Rientro in servizio
Un suono a intermittenza mi giungeva a tratti, a volte più ovattato e lontano, altre più nitido; ero sott'acqua e qualcosa mi stringeva il collo impedendomi di riemergere, se non per un breve istante in cui i miei polmoni provavano disperatamente a riempirsi d'aria, fallendo miseramente nell'intento.
Non respiravo, stavo annegando.
Spalancai gli occhi con il cuore che mi batteva all'impazzata nel petto, faticando a razionalizzare come avessi fatto a sfuggire alla mia sorte.
La risposta non poteva che essere una soltanto: era solo un sogno.
Con il respiro accelerato per il brusco salto dalla realtà onirica a quella concreta, spostai spasmodicamente lo sguardo sulla mobilia bianca che mi circondava. Ero nel mio letto e il sole cominciava già a filtrare dalle tapparelle lasciate semi aperte dalla notte precedente, raggiungendo ormai il cuscino e costringendomi a ripararmi gli occhi con la mano. Quei raggi erano fastidiosi, ma non aveva importanza, era già quasi un anno che non sopportavo più il buio totale.
Presi dei respiri profondi, avida di ossigeno che l'incubo mi aveva convinta di non avere, riuscendo a calmarmi un po' alla volta.
Quando mi sentii abbastanza tranquilla allungai la mano sudaticcia per intercettare la sveglia, che continuava a disturbare il silenzio con il suo trillo a intermittenza, ormai giunta alla seconda ripetizione. Era quello il suono che aveva tramutato il mio sogno in un incubo, portando a galla un ricordo di cui speravo di essermi disfatta ormai da tempo.
Sospirai con pesantezza per scacciare anche gli ultimi stralci d'ansia, che quelle immagini riemerse dai meandri della mia memoria si erano portate dietro, e mi stropicciai il viso con le mani, per allontanare le ultime tracce di sonnolenza che minacciavano di farmi riaddormentare.
Era un giorno importante e non volevo correre il rischio di tardare: avevo faticato troppo per avere quella possibilità e per nulla al mondo avrei dato motivo al mio capo di riprendermi, convincendolo a riferire al mio psicologo che non ero ancora pronta a tornare a lavoro.
Non ne potevo più di rimanere chiusa in casa e ancora meno desideravo tornare in quella maledetta clinica dove mi avevano portato via tutto, per il mio bene, ovviamente.
Presi coraggio e mi decisi ad alzarmi, intenzionata a fare una doccia; avevo bisogno di lavar via i resti di quell'incubo e lasciare scivolare insieme all'acqua il profondo senso di amarezza, che mi lasciava sempre la vista della foto inviatami tutte le mattine da mia madre.
Credeva di aiutarmi, di spronarmi a tornare padrona di me stessa, di darmi la giusta motivazione per riprendere saldamente le redini della mia vita, ma non si rendeva conto di peggiorare solamente la situazione, con l'unico risultato di rendermi forte della convinzione che le cose stessero bene così come stavano.
Avrei potuto evitare di aprire quei messaggi e farmi del male, ma consideravo quel rituale come una sorta di punizione, una stilettata al cuore che mi inumidiva gli occhi, dandomi la spinta che mi serviva a proseguire nel mio intento di rendere quel mondo un posto migliore, più sicuro.
Aprii l'acqua calda e la stanza si riempì rapidamente di vapore; dovevo sentire tutti i muscoli sciogliersi, non mi importava se a quella temperatura avrei potuto bollire un'aragosta.
Lasciai che i profumi liberati dai saponi mi calmassero di nuovo e appena pronta recuperai in fretta l'asciugamano per uscire dalla doccia; l'ultima cosa di cui avevo bisogno era pensare a come la mia vita fosse andata a rotoli.
Tenere lontani i pensieri e le emozioni era la mia sola priorità da circa quattro o cinque mesi e il modo più semplice per riuscire nel mio intento era tenere totalmente occupata la mia mente, quindi, come d'abitudine, accesi la musica lasciandomi stordire da essa.
