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Capitolo 1


Volos cominciava a sentire tutta la stanchezza di quell'assedio, perciò si decise a richiamare il suo fidato servitore. Gli disse: «Preparami dell'acqua, voglio togliermi il sangue dai capelli».

«Certo signore, provvedo subito, anche se ci metterò qualche istante: devo orientarmi all'interno del nuovo castello».

«Va bene, stai tranquillo, attenderò pazientemente».

Volos vide il suo servitore allontanarsi dopo essersi congedato con un inchino. Si guardò intorno assaporando il momento della vittoria: tutta la fatica che avevano impiegato lui, i suoi uomini e Stanislas, era stata ripagata. Tirò un sospiro di sollievo, poi sul suo volto si dipinse quasi un sorriso sinistro, mentre lui avanzava verso il trono. Quando si sedette, chiuse gli occhi: poteva sentire il freddo della pietra ostacolato dal tiepido calore emanato dal legno. E accarezzando le rifiniture dei braccioli finemente cesellati, si disse che, nonostante tutto, per i suoi gusti erano ancora piuttosto scarni; allo stesso tempo, Volos sentiva l'odore del sangue che, ormai secco, aveva intriso i suoi capelli, e non vedeva l'ora di togliersi quell'armatura pesante e quei vestiti logori, sporchi.

Più tardi, poi, avrebbe ricompensato anche il suo ferocissimo destriero. Era merito suo se era riuscito a sfrecciare nell'oscurità mentre calava la lama della spada sulla testa degli avversari, così si disse.

«Signore, ho preparato l'acqua come da vostra richiesta. È molto fredda, però».

«Non importa, ti ringrazio». Volos si sollevò dal trono e seguì il suo servitore, che aveva preparato il tutto nella stanza da letto di Vlad dopo aver cercato una stanza degna per il suo signore.

«Spero vada bene», azzardò.

«Hai scelto benissimo», assentì. «Ti prego, ora, di raggiungere gli altri e di sistemare il tutto al meglio per la cerimonia. I miei soldati stanno cercando di tranquillizzare e radunare la folla, che domani assisterà alla mia cerimonia d'incoronazione. Prima, però, devo ottenere la benedizione... come sai».

«Certo, vado subito».

Volos prese a trafficare con la sua armatura, tirandone via pezzo dopo pezzo e adagiandola piano al suolo. Era grato a quella ferraglia: troppe volte gli aveva salvato la vita. Tremò quando si sentì spoglio da quella corazza, con la pelle d'oca, che respirava di colpo. Era leggerezza, quella, una sensazione bellissima a suo dire.

Si fece coraggio e cominciò a sciacquarsi il viso con l'acqua gelida. Dovette strofinarsi parecchio affinché il sangue andasse via, tant'era secco sul suo volto. Poi fece altrettanto con le zone dove l'armatura stringeva e di colpo si decise: trattenne il respiro, si rovesciò il resto direttamente sulla testa per districare grumi e nodi dai lunghi capelli scuri.

Solo allora, con la testa bassa, si voltò. Vide sul letto i vestiti che il suo servo gli aveva prudentemente preparato. «Pensa proprio a tutto», disse.

Si stava vestendo, quando udì dei rumori provenienti dall'esterno. Così si strinse la cinta, tirò su la sua spada e si precipitò fuori per seguirli. Arrivato a destinazione si accorse di essere ancora negli appartamenti di Vlad e non poté fare a meno di pensare che qualcuno, chiunque fosse, le conosceva bene per muoversi al loro interno. Perciò si guardò attorno in cerca dell'intruso. «Dove ti sei cacciato?», borbottò a denti stretti. Doveva stare attento: tutti potevano essere potenziali nemici, poiché era un usurpatore.

Si arrestò e rimase in silenzio per qualche momento. Non aveva l'udito così sviluppato quanto una creatura magica, ma sapeva che concentrandosi avrebbe potuto percepire il respiro e il battito del suo cuore. Così chiuse gli occhi e lo sentì: un imbizzarrito quanto spaventato battito cardiaco che risuonava nel corpo di qualcuno.

Mosse qualche passo lento, cercando di non far crepitare il legno sotto di lui, e quando aprì le ante dell'armadio, quando abbassò lo sguardo, non trovò certo ciò che immaginava.

