Non ti hanno mai visto prima d'ora: s'insospettirebbero».

Il volto di Thalis si fece scuro e triste, quasi disperato. Si senti dannatamente impotente.

Volos, nel guardarlo, si dispiacque per essere stato così duro; eppure non poté rimangiarsi tutto, cercò solo di rimediare con un: «Forse un modo c'è».

«Davvero, signore?». L'emozione di Thalis parve schizzare alle stelle. «E quale?». Sorrise carezzevole, ingenuo; e Volos non poté fare a meno di trovarlo piuttosto dolce.

«Non posso mandarti al villaggio, ma se hai piacere di aiutarci puoi dirigerti in cucina», disse, «Lì le donne hanno bisogno d'aiuto».

Emozionato, Thalis allargò il sorriso. Era una di quelle espressioni gioviali e ampie, una di quelle che erano in grado d'irradiare un'intera stanza; e non solo mosse le labbra, contrasse di poco le sopracciglia, le palpebre, i muscoli del viso: sorrideva con tutto il volto, finalmente capace di poter far qualcosa, invece che restare chiuso dentro un lugubre castello pieno di corridoi. «Vado subito, signore. Fidatevi di me». Detto ciò prese a correre come una scheggia e si diresse verso le cucine. Era felice, entusiasta, e conosceva a memoria quel posto, perciò non aveva bisogno che qualcuno gli facesse da scorta o da Cicerone. Lui, eterno prigioniero del buio, aveva finalmente modo di parlare con qualcuno che non fosse la sua ombra: con le persone, si disse, e le avrebbe aiutate, sarebbe stato loro di conforto.

Iniziò a scendere le scale con la testa fra le nuvole, tant'è vero che quando urtò qualcuno parve quasi rimbalzarci contro. Batté le palpebre confuso, incurante del pericolo, e muovendo qualche passo indietro si accorse finalmente del dolore provato a causa della botta. Un'espressione di dolore gli contrasse i muscoli del viso e precedette quella di stupore, terrore, che si dipinse marcata tra le sopracciglia poco prima della caduta in terra. Il sedere in terra, fissò l'uomo che aveva dinanzi: Stanislas Dubois, e socchiuse la bocca più pallido che mai. S'inchinò e, balbettante per la paura, prese a dire: «Perdonatemi, signore... volevo rendermi utile, mi stavo sbrigando e...». Sperò con tutte le forze che potesse credergli, perché la spada che portava in vita lo terrorizzava alla sola vista.

«Chi siete?», gli domandò lui crucciato. Non si ricordava di averlo mai visto.

«Sono umile servitore del principe, signore».

«Dite?». Sollevò un sopracciglio con fare incerto, per nulla convinto dalla sua voce fievole, ma prima che muovesse qualche passo in direzione di Thalis, seppur fosse pronto ad acciuffarlo per portarlo dinnanzi a Volos, qualcuno richiamò la sua attenzione:

«Generale, quello che dice il ragazzo è vero», disse.

Stanislas si voltò verso il servitore di suo zio. «Ne siete certo?», chiese titubante, «Lo affido a voi, dunque?».

Il servo rasserenò Stanisls: «Sì, mio signore, ci penso io», assentì.

«State attento a quello che fate: sapete che non ho clemenza per i traditori», lo intimò con un'occhiata. E mentre il servitore finiva di parlare, Stanislas si era già congedando salendo quelle scale che Thalis aveva appena disceso. Ad andargli incontro fu proprio suo zio. Gli sembrava piuttosto serio e preoccupato in volto, perlomeno così pensò Stanislas. «Che cosa succede?», gli chiese allarmato.

«Abbiamo ospiti, e non mi piace».

Stanislas procedette per primo facendosi avanti nella sala del trono. Individuato il famoso "ospite", tornò a guardare Volos e gli disse: «Lasciate fare a me, zio. Sapete che ho fiuto nello scovare i bastardi».