Guidata dalle note, passai una mano sulla superficie dello specchio, creando dei cerchi alla rinfusa per liberarla dalla condensa e poter osservare il mio riflesso.
Mi sforzai di sorridere, mi ero ripromessa di farlo tutte le mattine, ma il risultato era ancora piuttosto forzato e artificiale, forse non ancora sufficiente per riuscire a ingannare davvero qualcuno, soprattutto chi mi conosceva bene come Thomas Harper, il mio capo.
Sbuffai, decidendo che come tentativo giornaliero fosse più che sufficiente e presi a districarmi i capelli che mi gocciolavano lungo il collo e le spalle.
Erano molto più lunghi dell'anno precedente, ma, a parte questo, li acconciavo ancora nello stesso modo: lasciando che si asciugassero naturalmente in onde, le quali ammorbidivano i miei lineamenti, diventati un po' spigolosi nel corso dell'ultimo anno, e conferivano una sfumatura leggermente argentea alle ciocche nere, quando colpite dal sole.
Mi avevano suggerito in molti di cambiare il colore o anche solo il taglio, come se questo fosse sufficiente a cancellare tutto, ma mi ero sempre rifiutata.
Non volevo essere diversa, non volevo cambiare neanche un dettaglio e comunque non sarebbe servito: non potevo scappare dai miei demoni perché me li portavo dentro e li vedevo, ogni volta che mi guardavo allo specchio, far capolino dal fondo dei miei occhi verdi.
Mi chiedevo se qualcuno giù alla centrale avrebbe notato il mio cambiamento o se sarei apparsa ai loro occhi come la stessa di sempre.
Certo in qualcosa ero diversa: ero molto più magra e scavata e, anche se il mio colorito era piuttosto sano, avevo delle preoccupanti occhiaie dovute al fatto che avessi non pochi problemi a dormire, ma non tanto marcate da non poter essere nascoste con un buon correttore.
Indossai qualcosa di accollato, dall'anno precedente avevo alcune nuove cicatrici e non mi andava di esibirle: non volevo vedere la commiserazione dei miei colleghi, volevo solo sembrare una normalissima trentenne che andava normalmente al lavoro, niente drammi, niente tragedie, niente ricordi, niente perdite.
Mi diedi un'ultima occhiata nello specchio ovale della mia camera, l'unico a figura intera, e, convintami che potessi andar bene, recuperai il cappotto color tortora e le chiavi dell'auto: una piccola e recente conquista concessami dal mio psicologo per premiare i miei progressi, decisamente più comoda del dover prendere l'autobus.
Il viaggio era stato sempre il momento peggiore, per questo mi avevano impedito di guidare: non consideravano salutare il lasciarmi così a lungo sola con i miei pensieri, ma ormai stavo bene, potevo affrontare quei quaranta minuti di traffico che mi separavano dalla centrale senza andare in frantumi.
La musica aiutava parecchio, dovevo solo stare attenta a non mettere il cd sbagliato: tenere la mente impegnata era il solo segreto.
Parcheggiai e mi fermai a guardare l'edificio dall'abitacolo della mia Honda grigio fumo prima di scendere. Stavo cercando il coraggio necessario per entrate nell'edificio e affrontare i miei colleghi. Sembravo quasi una ragazzina il giorno dell'esame tanto ero nervosa, ma non potevo restare in auto tutto il giorno e mandare in malora tutto il lavoro fatto in quegli ultimi mesi; avevo fatto troppa fatica per essere lì, per avere quella possibilità, dovevo scendere ed essere forte, qualunque cosa mi aspettasse tra quelle quattro mura.
Presi un grosso respiro e finalmente mi decisi; un passo dietro l'altro iniziai a macinare la distanza che mi separava dalla parte di edificio che ospitava le nostre postazioni, cercando di resistere al forte impulso di tornare indietro.