C'era un ragazzo accucciato, atterrato dalla paura, che si copriva il volto e la testa, come se il suo aspetto potesse indurre Volos a ucciderlo.

«Se mi dirai perché sei nascosto qui dentro, non ti ucciderò: hai la mia parola».

Il ragazzo sconosciuto si chiese quanto potesse valere la parola di un usurpatore, ma non aveva scelta. Si fece coraggio rivelando il suo aspetto, e Volos ne rimase colpito; davanti a lui c'era quello che chiaramente veniva definito albino, ma i suoi occhi non erano rossi come si aspettava, bensì erano azzurri.

Volos pensò subito che quel giovane non fosse umano, che lo sembrasse e basta: lo percepiva chiaramente, era una creatura particolare.

«Ebbene, signore, non sono qui per farvi del male. In tutta onestà non so se siate più crudele del sovrano precedente, ma sono abituato a nascondermi».

Volos gli tese la mano incuriosito e lo esortò a uscire.

Il ragazzo però scosse la testa con fare terrorizzato. «Non posso uscire alla luce, signore. Sono sensibile a questa».

«Puoi uscire, fidati. Devi fidarti. Se vuoi che io non ti uccida, che ti mostri misericordia rispetto a Vladirmir, devi fidarti di me».

Gli tese la mano, e Volos l'afferrò, cercando di farlo uscire piano da lì dentro, in modo tale che si accorgesse da solo della tenebra ormai calata sulla Transilvania.

«Dov'è finito il sole?». Si voltò attorno sconvolto, puntando poi gli occhi di Volos; ora che lo guardava bene, gli sembrava davvero imponente.

«Il sole è dietro quella coltre di tenebra», rispose, «Il mio Dio ha fatto in modo che si oscurasse per far sì che potessi portare a compimento il mio assedio e vincere questa battaglia. Solo dopo la sua benedizione il sole tornerà a sorgere. Quindi goditi questa oscurità».

Tutto era buio, ma a quel giovane sembrava come se Volos brillasse di luce propria. Nelle sue parole c'era come una dolcezza mal celata, una sicurezza e una devozione sconfinata verso il suo Dio. «Se posso, vostra grazia, qual è il vostro Dio?», chiese.

«Vuoi vederlo?». Volos gli sorrise.

«Davvero si può vedere?».

«Sì. Devi solo dirmi se c'è un posto dove posso ritirarmi».

«Certo signore, c'è una stanza delle torture e delle prigioni. Lì nessuno vi disturberà».

Sono sicuro che apprezzerà, si disse tra sé e sé pensando al suo Dio.

«Benissimo. Mi condurrai lì, ma prima devo prendere delle cose. Dobbiamo passare per la sala del trono. Rimani al mio fianco e nessuno dei miei uomini oserà dirti o farti niente». Volos era sempre grato a chi gli offriva aiuto.

E così fece: rimase accanto a Volos e ne approfittò per osservarlo meglio. Sembrava di un'altra terra, con una statura molto alta e lunghi capelli scuri a contornare un viso affilato, mascolino, ma per nulla volgare; anzi gli sembrava piuttosto bello, così come i suoi occhi scuri.

«Mi servirebbe il necessario per le evocazioni», disse Volos al servo.

«Certo, lo abbiamo portato dentro qualche minuto fa: ve lo vado a prendere, signore».

Volos si voltò verso il ragazzo sconosciuto e gli chiese: «Come ti chiami?». Non si faceva remore a usare con lui un tono informale, perché a suo dire non apparteneva ad alcuna casata, né aveva alcuna levatura sociale.

«Thalis».

Volos inarcò un sopracciglio e fece un sorrisetto malizioso. «Ti si addice».

Thalis arrossì, perché sapeva il significato del suo nome e sapeva anche che Volos gli aveva appena fatto un complimento: lo trovava bello, cosa che nessuno mai si era azzardato a dire, visto che una creatura come lui, nivea nella pelle e nei capelli, era spaventosa e non bella.

«Eccomi, signore, i vostri strumenti».

«Ti ringrazio». Volos congedò il suo servitore con un gesto della mano e proseguì esortando Thalis a condurlo verso quelle che erano le segrete.

