Capitolo 18
Stanchi e sporchi, mentre l'alba li rinvigoriva, i tre s'inoltrarono nella vegetazione: dovevano uscire da lì e riappropriarsi dei cavalli che, una volta per tutte, li avrebbero condotti al castello.
Il suono del bosco sembrava quasi innaturale alle orecchie di Călin. Sentiva il canto degli uccelli e lo scricchiolare dei rametti sotto le zampe degli animali selvatici, ma era certo che non si trattasse di una di quelle strane bestie che avevano appena decimato. Era tutto finito, gli pareva impossibile. Un momento prima il suo generale aveva rischiato la vita in un combattimento corpo a corpo contro un incredibile mostro, quello dopo erano tutti sani e salvi, a camminare lungo un sentiero soleggiato.
E di una cosa era certo Călin: si sarebbe rinfrescato, prima di mantenere la promessa fatta a quel Dio che neanche conosceva; una promessa fatta solo per amore. Avrebbe dovuto trovare il famigerato altare, però, e pensandoci gli venne in mente di chiedere a Stanislas. «Generale, sapreste dirmi dove posso trovare l'altare della vostra signora?». Soltanto lui avrebbe potuto saperlo, così si disse.
Stanislas si voltò incuriosito dalla domanda di Călin; e Dhalia, che ancora lo teneva sottobraccio per sorreggersi e definire bene cosa fosse suo, fece altrettanto: per quanto la riguardava, l'unica signora a lei conosciuta era la Vergine Maria, ma dubitava fortemente che il sottoposto del suo futuro sposo si stesse riferendo a lei. Così, ancora furente per l'umiliazione subita da Ahriman, tacque nel covare tutta la sua frustrazione, preferendo anzi ascoltare di cosa presto avrebbero parlato.
«A cosa vi riferite, Călin?». Non poteva fare a meno di ricordarlo com'era prima di entrare nel covo dei licantropi: un cavaliere impaurito dalla magia, che ciononostante lo aveva aiutato a salvare la sua sposa; e certo non rammentava promesse di sorta.
«Vedete, generale, quando eravate in pericolo... quando quel fetido mostro vi stava per schiacciare la testa sotto al suo piede...»
Sentendo quelle parole, uno strano senso di colpa prese vita nella mente di Dhalia: la sua ira non le aveva fatto rendere conto che Stanislas aveva rischiato la vita per salvarla. Seppur gli aveva dato un bacio degno di tale nome, lo aveva altrettanto accolto con una sonora sberla in pieno volto.
«Sì, me lo ricordo bene», affermò Stanislas, «ancora mi fa male la testa».
«Ecco, non sapendo che cosa fare, mi sono appellato alla vostra signora; è così che la chiamate, giusto? Lei sembra avermi ascoltato e in quel momento sono apparsi gli stessi rovi che ci avevano salvato in precedenza, però...». Călin sembrava titubante, aveva paura d'irritare il suo ammirato generale.
Ma questi lo spronò: «Su, avanti, Călin, cos'è questa attesa? Volete tenermi sulle spine?». Cominciava a spazientirsi, perché era uno di quelli che, con le parole, andava dritto al punto senza girarci intorno.
«In cambio devo portare delle rose al suo altare e proteggere la vostra famiglia dal diffondersi di questa notizia, starvi accanto ed esservi fedele».
Quelle parole non solo minarono lo spirito di Dhalia, ma testarono un altro sentimento ancora più infingardo, pungente e velenoso: la gelosia; e, nel frattempo che ci si stringeva dentro, così come nel mantello di Stanislas, neppure si accorse dell'«Ah», che le scappò di bocca. Era scalza, sul sentiero terroso del bosco, e aveva freddo, quando si trovò a dover ritirare un piede indolenzito, dopo essersi punta con il frammento di una roccia.
Fu allora che Stanislas la tirò su, stringendola in braccio con un abile e scattante gesto: non avrebbe badato a storie.
Tuttavia lei non era del suo stesso avviso. «Non era necessario», si lamentò, per mantenere il suo punto.
«Volete forse ferire i vostri piedi fino all'arrivo del cavallo? Non vi basta quello che vi ha inferto Ahriman?»
