Capitolo 19
Per quanto gli girasse la testa, Stanislas non riusciva a comprendere se il suo palazzo stesse oscillando o se fossero le vertigini. Si poggiò con una mano alla parete di mattoni, cercando di sorreggersi al meglio; ma le sue gambe cedettero e cadde a terra, sulle natiche.
«Vostra grazia! State bene?» Călin, che lo aveva visto da lontano, si precipitò verso di lui.
L'apparente terremoto sembrava essere passato. «Sto bene», gli disse, aggrappandosi con la mano al suo braccio per tirarsi su e cercare un nuovo equilibrio.
«Cosa è successo? Vi girava la testa?» Călin preoccupato incalzò con le domande, infastidendo il generale. Lo vide aggrottare le sopracciglia, come se non avesse voglia di sentire la sua voce.
«Non lo so cosa è successo. Sono arrivato fino a qui con te, no? Mi hai visto, mi reggevo perfettamente sulle mie gambe; poi sono uscito dal bagno e mi girava la testa, come in un vortice. Non riuscivo a capire se fosse la mia testa a percepire questo movimento o se fosse la terra a tremare sotto i miei piedi».
Călin dimenticava quel lato del generale, quando era nervoso tirava fuori tutto il suo caratteraccio. Ma in quel momento riusciva a comprenderlo: nessuno stava capendo nulla, tutti erano confusi. «C'è stato un terremoto, signore».
«Quindi mi stai dicendo che la mia testa girava e in più c'è stato un terremoto?» Gli domandò ancora, come se volesse afferrare un concetto, comprenderlo ancora meglio.
«Sì, signore. A quanto pare è così», gli rispose confuso Călin, non sapendo dove volesse arrivare con le sue domande.
«Non ti sembra strano?» Domandò Stanislas, ormai retto sulle proprie gambe.
«Cosa, signore?» Călin si grattò la nuca: la confusione lo assaliva, gli sembrava che il suo generale stesse delirando.
«Călin, per l'amor del cielo, ragiona! Siamo usciti da lì e, improvvisamente, appena arriviamo a palazzo io mi sento male e la terra comincia a tremare? Non so bene cosa stia succedendo, ma non è una coincidenza».
«Mi state dicendo che è causa di qualcosa di soprannaturale come le tante che sono successe?»
«Propriamente», rispose seccato Stanislas, mentre la testa gli riprendeva a girare. Seccato nel ripetere i suoi concetti, pretendeva che Călin intuisse subito la situazione, senza neanche rendersi conto che non poteva pretendere che gli leggesse nel pensiero; per non parlare del fatto che il povero cavaliere aveva scoperto quel mondo soprannaturale, che lui reputava demoniaco, solo qualche istante prima.
Călin sentì le gambe tremare. Un'altra? Quante cose dovevano accadere ancora? Non era pronto, ma sapere il suo generale in quello stato lo faceva stare male. Non lo aveva mai visto retrocedere, neanche in battaglia, quando aveva una spada conficcata nel ventre; e ora qualche vertigine riusciva a innervosirlo?
«Piuttosto mio zio dov'è?»
«Vostro zio, signore, sta cerando di trattenere calma la gente nella sala grande, vuole dare un banchetto questa sera per il vostro ritorno e quello di Dhalia. La gente vuole festeggiarvi».
Stanislas annuì. Tacque: avrebbe potuto dire ancora qualcosa di scontroso, ma cercò di controllarsi. Si sentiva invaso come da un'oscurità diversa che non gli apparteneva. Era debole, stanco, gli girava la testa; tuttavia avrebbe comunque partecipato a quel banchetto, se era quello che voleva il suo popolo.
Neanche il suo amato falco si era avvicinato: percependo quell'aurea cupa ad avvolgerlo non riusciva ad apparirgli che come un estraneo.
Non riusciva a capire cosa stava succedendo e, per come era fatto, prima di dire qualunque cosa, avrebbe cercato di risolvere la situazione da solo.