Così Volos annuì, lasciando che Stanislas si occupasse del nuovo arrivato.


Stanislas si avvicinò alla figura con passo sicuro. Lo scrutò bene: aveva occhi profondi, dal taglio allungato; erano acuti, scuri, e sembravano brillare di una luce particolare, quasi sinistra, come se dentro di lui ardesse un fuoco pronto a divampare. Stanislas ne aveva visti di occhi simili, specie in battaglia. I suoi lineamenti erano affilati, i capelli lunghi e neri, che ricadevano sulla schiena e lasciavano scoperto il volto poiché erano stati tirati indietro e legati in parte.

Non lo vide esitare un attimo, né piegarsi, né inchinarsi, nulla; eppure Stanislas gli andava incontro. La cosa lo innervosì parecchio, perché anche se lo straniero non conosceva il suo rango, lui pretendeva un minimo rispetto.

«Di grazia, voi siete?», gli domandò Stanislas a qualche passo di distanza.

Se solo avesse potuto, lo straniero avrebbe sputato in terra per manifestare tutto il suo disprezzo verso quelli che considerava gli usurpatori; eppure non lo fece: doveva insinuarsi nel castello, così gli era stato detto, non farsi smascherare con una prima occhiata. «Ahriman Szaniszlofi, nobile valacco», disse.

Stanislas aveva già sentito quel nome, ne era certo, perciò si concentrò sulla ricerca di un ricordo all'interno della sua mente. Tutto lo studio sull'araldica doveva pur avere un senso, no? «E cosa desiderate, signore?», chiese, con un sorrisetto sul volto, non appena si ricordò di quel nome.

«In quanto nobile valacco vorrei far parte della vita di corte. Voi siete?».

«La vostra non sembra una richiesta», gli fece notare Stanislas, «ma piuttosto un ordine». Cinico, forse addirittura sprezzante, continuò: «Perdonatemi, dunque, se non sono incline a rispettare gli ordini di chi è di rango inferiore al mio, signore».

Sul volto di Arhiman apparve un'espressione contrariata, e Stanislas, che era un attento osservatore, poté notare come questi serrò la mascella per mordersi la lingua e tacere dinanzi alla sua provocazione.

«Cos'è che vi fa credere che il mio rango sia inferiore?», chiese allora, «Voi che siete un usurpatore, che non vi siete neanche presentato?». Ahiman alzò il mento, cercò perfino di mostrarsi superiore per mettere in soggezione il suo avversario.

«Come osate chiamare me usurpatore?». Stanislas mantenne il controllo e il contegno solo per godersi al meglio il momento del tracollo di Ahriman.

«Come dovrei chiamare un uomo che neanche si presenta, che non appartiene a questa terra e che si è preso con l'inganno il castello del nostro principe?».

«Risparmiatemi la predica su quanto amavate il vostro principe: non mi è possibile credervi. So per certo quanto dico. Non c'è bisogno che voi sappiate chi sono, non sono solito decantare i miei titoli... Dovreste chiamarmi solo "vostra altezza"».

Ahriman strinse i pugni: non sopportava più l'insolenza del giovane davanti a lui. «Non conosco nessuna altezza senza un nome».

«Mi avete costretto voi, mio caro conte Snaniszlofi».

Ahriman rimase di sasso, perché non aveva pronunciato il suo rango in quella conversazione. Stanislas sorrise; e Ahriman lo percepì come un sorriso sinistro. Improvvisamente si sentì pervadere da un brivido: aveva un brutto presentimento, così si concentrò e percepì la sua aura. Mai, in vita sua, aveva mai percepito un'energia simile.