Il ricordo di quei giorni l'ammutolì: avrebbe preso il discorso al castello, ma nel frattempo ne approfittò per posare il capo contro la spalla di Stanislas, quasi a mostrare a Călin che, rispetto a lui, aveva un privilegio. Non aveva mai conosciuto ragazzi a cui piacessero altri ragazzi, ma era certa della loro esistenza, perché non facevano che dirle che era peccato, che nella Bibbia li definivano abomini; ma sarebbe stata clemente verso colui che aveva contribuito alla sua salvezza.
«Quando arriveremo al castello, Călin, chiedete a mio zio riguardo l'altare».
Călin strabuzzò gli occhi. «Devo chiedere a vostra altezza, signore? Non sarà troppo sfrontato da parte mia?».
«Per una domanda? No. Vedrete, mio zio accoglierà bene la vostra richiesta».
«Se lo dite voi, generale, mi fido», assentì, «ma ora mi è sorto un altro dubbio».
Stanislas alzò gli occhi al cielo, sospirando per a frustrazione; e Dhalia lo percepì chiaramente visto l'alzarsi e abbassarsi repentino del suo petto. «Di grazia, quale?», domandò
«Siamo in inverno. Le rose fioriscono a maggio, dove le trovo?».
Stanislas sorrise: era chiaro che Călin fosse decisamente all'oscuro di qualsiasi cosa che esulasse la religione cattolica; ma come biasimarlo? «Mio zio risolverà anche questo vostro cruccio. Ora tacete, per favore, o il mal di testa mi distruggerà».
Dhalia gli carezzò appena il viso, come a volergli lenire quel dolore, e guardandolo da quella posizione riuscì a intravedere ogni suo lineamento, ogni forma perfetta: l'incarnato rosato del volto, il naso dritto, le labbra appena carnose, che aveva saggiato, e le ciglia bionde, l'azzurro delle iridi che si scorgeva appena.
«Vedo i cavalli»: la riscosse così Stanislas. «Affrettiamoci, così saremo presto fuori da questo postaccio». Accelerò il passo affinché potessero raggiungere i destrieri.
Ahriman era stato tirato su per il farsetto come fosse un pezzo di carne da attaccare a un gancio: non gli mostravano misericordia, niente.
La ferita del suo addome traboccava ancora sangue, mentre lui respirava a fatica alla ricerca di un filo d'aria a cui aggrapparsi. In quel momento si fece diverse domande: si chiese se stesse facendo la cosa giusta, perché scagliarsi contro i Dubois non aveva portato ad altro che alla decimazione della sua famiglia. Tutto ciò che gli era rimasto era Lezebel e una schiera di licantropi portati lì dagli altri due dèi che lui stesso aveva imparato a chiamare demoni.
Stanislas era consacrato, invece, e lui ricordava bene il suo sigillo, così come il Dio a cui era legato. Sebbene non si mostrasse mai, questi era sempre e comunque pronto ad aiutarlo; tanto lui, quanto la signora che li aveva maledetti: al primo richiamo era sempre intervenuta per sbaragliare ogni avversario.
Ma per chi stava combattendo quella guerra? Chi era, davvero, il nemico? Ahriman era davvero confuso, una pedina nelle mani sbagliate.
Finì contro a quella che sembrava una sporgenza della parete rocciosa, appeso per il bavero, mentre la testa cadeva ciondoloni e si chinava di fronte a colui che neanche riusciva a vedere.
Avrebbe voluto parlare, ma non riusciva a pronunciare alcunché; avrebbe voluto alzare la testa, ma non ci riusciva; avrebbe voluto guardare in faccia quel chissà chi, anche se con un solo occhio, come Polifemo alla ricerca di Ulisse, ma non riusciva a fare neppure quello.
«Sei vivo per miracolo»: parlò quello che lo aveva raccolto da terra.
«Ma, se continui a giocarci, non lo sarà ancora per molto...»; Ahriman udì la voce di un altra creatura. Erano in due, quindi, ma nessuno di loro era il signore che venerava, colui che, nonostante tutto, si era rifiutato sempre di consacrarli a sé.
«Non mi rovinare il divertimento. Quanto pensi che ci metta a chiudergli questa ferita? Devo prima legarlo a quel biondino dalla scintillante chioma».