Così accadde, e Thalis gli fece strada senza il minimo tentennamento, perché si era spesso trovato a dover cercare riparo in quei luoghi, a nascondersi laddove aveva visto fare cose mostruose. E mano a mano che scendeva, le immagini riaffiorarono nella sua memoria, così come la paura che Volos potesse ucciderlo da un momento all'altro. Deglutì, si disse che farlo adirare così all'improvviso non gli avrebbe portato nulla di buono. «Signore, potrei sembrare sfacciato, ma, posso sapere il vostro nome?», domandò Thalis.

A quel punto, Volos entrò nelle segrete senza prestargli più attenzioni. Sembrava che lo stesse ignorando, ma non era affatto così: era troppo preso dalla stanza cui si trovava e dal tavolaccio di legno cui avrebbe potuto preparare il tutto per il suo Dio. Dunque, silenzioso, posò sopra questo il suo occorrente magico ed estrasse il necessario. Lento, nel mentre, si ricordò di dover rispondere a Thalis e disse: «Volos Dubois, Granduca di Polonia, Duca di Prussia e ora Voivoda di Transilvania».

«Scusatemi, Vostra Altezza, se mi sono appellato in malo modo verso di voi». Thalis chinò il capo.

«Se terrai ancora la testa così in basso non potrai vedere la magnifica bellezza del mio Dio».

Thalis sorrise e tornò ritto, con gli occhi fissi sulla schiena di Volos, prima di sbirciare e osservare attento le sue movenze. Notò poi il suo daffare: sul tavolo, Volos aveva messo sparsi quelli che sembrano petali essiccati di qualcosa; forse rosa canina, o perlomeno così si disse; un olio essenziale profumato alla rosa, e quelle che parevano pietre. Allora, curioso, gli chiese: «Perdonatemi, Altezza, ma cosa sono quelle?».

«Questa è una resina, che bruciata profuma l'aria», spiegò Volos seguendo l'indice di Thalis, «Serve per chiamare gli Dei a noi: Mirra, viene direttamente da Israele». Prese un piatto in pietra e una candela. «Per bruciarlo bisogna fare cosi: si depositano i grani sulla pietra, si accende una candela al di sotto... e quando la pietra si scalda trasmette il calore alla mirra, facendo sprigionare il profumo dell'incenso».

Thalis era colpito: non aveva mai sentito parlare d'incenso, né tantomeno l'aveva visto. «E il resto?», lo incalzò. Sembrava un bambino deciso a indagare, e visto che Volos pareva bendisposto non si tirò indietro, si giocò il tutto per tutto.

«I petali di rosa canina sono l'offerta», disse, «Il mio Dio è originario di Babilonia e le rose canine sono i suoi fiori, mentre l'olio profumato alla rosa ne esalta l'odore. A breve comincerai a sentire l'aria della stanza impregnata da queste. L'incenso serve, come ho detto, a richiamarlo dolcemente».

Thalis vide Volos trafficare con la borsa, poi puntò la pergamena, la penna con il calamo e l'atrametaio che al suo interno conteneva un liquido scuro. Non disse nulla, ma si sentì comunque chiamare in causa con una domanda:

«Sai come viene ricavata la pergamena?». Volos gli vide scuotere la testa, perciò sorrise. «Dalla pelle della pecora», prese una piccola pausa, gustandosi l'espressione confusa sul volto di Thalis, «Si lascia essiccare e poi viene arrotolata: è molto preziosa, non va sprecata. Ma devo utilizzarla così com'è, vergine, e poi cancellerò con il raschietto quanto scriverò oggi per scrivere dell'altro quando mi servirà».

«E che c'è nella boccetta?». Thalis la indicò.

«Un inchiostro purpureo». Anche Volos spinse il suo sguardo verso il calamaio. «Vedi, il mio Dio si sposa bene con il colore dei reali; e il porpora, per gli antichi, era il colore supremo: il più bello, il più regale. E poi ha delle sfumature violette, Thalis. Devi sapere che il viola richiama lo spirito».

