Capitolo 6
Il corpo della bestia, trascinato per tutta la foresta da colui che si era detto suo fratello, ebbe un attimo di riposo nei pressi di un tronco. Il tale sollevò una mano e vi posso contro il palmo. A quel punto iniziò a pronunciare delle parole incomprensibili, quasi simili a dei sussurri, e con queste diede vita alla flora intrecciata, che si liberò dall'altro tronco, dopo aver scosso la folta chioma.
Dinanzi a lui si presentò un passaggio, un varco entro il quale passò assieme al cadavere. Rinserrò la presa sul braccio e si fece avanti, discendendo nelle viscere della terra. Era buio, terroso e mancava l'aria; ma sapeva che a breve non avrebbe più dovuto preoccuparsi, perché sarebbe giunto a destinazione. E quando notò la stanza circolare seppe che era così: oscura, ammantata da una mistica luce rossa e un trono vuoto, proprio come la ricordava. Si fece forza, e con uno slancio dei bestiali reni tirò su il corpo inerme, poggiandolo contro un tavolaccio di pietra.
Suo fratello giaceva lì, senza testa, a peso morto.
Improvvisamente sentì un urlo. Mentre lui riprendeva le sue fattezze umane, vide una donna avvicinarsi. Non impiegò molto a riconoscerla: era sua cognata.
«Speravo di trovarlo ferito», disse, «invece questo è il regalo che ci hanno fatto». Parlò nella direzione della fanciulla, scoprendo che già si era buttata sul corpo di suo marito.
«E dov'è la sua testa, ora?», singhiozzò lei mentre i suoi occhi ardevano di orrore e rabbia.
«Non lo so, probabilmente l'hanno presa con loro come trofeo».
La donna si scaraventò contro di lui: era una furia. Aveva i denti stretti e sembrava volesse ringhiare; eppure disse: «Ahriman, ascoltami bene...», gli puntellò un dito contro, «... non voglio la testa di colui che lo ha ucciso, no, io voglio il suo cuore: voglio schiacciarlo sotto i miei piedi e mangiargli le viscere. Solo dopo che mi avrà implorato di ucciderlo, allora lo uccideremo».
«Lezabel, sta' calma», le rispose in tutta tranquillità mentre spostava la sua mano dal torace, «Era tuo marito, ma era anche mio fratello. Ti assicuro che voglio la vendetta quanto te», concluse.
«Che cosa facciamo adesso?». Gli occhi dorati della donna saettavano, passavano da Ahriman al corpo del suo defunto marito, mentre accarezzava il suo braccio da bestia. «Cosa ti hanno fatto...», sussurrò vacua.
«Aspettiamo che tornino gli altri, Lezabel, e poi evocheremo il nostro signore a cui chiedere consiglio».
«Ve bene», disse lei secca, «Vado a prepararmi».
Quella mattina Stanislas si destò beato. Aveva dormito da solo, e la cosa lo stupiva: sì, si stupiva di se stesso; ma nella sua mente era impresso il dolce sorriso di Dhalia, e come avrebbe potuto giacere con altre? Con quale animo, quale coraggio? Si alzò dal letto, gelando come sempre.
«Maledetto freddo: lo odio con tutto me stesso!».
Magari avrebbe dovuto perdere il vizio di dormire mezzo nudo, anche se le coperte di pelliccia erano sue complici. Così si vestì in fretta, indossando qualcosa di più sobrio rispetto ai panni sfarzosi che vantava durante i banchetti. Mise su una guarnacca in velluto nera che lo copriva fino a metà delle gambe e strinse in vita la cinta di cuoio; doveva pur mettere in risalto il suo corpo. Le calzebraghe, altrettanto nere, erano coperte fino al ginocchio da un paio di stivali di pelle.
Si mosse fino al catino di porcellana, versò l'acqua che poco prima la serva aveva portato e si sciacquo il viso. «Ora sono sveglio». Si disse.
Finì di vestirsi indossando sul braccio la protezione per il falco e completò il tutto con un lungo mantello nero bordato di pelliccia: una pelliccia dal colore rossastro.
«Jilaiya!», chiamò a gran voce sporgendo il braccio; e il falco si palesò poco dopo, richiudendo le sue ali spiegate e andandosi ad agganciare con gli artigli sulla protezione. «Buongiorno, amico mio».
Jilaiya lo guardò con i suoi occhietti vispi da rapace, sembrò quasi voler ricambiare il suo saluto.