«Chi siete?», domandò Ahriman, tremando per la vita che lo abbandonava.
«Non te lo ha detto il tuo signore?», rispose quello scalzo davanti a lui, «Eppure è stato Azazel a chiamarci».
In quel momento, se Ahriman, fosse riuscito a percepire qualcosa di diverso dal dolore, avrebbe deglutito di preoccupazione, non sapendo chi si trovava d'innanzi. «No, non me lo ha detto», ammise.
«Ma lo sai. Avanti: se ti concentri, riuscirai a capirlo; oppure sei una bestia così stupida?».
Venne tirato per i capelli, proprio come lui aveva fatto con Dhalia; forse cominciava a capire cosa aveva fatto a quella poveretta, ma il suo odio, la sua ira, e il rancore che provava per il generale erano accecanti.
«Sei ripugnante, lo sai?», insistette la voce, dopo averlo visto bene in volto: l'aconito aveva sciolto l'occhio sinistro di Ahriman e il sangue continuava a colargli giù per il collo, fino al ventre squarciato e la mano offesa.
«Non dire così, adesso lo riporteremo come nuovo...»: a dirlo fu il secondo, lo stesso che Arhiman vide seduto sull'altare dove di solito era evocato Azazel. «.... ma l'occhio no». Lo intravide fare spallucce, come se stesse progettando una nuova creatura.
«Asmodeo, cosa vai farneticando? Non stiamo giocando a fare il creatore».
«Come sei severo, amico mio: l'occhio ferito, coperto con una benda di cuoio, lo renderebbe più affascinante», soppesò Asmodeo, «non credi? Le cicatrici ammaliano tutti... poi la mano gliela ridiamo e gli chiudiamo quella ferita», indicò, «che penso lo abbia appena fatto morire».
Il corpo di Arhiman cadde di peso dal gancio improvvisato.
«Maledizione! È tutta colpa tua, che mi fai perdere tempo con le tue farneticazioni», lo intimò; poi, senza neanche sfiorarlo, passò l'unghia appuntita dell'indice sulla ferita, che in qualche modo si cauterizzò con la sua energia. Afferrò Arhiman per il bacino, lo issò come un sacco e, senza delicatezza alcuna, lo scaraventò sull'altare di pietra. «Dobbiamo sbrigarci: questo sacco di pulci ci serve per arrivare alla chiave Enochiana», disse, «È dentro il castello, sì, ma prima li dobbiamo sfiancare, sfinire...», riprese al riguardo dei Dubois, «... e poi, una volta che saranno in nostro potere, riusciremo a prenderci tutto, a schiacciare Astaroth ed estorcergli la chiave Enochiana».
Asmodeo guardava incuriosito il suo amico, seguendolo nelle mosse che compiva: gli vide alzare le braccia e richiamare la vita di Ahriman.
«E ora torna in vita, lurida feccia», disse, «è Belzebù a ordinarlo»; era irritato anche per il solo fatto che Arhiman stesse impiegando tanto a riaprire l'unico occhio che gli era rimasto.
Perplesso, questi percepì di nuovo l'arto mancante e sollevò il braccio a guardarlo. «Sto bene...», mormorò incredulo.
«Certo, devo legare a te quel bellimbusto, ricordi?».
Ahriman non emise parola, si limitò a seguire gli avvenimenti: aveva già una maledizione che gli pendeva sulla testa, perciò cosa voleva fare costui? Stavano rovinando la sua anima, rendendolo come una mera bambola Voodoo.
Belzebù posizionò le mani sul suo volto, lì dove Stanislas gli aveva sputato l'aconito. Chiuse gli occhi e tirò la testa all'indietro, mentre l'altro Dio si godeva la scena, anche se un po' annoiato; poi, di colpo, si ritirò. «Quel lurido figlio di puttana», esplose, «lo ha maledetto in nome di Lucifero», e guardò Asmodeo. «Non posso consacrarlo, né renderlo immortale, o legarlo più di quanto sperassi».
«E ora?», si trovò a chiedere Asmodeo, preoccupato per la loro sorte e, allo stesso tempo, incuriosito dal modo in cui gli umani si sarebbero giocati la partita.