Thalis era totalmente catturato da quelle parole, tanto che non seppe cosa dire. Poi lo vide muoversi appena e, quando Volos si slacciò la cintura per togliere la veste, non capì perché lo stesse facendo. Rimase in silenzio, certo che avesse le sue ragioni, che fosse legato al rituale; tuttavia non poté fare a meno di sollevare un poco le sopracciglia.

Volos intinse la penna nell'atrametaio e con l'altra mano tenne ferma la pergamena. Iniziò a disegnare su di essa il sigillo del Dio: un pentagramma inscritto tra due cerchi. Poi segnò il nome. Astaroth.

Thalis non leggeva molto bene, ma conosceva le lettere e nella sua mente nacque una pronuncia strana; tuttavia a spaventarlo non fu quello, bensì il sangue: vedere Volos sanguinare all'improvviso dalla scarificazione sotto l'ombelico gli fece battere le palpebre, perché non c'era un motivo apparente.

«Non ti preoccupare», disse lui, certo che la cosa potesse disorientare Thalis, «Starò bene entro breve tempo: quello che vedi è solo un portale e presto sparirà».

La fiamma della candela vacillò, e non appena Volos smise di sanguinare, Thalis venne colto da una vampata di calore. Ai suoi piedi arrivò una coltre liquida e nera, che lo immobilizzò di terrore.

«Non essere spaventato», provò a dirgli Volos.

Impossibile non esserlo, pensò Thalis. E tenne la testa bassa in segno di rispetto, perché qualsiasi aspetto avesse quel Dio, essendo tale, immaginò che pretendesse di essere trattato come consono. Poi, da lontano, gli vide muovere qualche passo.

Apparve dal nulla, come se la materia e l'aria gli avessero dato forma.

Thalis lo vide camminare sulla coltre nera senza sporcarsi: era scalzo, quel Dio, e le sue dita erano agghindate con anelli dorati; le cavigliere ingioiellate con bracciali intarsiati e gemme preziose incastonate. Allora, incuriosito dal fatto che avesse arti apparentemente umani, Thalis si azzardò ad alzare la testa e lo vide. Era magnifico, così si disse, e non poté fare a meno di rimanere a bocca aperta di fronte a tanta bellezza: per definizione, un Dio. Non sarebbe potuto essere altro. Aveva la pelle diafana quasi quanto la sua e indossava una tunica nera, una di quelle che Thalis aveva sempre immaginato portassero gli antichi nel medio-oriente; i capelli lunghi e neri, gli occhi grandi, profondi, del medesimo colore, e il naso fino, il volto femmineo, le labbra seducenti. Il capo, decorato da preziosi gioielli dorati, non era da meno delle braccia: entrambe appesantite dalla regalità, con bracciali serpentini; uno che si mordeva la coda, l'altro con due più piccoli che s'intrecciavano fra loro.

Lanciò uno sguardo veloce a Thalis, che si sentì fortunato per questo, e poi si avvicinò a Volos. Non disse nulla, lo lasciò parlare:

«Mio signore, mia unica sovrana». S'inginocchiò.

Thalis pensò che un principe come lui avrebbe potuto sottomettersi in quel modo solo dinanzi al Dio che venerava. In silenzio, cercò perfino di non emettere un fiato e udì la voce di Astaroth:

«Volos, alzati», così gli ordinò porgendogli la mano.

Lui la prese e la baciò quasi in assoluta forma di venerazione.

«La sala delle torture... Sono onorato».

«Thalis, mi ha consigliato di evocarvi qui».

«Allora Thalis deve essere ricompensato». Il Dio lo guardò, e Thalis rimase senza fiato; non sapeva come reagire, cosa dire. «Prima, però, parliamo di te», riprese all'indirizzo di Volos, «Ti sono grato per aver preso il castello come ti avevo chiesto, spero che tu riuscirai a trovare quello che mi serve».

«Farò tutto quello che è in mio potere per trovare la chiave Enochiana nascosta tra queste mura».

«Te ne sarò per sempre debitore».

«Non dovete, mia signora, sono vostro devoto servitore».

«Questo lascialo decidere a me, Volos», gli disse mentre tra le mani stringeva i petali essiccati di rosa canina, lasciandosi invadere dall'odore dell'incenso. «Quanto mi mancano questi profumi... Sei sempre così gentile con me, Volos».