Cercai di comportarmi come se non me ne fossi mai andata, ma sentivo il silenzio che accompagnava il mio incedere e quegli sguardi sorpresi che si sollevavano mentre passavo loro davanti e seguivano ogni mio movimento.
Dubitavo che non fossero stati messi al corrente del mio rientro in servizio, ma avermi lì di fronte, dopo tutto quello che era successo, doveva essere davvero sorprendente.
Cosa stavano pensando? Che stessi straordinariamente bene nonostante tutto? Che fossi andata completamente fuori di testa? Si chiedevano forse quanto ci avrei messo prima di estrarre la pistola e far fuoco a casaccio su di loro?
Sarebbe stato divertente vedere la loro reazione se avessi deciso di farlo davvero, ma non avevo più la pistola e non avevo voglia di tornare alla casa di cura; però il pensiero mi fece sorridere e questo contribuì a farmi sembrare ben lontana dal baratro su cui in realtà mi dondolavo.
Micaela infatti mi venne in contro, i capelli color carota legati in una coda bassa e il viso rotondo un po' lentigginoso, era la novellina di turno quando lasciai, ma sembrava aver fatto un bel po' di strada da allora, sebbene i suoi lineamenti mostrassero ancora l'ingenuità che la contraddistingueva.
«Bentornata, detective» mi salutò calorosamente «la trovo straordinariamente bene, ci è davvero mancata.»
La cosa sbagliata da dire, ma le sorrisi lo stesso, più nel constatare che non fosse affatto cambiata che per le sue attenzioni.
«La ringrazio, agente Harris. Dove posso trovare il capo?» chiesi, ansiosa di terminare quella conversazione.
«Nel suo ufficio, come sempre» mi disse come fosse una cosa ovvia, pentendosi quasi subito del tono usato.
«Grazie» le risposi sbrigativa, non mi interessava affatto fare conversazione.
Sfortunatamente i miei colleghi non sembravano essere dello stesso avviso, dal momento che in breve mi circondarono per i convenevoli. Sembravano davvero contriti per quanto mi fosse successo e felici di vedermi nuovamente lì.
Mi lasciai sfuggire un sorriso divertito, era tutto così diverso da quando misi piede lì dentro per la prima volta, cinque anni prima.
18 marzo 2011
Allora ero solo una novellina, uscita da poco dall'accademia e con la testa piena di sogni e ideali. Quando arrivai al DB, il Detective Bureau, con il mio scatolone pieno dei miei effetti personali per arredare la scrivania, non stavo nella pelle.
Varcai la soglia quella prima volta sorridendo, eccitata da quel nuovo inizio così tanto agognato, guardandomi intorno curiosa, scrutando i volti di quelli che sarebbero diventati poi i miei colleghi.
Mi tenevano gli occhi addosso, seguendo ogni mio passo e mi sentii quasi lusingata da tutto quell'interesse, chiedendomi con chi di loro avrei lavorato nei giorni a seguire. Alcuni bisbigliavano e ridacchiavano tra loro, ma ne capii il motivo solo quando mi avvicinai alla scrivania e vidi i pochi oggetti datimi in dotazione disposti a formare un pene.
Uno scherzo piuttosto infantile e di cattivo gusto che riuscì a spegnere rapidamente il mio buon umore e il mio entusiasmo.
Mi voltai arcigna a scrutare i loro volti, in cerca del colpevole, che trovai in tre agenti appoggiati alla finestra, lasciata aperta per far entrare l'aria primaverile, piegati dalle risate; davvero molto maturo da parte loro.
Non aveva importanza, non dovevo iniziare assolutamente con il piede sbagliato e farmi dei nemici. Ero la novellina, era normale mi facessero scherzi; se avessi dato di matto, quella goliardica iniziazione si sarebbe trasformata in una faida.
Si erano divertiti, ma doveva finire là.
Scossi la testa, provando a rialimentare i tizzoni del mio iniziale entusiasmo e misi in ordine la mia postazione, senza preoccuparmi di loro.