«Sei pronto per un'altra noiosissima e tediosa giornata in questo posto sperduto da Dio?», chiese ironico al falco. «Lo so, lo so: magari a te queste immense vallate da esplorare piacciono tanto...». Aprì la porta della sua stanza. Alle mani portava ancora il suo vistoso anello: non lo toglieva mai. Uscì e chiuse la porta dietro di sé.
Scese le scale e vide uno dei suoi soldati più alti in carica parlare con Volos e si disse che sembrava piuttosto preoccupato, perché parlava a bassa voce. Allora gli si avvicinò.
«Buongiorno, zio», disse.
«Generale», lo salutò il sottoposto, con un cenno del capo chino.
«Buongiorno, Stanislas, abbiamo un problema».
«Quand'è che non lo abbiamo, zio?», sbuffò infastidito: un altro giorno rovinato da qualche azione affrettata.
«Te ne prego, sii serio. La questione è piuttosto urgente».
Il volto di Stanislas si fece più serio. Guardò il suo soldato e lo vide annuire di seguito a Volos.
«Dunque, parlate. Mi volete tenere sulle spine?».
«Generale, sembrerebbe che questa notte le bestie abbiano assalito il villaggio».
Il pugno di Stanislas si serrò in una morsa. «Avete fatto un sopralluogo?», iniziò, «Tutta la plebe era qui la scorsa notte, avete verificato che non ci siano danni?».
«Non ci sono danni...», confermò, «... perlomeno per quanto riguarda le persone, perché, come avete detto voi, generale, erano tutti qui; ma le abitazioni del villaggio sono quasi tutte distrutte e lo stesso vale per il bestiame. Abbiamo contato dieci pecore, quattro galline e due vacche, morte».
«Fottute, dannate bestie!», imprecò Stanislas, «Dobbiamo andare, voglio vedere con i miei occhi cosa hanno osato combinare; e quella gente va rassicurata». Inspirò furioso. «Preparate i cavalli e fate sellare il mio», ordinò.
«Mi raccomando, stai attento», disse Volos, con aria preoccupata. «Mi sembra evidente che questa sia una reazione alla morte della loro bestia». Avevano il quadruplo del lavoro da fare, perlomeno così pensò, e come se non bastasse lui non aveva trovato ancora la chiave enochiana. Tantomeno aveva scoperto che creatura fosse Thalis; e questo non lo faceva sentire al sicuro, visto che continuava ad averlo in giro.
«Se pensano di intimorirci così, zio, non conoscono Stanislas Dubois, né la mia spada». Sul suo volto apparve un sorrisetto sicuro e beffardo, certo nelle sue capacità di condottiero.
«Stai attento», lo ammonì, «ammiro il tuo coraggio, ma già è stato difficile con una sola bestia, figuriamoci da solo contro un numero che non conosciamo».
«Non vi preoccupate, zio: ho un piano». Detto ciò, si congedò rivolgendogli un sorrisetto complice.
Stanislas avanzava frettoloso verso l'uscita principale, tant'è che, scendendo le scale, non si curò dei nobili che lo stavano salutando; tuttavia, di colpo, si sentì chiamare:
«Stanislas, mio signore».
Oh, se avrebbe riconosciuto quella voce ovunque! Così si voltò e vide Dhalia in tutta la sua bellezza: il corpo fasciato in un vestito oro e amaranto; le maniche della camicia che spuntavano come spruzzi marini oltre le aperture di quelle della veste, tenute chiuse da dei bottoncini dorati; e lo stesso sul capo: un filo che le impreziosiva la fronte, che si nascondeva, poi, tra i folti capelli scuri e li raccoglieva dietro la nuca con delicatezza, per quanto possibile, come sul punto di spezzarsi tra le dita delle Parche.
Senza neanche esitare, come ormai era consueto, Stanislas si prostrò ai suoi piedi prendendole la mano e portandosela alla fronte. «Mia signora, ditemi che posso guardarvi e che facendolo non sarà ammaliato dalla vostra bellezza».
«Certo che potete guardarmi, mio signore. Vi prego, alzatevi». Dhalia si guardò intorno imbarazzata: aveva tutti gli occhi di quelle vipere puntati addosso.
Stanislas si alzò, e lo stesso fece lei, desiderosa di guardarlo; se solo pensava che neanche due mesi prima era defunto suo marito e ora un bellissimo giovane le stava prestando così tante attenzioni, quasi doveva darsi un pizzico per l'incredulità.
«Siete bellissima, Dhalia, dico davvero: non ho mai visto una creatura come voi».