«Sono figlio del duca di Borgogna nonché principe, cavaliere di sua maestà Luigi XI, marchese di Provenza e, come se non bastasse, legittimato per nascita a solcare queste terre dove tu, patetico inetto, mi chiami invasore. Sono Stanislas Drăculesti Dubois, legittimo nipote di Vlad Tepes, colui che io stesso ho deposto. Nipote di Volos Dubois, Granduca di Polonia, Duca di Prussia e ora Voivoda di Transilvania. Chiamami ancora usurpatore e giuro che ti farò ingoiare le tue viscere... in questa vita o nell'altra».

Ahriman si sentì mancare la terra sotto ai piedi, ma non perché fosse intimorito dai titoli appena elencati, bensì per essersi bruciato l'opportunità di avvicinare forse il secondo uomo più influente della corte; si era fatto un nemico, questo pensò. «Perdonatemi, altezza, non credevo», disse e questa volta chinò il capo: non poteva fare altrimenti.

«Sappiate che, se pensate di entrare a corte, dovrete ingraziarvi me e mio zio. E mio zio è di gran lunga più diffidente di me. Dimenticavo di dirvi che sono il suo consigliere, nonché generale del suo esercito. Tutto, qui, è sotto il mio controllo. Fate qualcosa di sbagliato e state pur certo che lo verrò a sapere».

«Certo, altezza».

Stanislas stava per andarsene, quando incamminandosi si voltò verso Volos per ragguagliarlo sul tale sconosciuto; tuttavia prima che lo facesse, venne richiamato da Ahriman con un: «Altezza, posso farvi una domanda?».

«Quale?».

«Come facevate a sapere il mio rango? La mia è una dinastia giovane, non può esserci sull'araldica».

Stanislas si avvicinò di nuovo a lui e sorrise come se avesse davanti uno sciocco, un ingenuo. «Signore, è vero. In un primo momento mi sono scervellato pensando a dove avessi sentito già il vostro nome, poi mi sono ricordato che la moglie di mio zio è Mira Bathory, e lei non ha esitato un momento a esprimere il disprezzo per coloro che hanno abbandonato il nome Bathory generando una seconda dinastia».

Chi diavolo sono queste persone?, pensò Ahriman. Non doveva farsi intimorire, doveva portare a termine la missione, vendicare suo fratello e consegnare la chiave enochiana al suo signore, adempiendo così ai suoi doveri.

«Mi dispiace che vostra zia, sua altezza, la pensi in questo modo. Posso avere l'onore di far parte di questa illustrissima corte?».

«Non saprei. Attendete udienza con mio zio», gli disse, mentre aveva già girato i suoi tacchi per andarsene.

«Fottuto Drăculesti!», ringhiò a denti stretti Ahriman. Era stato lasciato lì, solo, all'entrata della sala del trono, senza nessuno, nemmeno un'indicazione precisa.

Stanislas affiancò Volos, che dalla sua postazione aveva osservato tutto, perfino il modo in cui aveva quasi perso il controllo dinanzi a Ahriman.

«Allora?», gli chiese.

Aveva un'espressione torva. «Fosse per me lo avrei già passato a fil di spada», rispose, «ma attendiamo: sono certo che lui, o la sua famiglia, ci darebbero noia. Fallo marcire nel suo brodo... Tra due ore andate da lui, zio, e dite che può far parte della corte. Non so cosa abbia in mente, ma ho tutta l'intenzione di scoprirlo. Meglio tenerlo dove posso osservarlo».

«Va bene, mi affido al tuo giudizio».

«Ho lasciato Călin al villaggio. Se vede movimenti strani, mi manderà a chiamare, vado a vedere come procedono nelle cucine con la produzione di Aconito».

«Sì, molto bene. Sbrigo le ultime pratiche con i mastri carpentieri e poi andrò dallo straniero».

Si divisero, Stanislas in direzione della cucina e Volos nella sala deltrono dove, seduto, avrebbe ricevuto i lavoratori e ignorato del tutto Ahriman


Scendendo ancora una volta le scale, Stanislas vide una bambina dell'età di suo cugino corrergli incontro.