«E adesso posso solo infliggergli dolore», concluse Belzebù, «tutto quello che succederà ad Ahriman, di rimando accadrà a Stanislas».
Stanislas scese per primo da cavallo, facendo poi poggiare delicatamente i piedi a Dhalia; stava per riprenderla in braccio, quando una fitta gli arrivò dritta al volto. Non sapeva, ovviamente, che Ahriman fosse stato appena schiaffeggiato, tantomeno che il rituale della sofferenza condivisa fosse appena iniziato.
«Tutto bene?», gli domandò Dhalia, quando gli vide sollevare una mano per portarsela al viso, sulla guancia che prima non aveva offeso.
«Sì, mia cara, tutto bene», divagò, «Venite, entriamo per di qua, cosicché non ti vedano in queste condizioni». Ci teneva all'onore di Dhalia, già lo aveva messo in discussione una volta.
«Va bene», disse lei incamminandosi.
«Dove stai andando? Lascia che ti mandi il mio servitore per farti preparare un bagno caldo e profumato».
Lei si voltò. «Da quando sono duchessa, mi avete affidato una dama di compagnia: lei sarà più che in grado di prepararmi un bagno; o devo controllare se anche lei ha qualche strano marchio addosso?».
Stanislas sapeva che sarebbe tornata all'attacco su quel discorso, ma di certo non poteva fare niente al momento: avrebbe dovuto aspettare che si calmasse e riposasse, anche perché quello che aveva passato in quei giorni non doveva essere stato facile per lei.
Călin si era rinfrescato: non aveva più addosso l'odore del sangue, di quella grotta nefasta e di licantropo; si era vestito sobrio, per la mattina, con farsetto e calzabraga nera, come sempre aveva visto il suo signore; che usava il nero e qualche altro raro colore. Si disse che, forse, quello era l'abbigliamento giusto per portare l'offerta. Così si diresse alla ricerca di Volos, che se ne stava in camera, al suo scrittorio, intento nella lettura di un libro. Bussò e attese il permesso di entrare.
«Călin, che ci fate qui?», nel vederlo, Volos si alzò di scatto, «Stanislas?» domandò preoccupato.
«Signore, state calmo: abbiamo salvato la duchessa e lui sta bene», si affrettò a dire, «le loro altezze si stanno facendo un bagno caldo, come ho fatto io poco fa. Sua grazia ha preferito entrare dalle cucine, per non gettare la duchessa sotto gli occhi di tutti».
«Immagino fosse scossa».
Călin alzò le sopracciglia: l'avrebbe descritta furiosa, più che scossa.
«Cosa posso fare per voi?», riprese Volos, ansioso di sapere cosa ci facesse lì.
«Vostra grazia, devo portare delle offerte alla vostra signora».
«A Mira?», domandò, non immaginando che Călin si stesse riferendo ad Astaroth.
Călin arrossì imbarazzato. «Ma no, mio signore, devo portare offerte al vostro Dio, colei che il generale ha chiamato "mia signora". Mi sono appellato a lei per poterlo aiutare e la vostra signora mi ha ascoltato, ma in cambio devo portarle delle rose sull'altare. Il fatto è che non so dove trovare né l'altare, né le rose in questa stagione. Il generale, vostro nipote, mi ha detto di chiedere umilmente a voi, vostra grazia». Chinò la testa, attendendo che il suo signore potesse indicargli la via.
«Venite con me», Volos lo esortò senza aggiungere nient'altro e suscitò in Călin un po' di timore, poiché questi aveva paura di averlo indispettito.
Passarono per le parti più remote del castello, attraversarono sotterranei freddi, fatti di roccia, e sentieri di pietra bui, cunicoli diventati mistici grazie ai simboli dipinti sopra da Volos; e Călin, zitto, si disse che non conosceva niente di tutto ciò. Poi, entrarono in quella che sembrava un'abside, una stanza, un antro ricavato all'interno di una sala nascosta a chiunque, dove le candele erano appese alle pareti e radunate in prossimità di quello che sembrava essere un altare. Ai piedi di questo, in ginocchio e con le mani protese in avanti, stese sul pavimento, si trovava Mira in muta preghiera.
«Mira», la richiamò Volos.