Per mia sfortuna, però, non si ritenevano affatto soddisfatti e il giorno dopo trovai la mia tazza incollata alla scrivania, cosa di cui mi resi conto solo quando provai a sollevarla, tirandomi quasi dietro l'intero tavolo.
Di nuovo partì un coro di risate che mi fece voltare piuttosto inferocita; fu allora che intercettai un paio di occhi castano dorati che, a dispetto del colore, erano freddi come il ghiaccio e sembravano voler oltrepassare la mia pelle per studiarmi l'anima.
Non ero mai stata così a disagio prima, mi sentii sotto esame, come se quella semplice occhiata fosse in grado di spogliarmi della mia corazza e mettere a nudo tutte le mie debolezze e la mia inesperienza. Tuttavia, fu una sensazione solo mia, visto che lui distolse rapidamente l'attenzione da me per tornare al suo lavoro, valutando quel piccolo incidente solo come una fastidiosa distrazione.
Il capo del Detective Bureau, ovviamente, non si spese in convenevoli e, dopo un benvenuto che sembrava quasi una lista di avvertimenti, iniziò a darmi del lavoro da fare: non tollerava che si stesse con le mani in mano mentre la città aveva bisogno di noi.
Di fatto, però, ero la nuova arrivata e perciò mi toccavano, come da prassi, i lavori che nessuno voleva fare; per lo più erano scartoffie e quando una delle agenti mi portò una pila infinita di carte, sentii ridacchiare uno dei tre che si divertiva a torturarmi, l'agente con i capelli castani, la barba, corta e ben curata, e il fastidioso ghigno sarcastico che sfoggiava per deridermi e darmi ai nervi, rispondente al nome di Alan.
Diede di gomito agli altri due, Mitch, biondo con gli occhi castani e il fisico asciutto, e Karl, capelli neri, occhi nocciola e mole di un gigante; di solito quello era il segnale che stesse per tirarmi qualche brutto tiro per far sganasciare l'intero Bureau. Si diresse verso di me, passandomi di fianco con ostentata indifferenza, palesemente smascherata dal sorrisetto arrogante con cui accompagnava le burle infantili.
Mi lasciai distrarre dalla sua faccia da schiaffi, senza notare il movimento della mano con la quale sfiorò la pila di scartoffie che troneggiava sulla mia postazione, facendole riversare in una pioggia sul pavimento.
Sollevai lo sguardo su di lui, fulminandolo inferocita, ormai stufa dei suoi tiri mancini.
«Oh, scusami tanto, novellina; come sono maldestro» ironizzò calcando un finto tono contrito che fece sbellicare Mitch e Karl.
«Si può sapere che problema hai?» Gli abbaiai addosso, stanca delle loro angherie gratuite.
«Di cosa stai parlando, novellina?» Continuava a usare un tono canzonatorio per prendersi gioco di me.
«Sto parlando di questi stupidi scherzetti. Ti sembrano forse divertenti? Mi ci vorrà tutta la mattinata per rimettere in ordine questo pasticcio» contestai indicando le carte sparpagliate disordinatamente sul pavimento.
«Non c'è bisogno di ringraziarmi, almeno ho reso più interessante e movimentata la tua inutile mattinata alla ricerca di gattini scomparsi e anziani confusi» puntualizzò per provocarmi.
«Non mi occupo di gattini sperduti» risposi con forse troppa vemenza e alzando il tono, proprio quando il capo fece il suo ingresso nella stanza.
«Cos'hai da urlare, Steal? E cos'è questo disastro?» Era il mio primo rimprovero, davanti a tutti, tra l'altro.
«Chiedo scusa, i plichi devono essere scivolati» risposi a testa bassa, mordendomi la guancia per non incolpare il vero responsabile, ma se avessi fatto la spia sarebbe finita davvero male.