«Generale, generale!», gridava.

Si fermò, e la bambina, intimorita dalla loro grossa differenza d'altezza, chinò la testa e mise le braccia dietro la schiena. «Ditemi, signorina, cosa posso fare per voi?».

Questa portò in avanti un braccio: nella mano stringeva una margherita. Disse: «Ho seguito tutto il giorno la mamma, che faceva avanti e indietro tra castello e villaggio. Mi ripeteva quando eravate stato coraggioso, signore. Ho pensato di raccogliere questa per voi». Si spinse un poco in avanti per far sì che Stanislas accettasse il fiore.

E lui lo fece: piegò le ginocchia per essere all'altezza della bimba mentre sul suo volto si dipinse un'espressione stupita. «Per me, dite? Che pensiero gentile, signorina».

Lei sorrise felice. «Sì, per voi».

Stanislas le diede la mano intenzionato a riportarla nelle cucine. «Dove posso custodirla?», chiese, «Sembra troppo piccola per un vaso», e la prese tra le dita.

La bimba, ingenua, rispose: «Tra i capelli, signore. La mamma mi mette sempre i fiori tra i capelli, quando c'è una festa».

«Tra i capelli, dite?».

La bambina annuì mentre teneva la mano al generale, felice del fatto che lui avesse accettato il piccolo dono.

Stanislas fece spallucce. Tirò su il fiore e lo posizionò sulla curva dell'orecchio, tra i capelli. «Mi dona?». le chiese.

«Siete bellissimo, generale!».

Entrato in cucina, con ancora la bambina per mano, Stanislas si guardò attorno e sorrise nel vedere le contatine e tutte le donne del villaggio che, alla porta, si radunavano per portare l'aconito raccolto, mentre i servitori del castello si affrettavano a raccogliere i rametti dalle ceste.

«Vedi la tua mamma?», le chiese.

Lei annuì e indicò una giovane donna poco distante.

«Per favore, potresti raggiungerla? Devo parlare con delle persone». Per non darle dispiacere, Stanislas aspettò che fosse lei a lasciargli la mano, guardandola, mentre raggiungeva allegra la madre. Non si fidava ancora del tutto di Thalis, così fu proprio da lui che si recò.

Aveva il capo chino, quando si vide sovrastare da un'ombra sovrastarlo. Preoccupato, dunque, si voltò. Ma subito dopo si rasserenò nel riconoscere Stanislas. «Mio signore», iniziò, «come vede procede tutto per il meglio: le donne ne hanno raccolto una quantità enorme...».

«Proseguite. Non sappiamo quanto numerosi sono i nostri nemici».

«Certo, mio signore». Thalis si mosse dalla sua postazione, prese un cesto bello pieno d'aconito dalla sala accanto e lo portò in quella più grande, dove veniva raccolto tutto.

Stanislas continuò a guardarlo senza emettere un fiato. Quell'individuo gli sembrava strano, neppure umano: la sua pelle era quasi priva delle più rosee sfumature; e dire che lui aveva un incarnato piuttosto chiaro! Doveva ricordarsi di chiedere delucidazioni a suo zio, visto che sembrava rispondere ai suoi ordini. Per un attimo immaginò una cosa e subito la cacciò via dalla sua mente: al solo pensiero rabbrividiva. Non che disprezzasse la natura di suo zio, certo, ma non erano quelle il tipo d'immagini che gradiva sostassero tra i suoi pensieri.

Volse lo sguardo all'interno della cucina, come se la vista delle fanciulle potesse riscuoterlo al pari di un antidoto; infine vide lei e dannazione se il suo cuore parve arrestarsi! Lo faceva sempre, fortunatamente per qualche secondo o la durata di un battito, ogni volta che i suoi occhi la incontravano: Dhalia.