Lei si voltò a guardarlo e rimase stranita di fronte a Călin. «Che ci fa lui qui?», chiese a Volos, con fare preoccupato, pensando che suo marito fosse improvvisamente impazzito.
«Călin deve portare delle offerte ad Astaroth, gliele ha chieste lui stesso».
"Lui?", si domandò Călin; se era un dio maschio, perché tutti lo appellavano al femminile? Gi sembrava tutto così strano, confuso: era chiaro che aveva bisogno di molte spiegazioni.
«Davvero?». Mira era incredula.
«Davvero», ripeté Volos, «Bene, vi lascio. Dagli le rose che gli servono e mostragli la bellezza e la potenza del nostro signore».
Senza neanche accorgersene, troppo distratto nel guardarsi intorno, Călin non si accorse nemmeno che Volos aveva già ripercorso la via del ritorno, mentre lui se ne stava lì, al centro della sala.
«Venite, Călin», lo esortò Mira, «porgetemi le mani, rivolgete i palmi verso l'alto».
Călin fece quanto ordinato e lasciò a Mira il compito di purificarlo con mirra oro e nera, accettando di seguito i petali secchi di rosa canina e qualche bocciolo di rosa essiccato. Ne rimase ammaliato: non che non avesse mai visto fiori, ma non aveva mai visto boccioli così perfetti e virginei, tantomeno petali di rosa canina, la rosa del deserto. «E adesso?» domandò immobile.
«Adesso potete adagiali sull'altare e dedicargli un pensiero. Dovete essere voi a farlo, non so quali sono i vostri accordi».
Călin si avvicinò timoroso all'altare, come se avesse paura che, di punto in bianco, potesse arrivare qualcosa a squarciargli le viscere; ciononostante si fece coraggio e posò sull'altare i fiori donategli da Mira. «Ecco i fiori che mi avete chiesto, spero possiate essere lieta», disse, «Mi auguro che le offerte vadano bene, per il resto non avete da temere: proteggerò Stanislas e i suoi mistici segreti fino alla morte». S'inginocchiò, perché gli veniva naturale prostrarsi quando doveva mostrare rispetto; e quello fu un gesto che Astaroth apprezzò parecchio; la dolcezza e la purezza di Călin gli scaldavano l'anima.
«Bravo, Călin, avete fatto bene. Ora dirò alla mia sacerdotessa di mostrarvi ciò che sono», Călin sentì nuovamente quella voce nella testa, ed era strano, perché non aveva mai sentito la voce del suo Dio; tuttavia, si disse che, se l'avesse sentita, sarebbe stata proprio così, perché era così che la immaginava: dolce, calda, premurosa verso i suoi figli.
Perciò si voltò verso Mira, come gli era stato detto di fare, e la vide avvicinarsi: era chiaro ai suoi occhi che fosse lei la sacerdotessa.
«So che devo darti delle spiegazioni, me lo ha comunicato la mia signora». Mira gli tese la mano per farlo alzare. «Non devi stare sempre in ginocchio, non vuole questo dai suoi figli».
«I suoi figli...», sussurrò Călin.
Mira lo intimò al silenzio per farsi ascoltare e, dopo aver chiuso gli occhi, prese un bel respiro e rivolse un ultimo sguardo all'altare. Tornò su Călin e iniziò a parlare: «Inanna, Astarte, Ishtar, Astaroth sono i nomi della mia signora. Guerriera, Vergine, amante, androgino. I suoi aspetti. Inanna è una forza energetica femminile indomita, dalle molte sfaccettature. È energia allo stato grezzo in attesa di esplodere per esprimersi, è la vitalità naturale della libidine ed è la mola contro cui il devoto affila il suo percorso verso la maturità spirituale», prese una breve pausa, pensando bene a come spiegargli tutta l'essenza della sua signora, mentre lui rimaneva estasiato da tanta bellezza e coraggio che erano caratteristici di quella Dea.
Dopotutto l'unica figura femminile a cui era abituato, che gli avevano insegnato a pregare, era la Vergine Maria, una madre benevola di cui non narravano altro.
«Lei è Inanna portatrice di felicità, il cui potente comando, con la spada in mano, diffonde splendore su tutta la terra. Signora degli incendi, Signora della furiosa battaglia, combatte fino a sottomettere».