Lei tacque. Non sapeva cosa rispondere a parole tanto gentili, perciò decise di far ricadere l'attenzione sul falco che Stanislas portava al braccio. «E lui? è un maschio vero? Si vede dalla sua fierezza», disse sorridendo al rapace.
«Sì, Jilaiya è proprio un maschio». Stanislas gli accarezzò il petto con il dorso della dita.
«Posso accarezzarlo anche io o è pericoloso?», domandò lei quasi fosse una bambina.
«Certo che potete».
Il falco mosse la testa di lato in direzione di Stanislas con fare contrariato: si sentiva come un cucciolo di cane intrattenuto da dei bambini; ma Stanislas lo guardò con aria imperiosa e scandì bene quello che aveva da dire al suo falco: «Jilaiya si farà accarezzare», quasi glielo ordinò.
Dhalia rise appena e, titubante, allungò la mano. Aveva osservato come Stanislas lo aveva accarezzato poco prima, perciò fece altrettanto.
Con sua somma sorpresa il falco trovò quel tocco piacevole, così chiuse gli occhi e poggiò la testa contro le dita di Dhalia.
«Gli piacete», disse Stanislas sorridendole.
Quel dolce momento venne interrotto dalle malelingue delle nobili di passaggio. «Come può una vedova, baronessa per giunta, quasi carta straccia...», disse una tizia, «... meritare un giovane del suo rango».
Stanislas sapeva di doversi trattenere, ma prima che potesse accorgersene aprì bocca e parlò: «Neanche le acide pettegole, mia signora», disse facendo loro un inchino canzonatorio.
Una delle due donne si avvicinò a lui, dicendo a denti stretti: «Questa acida pettegola vi ha scaldato il letto, signore!».
Dhalia aveva sentito tutto e almeno su una cosa aveva ragione sua sorella: Stanislas sembrava godersi i piacere della vita, il peccato; ma più che sentirsi oltraggiata, si sentì quasi bruciare di gelosia.
Stanislas che aveva alzato un sopracciglio d'innanzi all'ardire dell'altra donna, le rispose: «Fanno tutti un errore, mia signora».
La donna, iraconda, stava per rispondergli, quando il soldato di poco prima si avvicinò velocemente. Le nobili fecero un passo indietro, così lui poté richiamare l'attenzione del suo generale. «Generale», disse, «il suo cavallo è pronto».
Stanislas fece un cenno con la testa annuendo, poi si rivolse a Dhalia. «Madame, vi racconterò più tardi le mie gesta». E con un occhiolino si congedò.
Dopo aver spronato il suo cavallo al galoppo, Stanislas uscì per primo dalla stalla. Dietro di lui, tutti i soldati; e questa volta ne portò con sé un numero maggiore, visto che non sapeva cos'avrebbe trovato, né tantomeno con chi aveva a che fare.
Il cavallo sembrava feroce, forse sentiva la rabbia e la frustrazione del suo padrone; e assieme a lui i suoi compagni. Calpestava la neve, lasciava dietro di sé le impronte degli zoccoli, mentre la terra saltellava sotto i muscoli poderosi. Il freddo era palpabile, usciva in nuvole bianche dalla bocca dei soldati e dalle narici equine.
Stanislas tirò le redini solo quando arrivarono al villaggio. «Fermo, Adad», disse, mormorò, «stai buono». Aspettò che il suo destriero di calmasse, prima di prendere le briglie e scendere. Una volta smontato, vide i suoi uomini fare altrettanto.
La visione che aveva davanti era orribile e lo fece scattare, muovere i passi sulla neve. Circondato da case distrutte, da bestiame maciullato, chiamò l'unico contadino che conosceva bene: «Brad, vieni qui», gridò. Fece un gesto con la mano affinché Brad si affrettasse a raggiungerlo.
«Mio signore». Il suo tono era triste, spento, quasi come se fosse privo di vita.
«Ditemi cosa è successo», lo incalzò.
«Quando siamo tornati al villaggio, abbiamo trovato le case distrutte e il bestiame ridotto in questo modo. Siamo disperati, signore, non sappiamo più come fare».
«Non preoccuparti, darò un'occhiata io».
Stanislas si addentrò nel villaggio; o meglio, in quello che era rimasto del villaggio. Vide chiaramente che le case erano state buttate giù da una forza inumana e che le bestie presentavano gli stessi segni della volta precedente.
«Maledetti, giuro che vi schiaccerò tutti come mosche», disse tra i denti.