«Metti in ordine questo pandemonio e fa che non ti senta più starnazzare come un'oca a cui si è spezzata un'unghia: questa è una centrale, non l'allegro club del ricamo» ordinò con fermezza dando un'occhiataccia generale.
«Sì, signore.» Mi affrettai a inginocchiarmi per raccogliere i fogli, accatastandoli a casaccio sulla scrivania.
«Tornate a lavoro: lo spettacolo è finito» sbraitò dirigendosi al suo ufficio nel quale si rinchiuse sbattendo la porta.
Alan prese un foglio dalla montagna che stavo disordinatamente formando e lo osservò per bene.
«Scusami se ti ho fatto perdere del tempo prezioso. Adesso il povero Mr. Fluffy potrebbe essere ovunque.» Sventolò il foglio con la foto di un gatto scoppiando a ridere, presto imitato da molti altri.
Mi lanciai contro di lui con un grugnito, cercando di strappargli il foglio di mano, ma lui indietreggiò di un passo e così facendo fece cadere di nuovo tutti i documenti, scoppiando a ridere ancora più sguaiatamente, lasciando infine cadere la denuncia di scomparsa di Mr. Fluffy.
«Ops, te ne è caduto uno.» Tornò ridendo verso gli altri agenti, che lo accolsero con pacche sulle spalle, lasciandomi a raccogliere fogli e cartelle, bollendo nel mio fumante brodo di rabbia repressa, senza che nessuno si offrisse di aiutarmi.
Il tipo dagli occhi castano dorati mi diede appena un'occhiata distratta poi, afferrato un fascicolo, si diresse verso l'ufficio del capo, ignorandomi bellamente.
Non sapevo se fossero peggio le canzonature di Alan o il completo e totale disinteresse dell'agente dallo sguardo di ghiaccio. Le prime mi mettevano in ridicolo, ma probabilmente erano solo la manifestazione di un rito di passaggio; l'atteggiamento dell'ultimo, al contrario, era la palese espressione di cosa pensasse di me: valevo talmente poco come agente che praticamente era come se non esistessi affatto.
Nei giorni successivi feci del mio meglio per svolgere il mio inutile e umiliante lavoro; ero entrata in polizia con ambizioni un po' più elevate dello scrivere pagine e pagine di rapporti su gatti scomparsi e anziani confusi di cui dovevo rintracciare i familiari.
Il lavoro non mi soddisfaceva e facevo fatica a legare con i colleghi, rendendo l'atmosfera generale davvero pessima, soprattutto perché Alan, Mitch e Karl sembravano avere il solo scopo di rendermi la vita impossibile.
La mia sola speranza era che, impegnandomi al limite delle mie possibilità, i miei sforzi sarebbero presto stati premiati dal capo con l'assegnazione di un caso che mi avrebbe portato il rispetto degli altri. In fin dei conti si comportavano in quel modo solo perché ero la novellina, avrebbero smesso se fossi riuscita a guadagnarmi il loro rispetto.
Le cose, però, sembravano non voler mutare, fatta eccezione per qualche collega che aveva iniziato a prendere a noia gli scherzi degli altri e, deposta l'ascia di guerra, aveva cominciato a rivolgermi la parola durante le pause.
Stanca dell'andamento della mia vita sociale e lavorativa, decisi di prendere in mano la situazione, mettendo in atto una strategia che mi avrebbe portata dove volevo arrivare: tesi alcune imboscate al capo, durante le quali arrivai quasi a supplicarlo per l'assegnazione di un caso. Ogni mio tentativo però, alla fine, si concludeva sempre allo stesso modo: con lui spazientito, che mi diceva sarcasticamente di continuare a occuparmi di ciò che facevo, visto che i casi non mi mancavano di certo, per poi chiudersi nel suo ufficio insieme all'agente che più di tutti mi ignorava e che rispondeva al nome di Laurence Jack Crow, uno dei migliori agenti del dipartimento, a quanto si diceva.
