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Disagi

CAPITOLO 3

Disagi


Eleonora:

Alzai la zip dell'abito candido in seguito ad una dura lotta per farlo aderire al corpo. Un vestito di pizzi e merletti, con ricami particolareggiati e di esperta sartoria, risaltando le forme piene di Irina, il biondo colore dei capelli, e il seno gonfio. Un'altra cosa che non avevamo in comune.

Papà l'aveva definita "un'opera d'arte", rendendole omaggio. Era arrivato poco dopo 10: 30, e notando quanto fossimo in ritardo nei preparativi, era tornato indietro, ad avvisare gli ospiti in attesa. Ci sarebbe voluto più del previsto per l'arrivo della sposa. Persino le due volontarie, le prime cugine di Sam, sospettavano la mancanza della puntualità.

«Io dico che ce la facciamo», ci incoraggiò una delle cugine di Sam, accorsa in nostro aiuto.

«Parla di meno e agisci di più, dobbiamo applicarle un trucco leggero in venti minuti», riprese l'altra cugina, acconciando il velo della sposa.

Sollevai gli angoli della bocca al suono dei loro battibecchi. Mi ricordavano Pinco Panco e Panco Pinco, i buffi gemelli de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, ma la realtà era ben altra; provavo con tutta la determinazione possibile a non pensare all'arroganza di Dmitri. Alle sue mani, dalle dita lunghe, affusolate, e piene di anelli metallici. Alle spalle larghe e al fisico prestante sotto agli eleganti vestiti cuciti su misura. A quella bocca...

Avvampai al solo pensiero.

«Va tutto bene, Biancaneve?», domandò Irina, interrompendo il viaggio mentale su di lui. Seduta su uno sgabello foderato, davanti alla specchiera a parete, fissava con apprensione il mio riflesso, intento a spazzolarle la chioma folta, alle sue spalle.

Sfarfallai le lunghe ciglia un paio di volte, perplessa dalla remora, prima di risponderle: «Certo, perché?», sorrisi appena, avendo come unico risultato una smorfia d'imbarazzo.

In sottofondo udii le due ragazze litigarsi forcine e fiori.

Irina ricambiò con un risolino. Uno di quelli che sapevano scioglierti come neve al sole: «Perché mi stai pettinando da molto tempo, e sempre sullo stesso punto! Sembri pensierosa, che succede?», rinnovò ancora una volta.

Percepii in fondo al petto la morsa del senso di colpa, dispiacendomene. Lei era già in ritardo sulla tabella di marcia, se aggiungevo anche le fantasie oscene, non saremmo più uscite dalla camera d'albergo. Nefelibata, mi risuonò nelle orecchie.

«Scusami... Io...», iniziai, ma dovetti bloccarmi subito. Che cosa potevo dirle? Che suo fratello era un villano? Peggiore della madre, e perché? Perché volevo che mi baciasse?? Riflettei, diventando man mano sempre più rossa in faccia. Non potevo svelarle questo! Non oggi... E neanche nei giorni a venire.

«Insomma, dammelo», ascoltammo dietro di noi.

«No, dallo a me». I bisticci delle volontarie la distrassero abbastanza a lungo per potermi ricomporre.

Inspirai a fondo, riprendendo il discorso: «Ho solo caldo e non vedo l'ora di togliermi questo vestito di dosso», espirai l'aria dai polmoni. Detestavo mentire e farlo, mi causava un'insolita tristezza, soprattutto se raccontavo menzogne a mia sorella. Non avevo scelta. Sapevo che la verità le avrebbe causato dolore, così la seppellii dentro il mio cuore e lasciai che facesse del male a me. Ne valeva della sua felicità, in fondo.

Irina parve crederci. Infatti scoppiò in una fragorosa risata, coinvolgendo le due donne: «Immagino. Per te, che sei nata a Venezia, con un clima diverso rispetto a questo piccolo paesino di provincia, dev'essere difficile», ridacchiò divertita della mia goffaggine.

«È chiaro che non sei abituata», giunse alle conclusioni una.

«Ricordo quando andammo noi a Venezia», introdusse il discorso l'altra, iniziando a raccontare l'esperienza carnevalesca e catturando l'interesse delle altre due.

Terminai con la spazzola, posandola sul tavolo, lì vicino, e ultimando alcuni ritocchi conclusivi, mentre le due volontarie continuavano a narrare le bizzarre vicende venete, escludendomi dalla conversazione.