A quel punto, furioso, si mise in marcia verso un punto centrale della vallata. La folla era disperata: già non avevano nulla, e perdere anche la casa era troppo. Stanislas, era oltraggioso. Quella, ormai, era la sua gente. Nessuno aveva il diritto di farla soffrire.
Alzò il braccio, gridò: «Jilaiya!».
Il falco, che aveva volato per tutto quel tempo sopra di lui, piombò giò, appollaiandosi sul suo braccio.
E poi Stanislas, seguito dallo sguardo confuso e disilluso della folla, salì su quello che era un tronco spezzato. I suoi soldati radunarono i popolani presenti, cercando di aiutarli a raccogliere quello che era rimasto intatto.
«Miei cari, non abbiate timore», iniziò a dire, «il vostro signore, Volos, sono certo si mobiliterà per aiutarvi; anzi sono sicuro di poter parlare io al suo posto. Ma vi devo chiedere un favore in cambio».
«Tutto quello che volete signore», gli rispose Brad sotto gli occhi impauriti di sua moglie. Dunque lui notò il brivido che le scuoteva le spalle e provò un colpo al cuore: subito se la strinse contro per rasserenarla.
«Grazie a una persona molto preziosa per me, sono riuscito a risalire all'arma per sconfiggere quelle dannate bestie».
«E noi come possiamo aiutarvi, signore?».
«Armatevi di santa pazienza e state attenti. Mi serviranno più braccia possibili per raccogliere tutto l'aconito che possibile, tutto quello che riuscirete a prendere. Ne trarremo veleno, e vi giuro sul mio onore che sterminerò una ad una ogni bestia che si porrà d'innanzi al mio cammino».
La folla si sentì quasi sollevata. Ognuno si loro aveva gli occhi lucidi e non riuscì a trattenersi in un guaito di gioia. Amici e parenti si strinsero in un forte abbraccio e poi cominciarono a pronunciare il nome di Stanislas come forsennati.
«Non volete sapere altro?», li canzonò per attirare la loro attenzione. «Io e mio zio manderemo tutti i carpentieri della città e vi daremo il doppio del bestiame ucciso. In cambio voi raccogliete tutto l'aconito che potete».
La folla era adorante.
Stanislas scese dal tronco e mosse qualche passo. Sotto la suola della sua scarpa sentì qualcosa di estremamente duro, perciò spostò il piede e chinò lo sguardo. Ciò che vide fu un artiglio, qualcosa che gli fece battere le palpebre. Dunque si piegò per raccoglierlo.
Dietro di lui sentì dei passi farsi veloci, mise prontamente la mano sull'elsa per estrarre la spada, ma si placò quando vide che era Brad e per di più terrorizzato.
Questi si chinò prima di parlare, poi disse: «Signore, voi siete un dono. Non sapremo mai come sdebitarci».
«Non dire così, amico mio».
A quelle parole gli occhi di Brad si riempirono di lacrime, ma non per paura, non per dolore, bensì per orgoglio. Le ricacciò indietro, ascoltò il suo signore parlare.
«Davvero, mi basta che voi raccogliate tutto l'aconito possibile: ho il timore che quelle bestie siano tante... quindi più veleno avremo e meglio sarà».
«Siete troppo buono, signore».
«Oh, no, mio caro: la bontà e la purezza lasciamola ai santi. Io ho visto troppo orrore per non capire che è meglio prestarsi soccorso a vicenda. Vedrete che vinceremo la battaglia. Ora ti prego di lasciarmi andare».
Brad fece un inchino e lasciò che Stanislas si allontanasse; ma prima di risalire sul suo destriero, questi si curò di mettere l'artiglio nella bisaccia legata alla sella.
Tutti i suoi uomini salirono a cavallo insieme a lui.
Nell'oscuro antro, tutti avevano fatto il loro ritorno. Ahriman diede il via ai suoi fratelli di entrare, e i licantropi, ormai tornai umani, si fecero avanti tenendo a fatica una capra con le zampe legate; per evitare che scalciasse, ovviamente.
Lezabel era pronta: indosso una veste rossa, i capelli neri lunghi e sciolti, ribelli proprio come lei; gli occhi dorati che brillavano alla luce delle candele. Serrò le palpebre, ispirò a fondo e tirò su il pugnale che aveva in mano. «Benedici il tuo sacro dono. A te, capro espiatorio, lo offriamo. A te, che porti l'antico fardello, lo doniamo».
Poggiarono la capra sullo stesso tavolaccio dove il loro fratello morto era stato sdraiato.