A lungo andare, però, le cose iniziarono a smuoversi, non so se grazie alla mia strategia di esasperazione o alla semplice congiuntura di alcuni eventi.
Ricordo però chiaramente quanto mi stupii sentirmi riferire dall'agente Nils che Harper voleva vedermi.
Non riuscii a trattenere minimamente l'entusiasmo e quasi mi venne di fare la linguaccia ai miei persecutori; mi trattenni solo per sembrare più matura di loro. Quindi, raccolta la mia esuberanza e, nascostala dietro una patina di professionalità e ostentata indifferenza, mi avviai all'ufficio del capo, dinanzi al quale mi bloccai, incapace di bussare, visti i toni alterati che sentivo provenire dal suo interno.
«Siamo in carenza di personale, Jack, e non posso permettermi di sprecare risorse del dipartimento per gatti e vecchi rimbambiti» esclamò severo Thomas Harper, il nostro capo.
«Non ho bisogno d'aiuto: io lavoro meglio da solo.»
Riconobbi la voce dell'agente Crow, anche se lo avevo sentito parlare davvero poche volte dacché avessi iniziato a lavorare lì.
«Questo non è un caso come gli altri, abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile e lo sai anche tu» insisté il capo.
«Una novellina disadattata non è certo un aiuto e se il caso è davvero così complesso come dici non ho voglia di star dietro anche a una ragazzina.»
Avevo la spiacevole sensazione che si stesse parlando di me e non mi piacevano i toni che stava usando quell'agente, né che si prendesse la libertà di sminuirmi a quel modo con Harper.
«Allora ti conviene darti da fare per trasformarla in un agente vero» concluse lui venendo ad aprire d'improvviso la porta, trovandomi lì davanti a guardarli boccoloni, sconvolta dall'essere stata scoperta a origliare una conversazione privata.
Spostai lo sguardo tra i due, cercando inutilmente qualcosa da dire che potesse giustificare la mia presenza, o meglio il fatto che non avessi bussato, ma che fossi rimasta a origliare.
Entrambi però sembrarono non accorgersi affatto che fossi lì davanti a fissarli con la faccia da pesce lesso e non diedero minimamente peso all'imbarazzo che stessi provando in quel contesto.
«Da questo momento siete partner, congratulazioni» annunciò severo il capo, già piuttosto infastidito e annoiato dalla discussione che si era tenuta pocanzi.
Mi sorpassò senza darmi altra considerazione, per poi andarsene a sbollire chissà dove, lasciandomi lì a guardare l'agente Crow con un palmo di naso, a bocca aperta, senza sapere cosa dire o cosa pensare.
Provai a farfugliare qualcosa a quello che mi era stato imposto come partner, provando a spiegarmi, in modo da non cominciare quella collaborazione già con il piede sbagliato. Ero armata di tutte le migliori intenzioni, ma lui mi passò accanto senza degnarmi di uno sguardo, né di una parola, come se non esistessi affatto, mantenendo un'espressione fredda e dura, di totale distacco e forse anche leggermente infastidita.
Avevamo iniziato davvero alla grande.
A distanza di cinque anni da quell'inizio di collaborazione ero tornata di nuovo in quell'ufficio per riprendere servizio e, guidata da quei ricordi così nostalgici, portai lo sguardo alla sua scrivania, ormai passata a un nuovo proprietario.
Tre anni dopo il nostro incontro, Jack era entrato a far parte dell'FBI e si era trasferito altrove, ma la cosa non mi stupiva, aveva stoffa da vendere quel ragazzo, all'epoca poco più che trentenne. In fede mia era il miglior agente che quel dipartimento avesse mai visto, anche se non glielo avevo mai detto apertamente per non gonfiare ulteriormente il suo ego.
Sostai appena un attimo con lo sguardo in quella direzione, ma lo distolsi subito, per non turbare il ragazzo che adesso occupava la sua postazione e mi ritrovai davanti Alan con un'espressione davvero contrita.