Fece un bel respiro e le si avvicinò. «Mia signora, cosa ci fate qui?», chiese, «Non è posto per voi». Preoccupato le tolse il cestino dalle mani, lasciandolo tra quello della contadina vicina.

Dhalia lo guardò. Adorava la sua premura, ma si sentì in dovere di dirgli qualcosa a suo rischio e pericolo; aveva capito che, forse, con Stanislas poteva azzardare. In fondo era lui che voleva il suo cuore. «Mio signore, apprezzo tutto questo, ma vi prego: posso e sono in grado di tenere un cestino con delle piante», disse, «Sono qui per aiutare, come tutte le altre. Quello che hanno distrutto è anche il mio villaggio e questa è la mia gente». Indicò le persone presenti in sala. «Per cui, ve lo chiedo, non toglietemi anche questo».

Stanislas si sentì mancare la terra sotto i piedi. Il rimprovero di Dhalia era stato tanto dolce quanto pungente. «Perdonatemi voi, mia signora: non credevo di potervi arrecare tale dolore, altrimenti non lo avrei mai fatto. Se aiutarli è il vostro volere, prego, mia signora, continuate».

Dhalia era davvero stupita. Sapeva di poter osare, ma non si aspettava tanto. «Vi ringrazio, lo apprezzo molto».

«Continuate, allora, mia signora».

Lei non disse nulla, ma allungò la mano verso di lui, cercando quel fiore che Stanislas aveva posizionato tra i capelli. «E questo, mio signore?».

Lui mosse un passo indietro per impedire a Dhalia di toglierglielo. «Non fatelo, mia signora! Perdonate, se trovate poco virile lo sfoggio di questo fiore, ma mai mi sognerei di spezzare il cuore a una bimba. Questo è un dono gentile di una dolce bambina». Sorrise nel veder passare, in quel momento, la bimba in questione.

Dhalia rise, ammaliata totalmente da tanta gentilezza d'animo. «Mio signore, non oserei neanche io», gli disse. Prese poi il cesto con un: «Permettete?».

«Prego, prego, mia signora». Stanislas si spostò facendo in modo che lei potesse passare e proseguire con il suo lavoro.


Volos sedeva sul trono e davanti a sé aveva i migliori carpentieri della Transilvania pronti a fargli un resoconto generale; tuttavia era distratto dall'aura dello straniero che, immobile e per ordine di Stanislas, se ne stava lì impalato ad attendere che Volos gli concedesse udienza.

«Signore, principe, mi sta ascoltando?».

Volos venne riscosso dal mastro carpentiere, che reclamava la sua attenzione.

«Sì, mi avete detto che ci vorrà un mese per ricostruire la base del villaggio», disse, «Mi sembra troppo tempo: dovete accelerare i tempi. Quella gente dorme per le strade. Quindi vi do due settimane, lavorare giorno e notte se necessario, ma entro quindici giorni devono essere pronte tutte le basi per supportare la costruzione».

Il mastro carpentieri avrebbe voluto dirgli che non sarebbe stato possibile, ma non se la sentiva di contraddire Volos. Gli era parso generoso, certo, ma altresì non amava essere contraddetto. «Va bene», accettò, «farò lavorare sodo i miei uomini. Spero che il mio signore sia soddisfatto».

Volos annuì, decisosi a mettere fine a quell'incontro. Disse: «Forza, non perdete tempo, che è prezioso. Abbiamo stabilito il passo successivo ed è bene che vi mettiate subito a lavoro».

Gli uomini presenti e il mastro costruttore s'inchinarono a Volos, pronti a congedarsi.

E lui, poco dopo, quando scese dal suo trono, avanzò verso Ahriman.

Finalmente questi si sentì degnato dell'attenzione che meritava, o perlomeno così si disse. Strinse gli occhi e alzò il mento senza accorgersene in quella che parve una reazione istintiva.