La capra cercò di dimenarsi, ma Lezabel l'afferrò per la testa e, tirando indietro il suo muso, la sgozzò. Sentì il suo belato struggente, disperato, e vide il sangue zampillare in avanti, finire dritto su Ahriman, il quale chiuse gli occhi e si beò del calore offerto dall'animale.
Lezebel salì sul tavolo, tagliò il ventre della capra e lo divaricò. Ne prese le viscere e le portò alla bocca, mangiandone parte. Il suo viso era ricoperto di sangue, sporco d'interiora. Si mise in piedi, poi si tolse la veste e rimase completamente nuda.
Di nuovo accucciata, raccolse il sangue dal ventre dell'ovino e si stese li accanto. Sì passò una mano tra i seni, intenta a disegnare un sigillo che ormai conosceva a memoria, e lo completò tra i genitali; allora divaricò le gambe e attese che il demone che stavano evocando si palesasse per consumasse con lei quel rapporto in cambio della sua presenza.
Una volta seduto sul trono, soddisfatto e grato per quel dono, ancora preso dall'estasi, guardò Lezabel tirarsi su dal tavolo. Vederla sporca di sangue lo eccitava al punto che avrebbe potuto fare tutto per quella donna.
I presenti, ancora in ginocchio, attendevano che il loro signore parlasse.
«Sono sempre molto grado all'offerta di Lazabel», disse, «ma ditemi, non credo mi abbiate chiamato per farmi copulare con lei; anche se l'idea mi alletta sempre molto».
Il primo ad aprire bocca fu Ahriman: «Signore, sono certo che voi sappiate che un nostro amato fratello è morto a causa di una mano umana».
«Siete forse idiota, Ahriman?».
Ahriman alzò lo sguardo in direzione del demone, sentitosi toccato profondamente da quell'appellativo. «No, mio signore».
«Allora stai dicendo cose stupide, Ahriman. Come pensi che un misero umano senza l'aiuto di un'entità possa abbattervi. Voi stessi che siete soprannaturali mi avete chiamato per consiglio», sbuffò, «Dunque?».
«Vi prego di aiutarci, mio signore».
«Sono certo che c'entri quello scherzo della natura di mio fratello», iniziò, «Come dovrei chiamarlo fratello? Sorella? Il creatore dell'intero universo? Eppure la stessa natura da lui creata si è presa beffa di lui».
«Parlate di vostro fratello Astaroth, signore?».
«Esatto parlo proprio di colui che vi ha maledetto solo perché voi, creati da me, osate solcare la sua amata terra».
Tutti si guardarono preoccupati, chiedendosi se la situazione potesse essere nientedimeno che una diatriba tra fratelli, per giunta legati da un odio millenario.
Il demone scese dal suo trono. Ai piedi aveva dei sandali intrecciati, indosso una veste blu che, lunga, gli ricadeva sul corpo; il viso pallido, i capelli corvini a coprirgli il capo, gli occhi scuri. Si avvicinò all'altare, laddove la capra era stata sacrificata, e ne accarezzò il manto. Passò una mano tra le sue viscere, affondando dispiaciuto tra di esse. Storse perfino le labbra, perché il sangue era già diventato freddo. «Volete il mio aiuto?» domandò al capo-branco Ahriman.
«Si, sommo Azazel».
«Aprite bene le orecchie e vi dirò cosa fare».
Nel covo calò un profondo silenzio. Azazel, compiaciutosi di tale situazione, prese a parlare: «Ahriman, tu dovrai introdurti come infiltrato nel castello e prendere la stessa cosa che sta cercando mio fratello».
«E sarebbe, mio signore?»
«La chiave di Enoch». Azazel lo guardava dall'alto in basso, certo di essergli superiore; dopotutto si trattava di una creatura creata da lui stesso, nata solo per dispetto o per invidia nei confronti di suo fratello.
«Va bene, mio signore, farò come dite. Domani, alle prime luci del giorno, mi intrufolerò in quel castello».
Ottenuto quanto desiderava, Azazel scomparve nel nulla, come se niente fosse. Gli altri rimasero impietriti, forse anche perplessi, scossi dall'incertezza; tuttavia non potevano fare altrimenti: dovevano fidarsi e seguire le sue indicazioni. Dal momento che c'entrava Astaroth, loro dovevano sperare di essere salvati da Azazel. Se lui non ci fosse riuscito, sarebbero stati schiacciati dalla furia del Dio.
L'anello nella foto è di Macabregadgets. Non li conosco assolutamente, ma mi sembrava doveroso citarli. Magari vi piacciono i gioielli e li comprate xD
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