«Detective, sono contento di vederti di nuovo a lavoro.» Il suo tono era completamente diverso da quello che aveva all'inizio, non c'era più il sarcasmo e la sufficienza con cui mi trattava, non c'era più ironia nell'uso del mio titolo.
In quei cinque anni erano cambiate tante cose e mi ero guadagnata il suo rispetto e forse anche un po' del suo affetto.
«Serviva qualcuno che ti tenesse in riga, Alan, e che proteggesse i novellini dai tuoi scherzi» gli risposi con un sorriso tirato, esibito meccanicamente grazie ai miei allenamenti mattutini, sperando di deviare il discorso che minacciava pericolosamente di prendere la piega della commiserazione.
Lui fece spallucce. «Lo sai che è un rito di passaggio, senza di me forse non saresti neanche detective.» Mi strizzò l'occhio e io mi sforzai di tenere ancora un po' il sorriso sulle labbra.
«Ti darò dopo una bella tirata di orecchie, adesso ho appuntamento con Tom.» Sollevai una mano in segno di commiato e tirai dritto verso l'ufficio del capo, incapace di ostentare ancora quella smorfia mendace sul mio volto.
Ero lì da neanche un quarto d'ora e ne avevo già abbastanza delle chiacchiere e delle persone.
Arrivai alla porta e stavolta non sentii voci discutere animatamente dall'interno, c'era solo il silenzio di un uomo che si stava preparando ad affrontare una conversazione assolutamente spiacevole per entrambi e decisamente difficile da gestire.
Il silenzio non era la sola differenza con i miei ricordi: ero una donna diversa da allora, più forte, più sicura, più decisa o almeno intenzionata a sembrarlo.
Bussai senza tergiversare ulteriormente e aprii la porta appena ricevetti il permesso dalla voce profonda e decisa del capo.
Mi sorrise calorosamente appena mi vide entrare: un'altra differenza con il periodo in cui iniziai il mio lavoro in questo Bureau.
«Emma, che piacere vederti, accomodati pure.» Mi indicò una delle due sedie di fronte alla sua scrivania di legno di noce a cui presi posto, cercando di ricambiare l'affetto e la cordialità che mi aveva riservato.
«Tom» lo salutai con un gesto del capo.
«Come vanno le cose? Ti trovo in splendida forma» mi disse indicandomi con un gesto verticale della mano.
«Sono felice di essere finalmente tornata, mi è mancato questo posto.» Osservai la stanza, notando i piccoli cambiamenti apportati negli ultimi mesi. «Come sta la tua famiglia?» chiesi cortese, incrociando una foto sulla scrivania, ma senza la reale intenzione di ascoltare la risposta, volevo solo rompere il ghiaccio dopo tutto quel tempo.
«Ellen sta bene, si è data al giardinaggio; ha un po' di difficoltà ad accettare il fatto che il maggiore sia andato al college. Penso che le prenderò un cane per Natale, potrebbe esserle d'aiuto.»
Mi sforzai di sorridere a quel quadretto, ma l'incombere delle feste non mi metteva certo di buon umore.
Lui sembrò cogliere un lampo di tristezza sul fondo dei miei occhi, anche se mi impegnavo costantemente per dissimularlo.
«Emma, mi dispiace per come sono andate le cose, ma non è ancora tutto perduto, vedrai che...»
«Hai già qualche caso per me?» Lo interruppi bruscamente. Non volevo nella maniera più categorica sapere come fare per rimettere in sesto la mia vita, avevo già tutto sotto controllo.
Lui mi fissò, indeciso se insistere o lasciar perdere, ma, dopo una valutazione della piega che poteva prendere per entrambi quella conversazione, optò per la seconda ipotesi con un sospiro molto marcato.
Stava giocherellando con un foglio che aveva sulla scrivania da quando ero entrata, tamburellando le dita su di esso o sollevandone un angolo; gesto grazie al quale riuscii a scorgere il timbro del mio psicologo: non dovevo sbagliare se non volevo tornare in clinica.