Fu in quel momento che gli venne in mente il suo generale e tutto il suo prode coraggio: era evidente che fosse spinto e incoraggiato da tale potere, il potere che lo aveva generato.
«Ishtar signora di Babilonia, colei che funge da portale tra questo mondo materiale e quello spirituale».
Călin sentiva un profondo richiamo verso quella Dea: non sapeva se chiedere il suo aiuto fosse stata una conseguente conversione, o se le parole che pronunciava Mira, per descriverla, lo stessero ammaliando.
«Inanna, dice: Adorare in umile prostrazione, adorare nel più alto dei cieli, sono cosa di Inanna. Guidare l'esecuzione dei culti e dei rituali, sono cose che spettano a te, mia signora».
A Călin venne spontaneo chinare la testa in direzione dell'altare.
«Astaroth è un Dio ermafrodita, donna davanti al condottiero, uomo d'innanzi alla vergine, per saperli accogliere al meglio». Mira stava per continuare, quando si fermò: «... credo possa bastare, o finirò per confondervi. Se lo vorrete potrete vivere la Dea dentro di voi. Non vi farà pressioni, non vi indurrà alla conversione; né io lo farò, né Volos lo farà. Qui siete libero, Călin, di pregare quando volete. Ma badate bene a non rendere impuro questo luogo: deve rimanere oscuro a tutti». Mira lo avvisò e gli diede tutte le informazione che occorrevano; per il resto, però, avrebbe dovuto viverla, vederla in azione, parlarci: solo così avrebbe potuto capire davvero di cosa stessero parlando e cosa significava venerarla.
Uscito dal bagno, Stanislas si rese conto di non sentirsi molto bene. Diede colpa alla pressione che aveva ricevuto alla testa, ma la verità era che non si reggeva in piedi: era come se fosse debole, come se avesse le vertigini, tant'è che per sostenersi dovette aggrapparsi alle pareti rocciose. Ma era davvero possibile che la sua vitalità si fosse abbassata così, di punto in bianco, a causa dell'acqua calda? Non ci voleva proprio, si disse, certo che il peggio dovesse ancora venire.
Dal canto suo, Dhalia era rimasta a mollo nell'acqua fino al suo raffreddamento: lo sguardo era malinconico, triste, un po' perso. Sebbene, grazie alla sua trovata, Ahriman non fosse riuscito a violarla, la costrizione, le percosse e il buio, l'aveva turbata. Scoppiò in lacrime all'improvviso, in un muto pianto che rigava le guance e si perdeva nell'acqua stessa.
Lei era una donna forte, non era solita lamentarsi o abbattersi malgrado la giovane età, ma era davvero provata.
Richiamò la sua dama di compagnia dopo aver sciacquato il viso e si fece aiutare ad avvolgersi nel panno asciutto: non avrebbe permesso nemmeno a lei di vederla così fragile; e in quel momento, mentre si avvolgeva nel tessuto, lei e la dama si dovettero reggere tra loro, perché il castello subì uno scossone.
Volos si affacciò subito, per vedere cosa stesse succedendo. Aveva fatto bene a rinforzare ogni finestra, o porta di sorta; così si disse, perché vento, grandine e terremoto avevano preso a scuotere le fondamenta tutto di botto.
Note: Tutto quello che viene scritto su Inanna che altri non è che Astraroth è stato preso dal canto della sua prima sacerdotessa, poemi che lei stessa ha scritto più di 3.000 anni fa. Potete trovarli sul libro "Inanna signora dal cuore immenso" di Betty de Shong Meodor.
Tra l'altro il nome di Astaroth deriva da un'antica città della Giordania che si chiamava Astaroth - Carnaim, poi è rimasto solo Astaroth. Quindi da qui deriva il culto degli Astaroti, poi diffusosi nel medio - oriente prima che venisse demonizzato nella Bibbia.
Giusto per farvi capire a Sumer era Inanna, a Babilonia la dea Ishtar.
Inoltre questa spiegazione è anche per tutti coloro che pensano che io immagini un Dio/demone troppo buono o misericordioso, quando ancora non hanno letto tutto il romanzo. Io mi attengo ai fatti scritti, non invento niente, differentemente da altri, che descrivono a fantasia.
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