Dhalia era uscita dalla sua vasca da bagno, si era appena messa la veste di lana bianca, pulita, pronta per vestirsi, fin quando non sentì un dolore al ventre, una fitta profonda che sembrava come squarciarla; conosceva molto bene quel dolore.
«Oh no, proprio adesso!»
Poco dopo sentì un rivolo caldo scivolarle lungo le cosce. Così, con un gesto della mano, si affrettò a chiamare la dama da compagnia assegnatale a corte.
«Mia signora!» si affrettò verso di lei e con dei panni puliti e le tamponò il sangue; poi con un altro bagnato la pulì.
«Prendi le cinte e i panni assorbenti. Dovremmo legarli bene, perché ho intenzione di mettermi quel vestito e non si dovrà vedere niente».
La dama da compagnia si precipitò verso il baule di legno dove Dhalia teneva il necessario per quegli eventi. Sollevò il coperchio di legno intarsiato, tirò fuori due cinte piuttosto lunghe e dei panni, certa che fossero ben assorbenti e che, più tardi, la sua signora avrebbe potuto sostituire con altri puliti.
«Eccomi, sollevate la veste, prego».
E così Dhalia fece, lasciando che la sua servitrice legasse intorno al suo bacino il tutto. Per prima cosa le fece sorreggere il panno davanti e dietro; lo teneva con una mano all'altezza della pancia e con l'altra dietro i reni.
Dal momento che Dhalia teneva saldo il panno, l'altra donna poté legarlo bene intrecciando le due cinte.
«Bene, mia signora, così non si dovrebbe vedere nulla».
Dhalia annuì e passarono alla vestizione. Tirò giù la veste di lana, se ne mise sopra un'altra veste più spessa e più calda, ma sempre bianca; dopodiché questa fu legata in vita e si passò alla tunica, un elemento imprescindibile per il risultato finale. Il vestito era composto di un ampio strato tinto del blu più intenso che si fosse mai visto, il quale era decorato con maniche asimmetriche e bordate di pelliccia bianca; da queste si sarebbero mostrare le delicate braccia della duchessa con indosso la tunica bianca, ricamata di motivo floreali dorati.
Per i capelli acconciarono tutto sul capo, racchiudendo quella chioma folta e bruna nella retina dorata impreziosita da gioielli.
Al collo una bellissima collana di zaffiri.
«Siete bellissima, mia signora», si complimentò la dama di compagnia.
«Sono bellissima, ma poco pratica», le disse. Amava essere bellissima e femminile, ma d'altra parte si sentiva anche poco agile nei movimenti e tutti quegli strati di tessuto la facevano sentire poco abile. Di una cosa era certa, però: se avesse trattenuto i panni per troppo tempo, tutta quella stoffa non avrebbe fatto notare nulla. «Come sto? Si nota niente?», domandò Dhalia alla donna di fronte a lei.
«No, mia signora, come da voi richiesto, siete perfetta. Piuttosto ditemi: devo farvi preparare qualche decotto? Avete dolori molto forti?»
Dhalia annuì. «Abbastanza, ma non dare nell'occhio per favore, chiedete nelle cucine se possono preparare qualcosa che faccia passare questi dannati crampi».
«Certo signora, non temete, ci penso io».
Giunta nelle cucine la premurosa dama da compagnia si avviò verso la cuoca che, tutta indaffarata, stava preparando le varie pietanze del banchetto. Se ne stava lì a girare con un grande mestolo la zuppa che bolliva nel pentolone.
«Permetti una parola?» Domandò la dama alla cuoca. La dama si rivolse dandole del tu, in fondo quella era una domestica e lei una dama di lignaggio superiore che serviva la duchessa.
La cuoca lasciò il mestolo senza mostrare la seccatura che provava, lasciare così a metà la cottura avrebbe potuto compromettere il pasto dei signori. «Ditemi».