Sul volto di Volos apparve un sorrisetto soddisfatto. Pensava a quanto fosse inetto un uomo che non si accorgeva neanche delle sue emozioni, che non le sapeva controllare. La prima lezione che aveva imparato durante il suo addestramento era stata proprio quella: "mai far capire al nemico cosa provi o cosa pensi". «Come posso aiutarvi?», gli domandò.

«Mio signore, come ho già detto al vostro generale, io sono Ahriman Szaniszlofi ed essendo parte della nobiltà valacca vorrei poter essere qui a corte come tutti gli altri illustri ospiti», disse addolcendo il tono della voce. Se prima aveva sbagliato, non voleva giocarsi anche la fiducia di Volos.

Eppure lui non si pronunciò; al contrario, fece un cenno al servitore di avvicinarsi. Ahriman vide Volos piegarsi per sussurrargli qualcosa all'orecchio e rimase in bilico, con il cuore che batteva all'impazzata e le parole mozzate in gola.

Il servitore fece un inchino e diede le spalle a entrambi, pronto a eseguire gli ordini del suo signore, il quale tornò a prestare attenzione ad Ahriman.

«Per me sarebbe un immenso onore avervi qui a corte, ma credo ci sia un piccolo inconveniente», iniziò vago.

«Quale?». Ahriman si finse stupito, allarmato, mentre dentro di sé bruciava di rabbia e sognava già di schiacciare in terra la testa di Volos. Nessuna risposta lo raggiunse, perciò attese in silenzio, con il respiro corto, per qualche minuto, fin quando non si udì il suono gracchiante dei cardini.

Le porte della sala del trono si aprirono alle spalle di Ahriman, e nel voltarsi vide entrare Mira che, con passo affrettato avanzava nella loro direzione.

Maledizione! Adesso fanno anche decidere le mie sorti a una lurida femmina? Pensò Ahriman.

Mira non lo salutò nemmeno. Parlò all'istante, disse: «Cugino, come osate venire al mio castello e infangare il mio nome con la vostra presenza?».

«Il vostro...». Si zittì subito. Stava per essere di nuovo insolente e con la persona sbagliata. Quel bastardo di Volos aveva escogitato una trappola, lo sapeva, e lui non avrebbe più sottovalutato le sue azioni o i suoi modi apparentemente gentili. «Vi prego di perdonarmi, cugina, se la mia presenza vi arreca disturbo», disse, sentendosi come punto da mille aghi.

«Non mi reca disturbo», lo corresse, «io vi disprezzo». Batté le palpebre e, seria, riprese: «Avete osato infangare voi, la vostra famiglia, il nome della mia famiglia», precisò a gran voce, «Avete creato una scissione. Cos'è, volete forse creare una vostra dinastia?», lo incalzò, «Peccato che per ascendere al trono non vi basterà essere conte».

«Vi supplico cugina, non siate in collera con me, io porto solo un cognome».

«Non raccontate queste storie a me, non a me. Cosa pensate che io sia abbastanza ingenua da credere che non vogliate portare avanti il nome della nuova vostra dinastia? Non insultatemi, vi prego».

«Non ne ho nessuna intenzione, vi chiedo solo ospitalità».

Nessuno poteva sapere che la promessa del trono gli era stata fatta già da Azezel e pertanto non avrebbe dovuto sposare nessuna principessa o regina per averlo.

Mira guardò Volos, il quale le fece un cenno affermativo con la testa per chissà quale ragione. Voleva che restasse lì con loro, e lei non riusciva a capirlo: più tardi glielo avrebbe chiesto.

«Restate, ma non avrete nulla da me: né favori, né conversazione, né attenzione. Nulla. Spero vi sia chiaro».

«Cristallino, altezza». Ahriman chinò la testa vedendo Mira congedarsi. Sorrise: un sorriso maligno. Era fiero di sé, vittorioso quasi, per essere riuscito a intrufolarsi.

Dico una sola cosa facciullini miei: quante ce ne combinerà Arhiman? 

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