Volos sorrise compiaciuto e Astaroth mosse qualche passo verso Thalis, che nonostante tutto era rimasto a guardarlo sul filo di un rasoio, a metà tra l'estasi e il terrore; poi, quando la mano del Dio gli si avvicinò, Thalis chiuse gli occhi e si beò di quel tocco, udendo ancora la sua voce che proferiva una domanda:

«Allora, mia piccola creatura, come posso ricompensarti?».

Prima ancora che Thalis potesse rispondere, Volos intervenne e disse: «Non è umano. Me ne sono accorto io stesso e sono sicuro che anche voi lo sentiate: non si può esporre alla luce, ma vorrebbe tanto condurre una vita normale».

Come aveva fatto, Volos, a comprendere quale fosse il suo bisogno più grande in così poco tempo? Thalis non poté fare a meno di chiederselo, e dai suoi occhi sgorgarono delle lacrime.

«Mia dolce creatura, quanta purezza percepisco dentro di te», disse il Dio, «Poiché tu sei figlio della natura...», e lo baciò sulla fronte, «ti libero da questa potente e avvolgente oscurità: che tu possa vivere libero alla luce del sole, poiché io so cosa significa vivere in catene».

Pareva che Thalis non riuscisse a credere di essere sveglio, di star vivendo davvero quel momento: tutto gli sembrava surreale; ma, se davvero sarebbe stato libero, se finalmente avrebbe potuto lasciarsi accarezzare dai caldi raggi solari, allora anche lui avrebbe creduto in quel Dio.

Astaroth si voltò, tornò a Volos. «Prima che io vada», disse, «benedico la tua incoronazione. Finalmente domani potrai dare la tua cerimonia, Volos».

Tuttavia, prima ancora che Thalis potesse riscuotersi per ringraziare il Dio che gli aveva dato nuova speranza, se lo vide sparire dinanzi, nel nulla, proprio come era apparso. «Volos cos'è appena successo?», chiese a stento.

«Sei libero, Thalis», rispose lui. «Hai conosciuto la sua misericordia e il suo amore per tutte le creature». Spense la candela con due dita, poi arrotolò la pergamena e ripose tutto il resto nella sacca. Infine si rivestì e con un sorriso propose: «Andiamo a vedere se il sole è tornato?». Iniziò ad avanzare per primo, in fondo conosceva la strada.

E Thalis dovette seguirlo. Mormorò un: «Usciamo», e lo seguì fino in superficie.

Fuori, Volos vide la gente felice e rincuorata per il ritorno della luce; alcuni dei paesani, infatti, avevano interpretato diversamente l'arrivo di quello che taluni chiamavano usurpatore: perché se il sole era tornato, si dicevano, allora anche Dio autorizzava la presenza di Volos l'oscuro, il portatore di tenebra.

Thalis, ancorato alla grande entrata della fortezza, aveva però il timore che la luce potesse ferirlo come sempre aveva fatto.

«Stai forse dubitando?», gli domandò Volos in attesa che uscisse allo scoperto.

Thalis si portò le mani agli occhi per paura di essere accecato. Prese un bel respiro, mosse un passo in avanti e si accorse che il sole non sembrava procurargli dolore. Così ne mosse un altro e poi un altro, fino a raggiungere Volos. Non sentiva dolore, solo il calore dei raggi solari sul volto, perciò tolse le mani e alla fine lo vide: il mattino non lo ripudiava più.

«Non riesco a crederci, Volos, il vostro Dio ha compiuto un miracolo. Devo sapere il suo nome: ditemelo, vi scongiuro».

«Il suo nome è Astaroth».

Non fatelo a casa! Non evocate, mi raccomando xD

Info point: Il calamo era ricavato dalle canne vegetali che veniva intagliato. Con penna e calamo c'era anche il raschietto utile per cancellare gli errori.

L'atrametaio era un vasetto che conteneva l'inchiostro nel quale veniva intinta la penna. L'inchiostro si ricavava dalla combinazione di alcuni elementi: nero fumo ricavato dalla cenere, metallo, gomma, noce di galla (prodotta dalla puntura di vari insetti sul tronco, sulle foglie o sulle radici di alcune piante), solventi.

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