La dama si avvicinò alla cuoca, così vicino che perfino questa si stranì; evidentemente doveva dirle qualcosa di estremamente personale, o che comunque doveva rimanere discreto. «La mia signora è indisposta. Prova molti crampi ed è addolorata, vorrebbe apparire al meglio agli occhi di sua altezza, così le ho proposto un decotto, sei in grato di poter prepararne uno fatto di semi di cumino e melissa? Così che possa alleviarle il dolore».
«Certo che ne sono in grado, sono la cuoca del Voivoda, mi metto subito all'opera per la signora, ditele di scendere tra un quarto d'ora... il tempo di prepararlo».
La dama si allontanò, ma non prima di essersi assicurata che la cuoca procedesse con quanto detto, così la vide prendere l'occorrente, pestarli in un mortaio e poi mettere tutto a bollire nell'acqua, fu una cosa veloce visto che il fuoco era già acceso da un po'.
Dhalia fece quanto le venne detto e si apprestò ad uscire dalla sua camera dopo un quarto d'ora: non sarebbe dovuta andare nelle cucine, ma voleva presenziare al quel banchetto senza che nessuno la relegasse in camera per via della sua indisposizione.
Dhalia, che camminava spedita, quando venne intercettata dallo sguardo di Călin che, allungando il passo, la chiamò: «Mia signora, mia signora permettete una parola?» Attese.
Dhalia, dal canto suo si voltò, non poteva ignorarlo; nonostante tutto aveva solo timore di non fare in tempo a bere quel decotto, non voleva essere intralciata o ostacolata, voleva essere presente per Stanislas e riuscire anche a parlarci.
Dhalia lo guardò un momento e poi si pronunciò: «Ditemi, prego». Decise di essere cordiale: sapeva da sé che quanto provava, quella gelosia che la prendeva allo stomaco, era illogico e irrazionale. Stanislas l'avrebbe sposata, come lei si era giurata a lui nonostante la scoperta di quel marchio che le procurava non pochi dubbi e preoccupazioni. Sapeva che il suo futuro sposo non era il tipo da giacere con un uomo e che non era colpa di Călin, se era stato punito con la condanna di un sentimento non ricambiato.
Aveva provato astio nei confronti del cavaliere che, con capo chinò, stava per parlare: un astio motivato dalla paura di perdere Stanislas; la sola idea le spezzava il cuore, soprattutto dopo l'esperienza appena vissuta che, nonostante le avesse fatto scoprire nuova forza, l'aveva fatta sentire anche più vulnerabile, più emotiva e pertanto poco incline al giudizio.
«Signora, ho capito le vostre intenzioni e sono qui per dirvi che non dovete temere nulla. Sua altezza ha rischiato la vita nella battaglia...»
Dhalia si portò una mano al petto, si sentì quasi mancare, «come dite? È stato ferito? Ma a me è sembrato stare bene quando è venuto da me».
«Sì, mia signora, sta bene, è tornato dal mondo dei morti per voi, solo per voi, ve lo assicuro. Come ora sono qui ad assicurarvi che non avete nulla da temere».
«Va bene, non vi preoccupate, non dovete temere nessun astio da parte mia, cavaliere. E ora alzate la testa, per favore».
Călin cominciava a comprendere come mai il suo generale si fosse innamorato di quella donna. Non solo perché era di straordinaria e selvaggia bellezza sebbene nascosta dietro i panni di una novella duchessa, no. Aveva visto in lei la nobiltà d'animo, la gentilezza e la fierezza che solo una dea sarebbe stata in grado di portare con tale grazia.
Alzo la testa e fece: «ancora una parola, vostra grazia».
«Ditemi, cavaliere».
«Ho giurato fedeltà al mio generale e lo seguirò ovunque a costo di perire per mano della mia stessa spada. Voi siete la sua futura sposa e pertanto giuro, altezza, in questo momento, fedeltà anche a voi: sappiate che potrete disporre della mia vita come meglio riterrete opportuno, vostra grazia». Si inginocchiò e abbassò il capo ancora una volta.