Mi chiedevo spesso se fossi stata o meno una comparsa nella vita degli altri, un'ombra di scena che faceva da sfondo all'esistenza dei miei cari. A volte, mi sembrava d'essere invisibile agli occhi di tutti, eterea per chiunque. Lo spettro di una ragazza che non c'era mai stata, persa fra note musicali e passi di danza. Un'anima errante intrisa di angoscia e sofferenza. Le persone non ricordavano nulla di me quando mi passavano oltre. La gente andava e veniva, fuori e dentro la mia vita, con la stessa fluidità delle onde del mare. E "lui" non avrebbe fatto eccezione. Dmitri Ivanov mi avrebbe dimenticata con la stessa facilità con cui ci si scordava l'ombrello in un giorno di sole. I grandi sentimenti e le buone intenzioni non avrebbero mitigato le pene esistenziali che percuotevano l'esistenza. Un distillato di dolore che sorseggiavo tutti i giorni. Platone sosteneva che l'Uomo si trovava a metà strada tra essere e non-essere... forse, pendevo dalla parte sbagliata.

«È diverso anche dai paesi freddi della Russia?», domandai lieve, sollevata nel cambiare argomento e istaurando un dialogo più leggero.

La sposa accavallò le gambe, a proprio agio: «I paesi dell'Est vi piacerebbero, in particolar modo a te, Ele. A Mosca c'è l'Accademia di balletto del Bol'šoj, il corpo di danza classica più antico e prestigioso del mondo! Dovresti provare ad avere un'audizione con loro, stai diventando sempre più brava», mi consigliò, complimentandosi delle passate esibizioni, ignara del mio pessimo stato d'animo. La danza era un altro tasto dolente, questo però non avrei potuto evitarlo.

Gli occhi delle cugine di Sam si posarono su di me, adocchiandomi come se fosse la prima volta che notassero la mia presenza, mettendomi in soggezione.

«Ho solo ballato in un paio d'opere, Rina. Non sono molto talentuosa», farfugliai, sentendo nascermi dentro, ancora una volta, il seme dell'imbarazzo. Le abbellii l'acconciatura con qualche altro fermaglio prezioso e fiori freschi, blu cielo, fra le ciocche dorate. La realtà era un'altra. Preferivo affrontare altri argomenti che non fossero sul mio futuro, sul balletto, e su di me.

La sposa mi rivolse un'altra occhiata da mamma apprensiva: «Non dire così. Hai danzato Lo Schiaccianoci due settimane fa», enfatizzò il titolo del balletto con orgoglio.

Accidenti a papà e alla sua boccaccia.

«Solo come personaggio secondario, ero una delle ballerine sul palco», giustificai l'entusiasmo di Irina alle due volontarie, ma lei mi interruppe.

«Alla scala di Milano! Ti rendi conto?! Quante altre giovani dotate di talento possono vantarsene?». La sua voce si alzò di un'ottava a quelle domande.

Io non sapevo che altro dirle. Ero disarmata, l'attenzione di tutte e tre era rivolta su di me. Che frustrazione! Certo che mi rendevo conto. Era una cosa grossa, lo sapevo bene che occorreva talento e sacrificio per arrivare a quel livello, ma non volevo illudermi. Il balletto, e la danza classica in generale, erano un mondo popolato da squali. Arrivare al successo sarebbe stato pressoché impossibile. Abbassai il capo rassegnata, trattenendo un sospiro sonoro. Sapevo che sarebbe stato il primo di una lunga serie, quel giorno. Mi tremavano le mani per l'agitazione, e le nascosi dietro la schiena, iniziando a contorcermi le dita, martoriandole fra loro. Mi torturavo spesso, causandomi piccole sofferenze fisiche che servivano a distrarmi dalle meditazioni logoranti.

La danza era la più grande passione che avessi, ma la folla, e tutti quegli occhi puntati addosso, a giudicarmi, erano la mia peggiore paura. E non riuscivo ad affrontarla. Essere costantemente osservata da tutte quelle persone, e soddisfare le aspettative dei familiari, delle insegnati, e delle compagne di corso avanzato, mi mettevano sottopressione, figuriamoci pensarlo a livello globale. Era difficile ma non riuscivo a confessare a nessuno questa mia debolezza. Rabbrividii al solo rimuginarci sopra.

Una ballerina che soffre di panico da palcoscenico. Ero proprio ridicola.

«Faremo tardi, se continuiamo a prolungarci qui dentro in questi discorsi», risposi invece, avviandomi alla porta e ponendo fine allo sproloquio.

Irina e le altre due, prese alla sprovvista, fissarono l'orologio da polso. Allarmate e senza dire altro, corsero fuori dalla stanza.

Le imprecazioni in russo di Irina si udirono per tutto l'hotel.

Liberai un sospiro rassegnato e le seguii docile, non prima di aver afferrato il bouquet di rose bianche, dimenticato sul tavolo. Traballai un paio di volte sulle gambe mal ferme, rischiando di cadere a terra. Non ero affatto agile con quei trampoli ai piedi – a meno che non stessi in punta. Un tratto distintivo delle donne Astrofiamma era la sbadataggine, pensai. Al contrario di altro, su questo eravamo molto simili.

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