«La vostra fedeltà a sua altezza vi rende onore, Călin. Ma anche io voglio prestarvi giuramento. Sappiate che, per quanto valga il rispetto di una donna, voi avete il mio. Disporrò saggiamente della vostra vita e che vi sarò debitrice in eterno per la vostra lealtà».
A quel punto Călin si alzò tenendo sempre lo sguardo chinò per non offendere sua grazia. Dhalia lo congedò e Călin si sentì libero di andare e fiero di aver ricevuto tali onori dalla sua signora. Una signora che parlava come una regina.
Dhalia proseguì verso le cucine. Quando le domestiche la videro, si inchinarono subito, dubbiose al riguardo della sua presenza. «Non dovreste essere qui, vostra grazia», le disse una.
«Stai zitta, tu», l'ammonì subito la cuoca, che invece si avvicinò a Dhalia con il decotto in mano, pronta per servirla.
«Tenete vostra grazia, vi ho preparato un medicinale a base di semi di cumino e melissa; servono per attenuare i dolori mensili che ci affliggono. Spero possiate stare bene». Tutte adoravano Dhalia, per quanto fosse regale e distaccata negli atteggiamenti aveva sempre parole gentili, ringraziamenti e sguardi dolci verso la servitù.
«Vi ringrazio», disse portando il bicchiere alla bocca.
«Non dovete ringraziarmi, mia signora, ho fatto solo il mio dovere».
Finito di bere il decotto Dhalia uscì dalle cucine e le domestiche, dopo un altro inchino, ripresero a lavorare.
Stanislas era tornato nelle sue stanze. Se la terra aveva smesso di tremare, di certo non lo aveva fatto la testa; questa vorticava, vorticava, e lui si sentiva morire: come se fosse stato appena percosso per giorni, come se tutte le ossa del suo corpo fossero state fratturate. Voleva vederci chiaro, perché tutti quei sintomi avevano l'aria di un maleficio. Non gli sembrò strano pensarlo: lui stesso aveva maledetto Ahriman durante la giostra, e da quel giorno non aveva fatto che seminare nemici dietro di lui.
Da sotto il letto estrasse una scatola d'oro e legno pregiato, una sorta di grande cofanetto che riportava le effigi della famiglia.
Doveva chiedere, capire, individuare un modo per guarire da tutto quello che gli stava succedendo.
Lo aprì e ne estrasse un drappo di velluto nero dove all'interno aveva delle ossa. Voleva divinare come facevano i popoli del nord. Così chiese: «Mio signore è il vostro devoto che vi supplica. Guidatemi, indicatemi la via e la realtà. Ditemi che cosa mi sta succedendo». Lanciò le ossa sul drappo nero, la scarificazione dietro il collo gli pizzicò. Sapeva che il signore al quale era devoto lo proteggeva; lo aveva fatto fino a quel momento e avrebbe continuato a farlo.
Seguì l'andatura delle ossa, mentre queste cadevano sul drappo. Il messaggio era stato chiaro: la maledizione era scritta. «Dannazione!» Esclamò.
I suoi problemi sarebbero iniziati in quel momento, sapere di essere maledetto non lo avrebbe aiutato a togliere il maleficio. Certo è che poteva rispedire tutto al mittente, ma doveva comunque essere a conoscenza del nome di chi avesse osato tanto; inoltre era all'oscuro del fatto che, con quella maledizione, era stato legato proprio ad Ahriman e che, se avesse inflitto a lui un danno sarebbe stato come infliggerlo a se stesso. Più tardi avrebbe chiesto aiuto a suo zio o a Mira, la strega più potente che lui conosceva. Doveva cercare di rimettersi, di stare al meglio delle sue forze, perché doveva presenziare al banchetto che suo zio aveva annunciato per quella sera.
Il popolo doveva sentirsi al sicuro. Se avessero visto vacillazioni da parte dei regnanti, loro stessi sarebbero stati timorosi di un attacco; e invece no, si sarebbero mostrati tutti sicuri dinanzi al popolo transilvano, affinché questo non solo avrebbero seguito Volos, ma si sarebbe sentito protetto dallo stesso.
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