Mi sforzai perciò di essere cordiale.
«Scusa, non volevo interromperti, solo che non vedo l'ora di tornare alla normalità e dimostrare a quelli del tribunale di avere un lavoro e una vita stabile.» Per non dire di essere una persona stabile.
Non volevo toccare quel tasto, era terribile anche solo alludere alla possibilità di poter avallare delle pretese, ma non volevo si facesse un'idea sbagliata.
Lui mi osservò ancora per qualche momento, indeciso, ma alla fine scosse la testa, ritenendo plausibile la mia giustificazione.
«C'è stato un incendio in una palazzina, poco fuori città, la natura degli eventi sembra sospetta: vorrei che andassi a dare un'occhiata.»
Un caso banale e di certo non quello che mi interessava, ma avevo già messo in conto che non si sarebbe fidato, dovevo riguadagnarmi il suo rispetto e convincerlo di poter essere ancora un ottimo agente.
«Perfetto, comincerò quanto prima.» Non dovevo fargli capire quanto la cosa mi facesse sentire frustrata; voleva una prova di fiducia, bene, allora era proprio ciò che gli avrei dato.
«Frena il cavallo» esclamò, vedendomi in procinto di alzarmi «c'è ancora una questione di cui dobbiamo discutere.»
«Di cosa parli?» chiesi, sperando che si riferisse all'intenzione di restituirmi la pistola d'ordinanza.
«Ho accettato di riprenderti in servizio, ma il dottor Lionell ha posto una condizione al tuo reintegramento sul campo.» Si lisciò i capelli brizzolati ai lati della testa per poi accarezzarsi i baffi; odiava profondamente le discussioni, soprattutto quel tipo che minacciava di diventare una crisi emotiva da un momento all'altro.
«Che genere di condizione?» domandai, cercando di ostentare calma e compostezza.
«Dovrai essere affiancata da un partner» sputò fuori mordendosi le labbra, in attesa dello scoppio isterico che si aspettava da me.
«Non voglio nessun partner» risposi con tono freddo e asettico, cercando di non lasciar trasparire nessuna emozione.
«È necessario, se ti rifiuti non potrò riammetterti» spiegò.
«Forse non mi hai capita: non mi serve nessun partner, lavoro meglio da sola.»
A quella frase sbuffò una risata.
«Mi sembra di risentire una vecchia discussione.»
Probabilmente gli era tornato alla memoria lo stesso episodio che avevo ricordato io pocanzi.
«E questa finirà esattamente come finì quella.» Si alzò dalla scrivania dandomi la schiena e prendendo a osservare fuori dalla finestra. «I federali ci stanno addosso, non voglio mentirti, c'è un motivo per cui hanno premuto così tanto per il tuo rientro.»
Incollai gli occhi sulla sua schiena, la camicia se ne stava ben dritta, dimostrando in maniera impeccabile le doti domestiche di Ellen.
«Voglio che tu sappia che mi sono opposto, ho fatto ricorso a tutta la mia influenza per non coinvolgerti, ma i federali hanno alzato la voce più di quanto abbia fatto io: manderanno un uomo per "collaborare".»
«Collaborare? Credevo che noi e i federali non fossimo in buoni rapporti e tra l'altro questa città non è sotto la loro giurisdizione» obiettai.
«Tutto in questo dannato paese è sotto la loro giurisdizione se lo vogliono e in un anno sono cambiate tante cose; ormai è diventato un caso federale e tu sei l'unica che abbia avuto a che fare con lui.» Sospirò incurvando le spalle. «Non prenderai parte alle indagini, ma non posso impedire a quei damerini di affiancarti e farti domande; lo capisci, vero?» Si voltò finalmente a guardarmi.
«Quindi il mio "partner" sarà uno di loro?» Questo non ci voleva proprio, non avrebbero avuto così tanto riguardo nei miei confronti e rischiavo seriamente di essere, oltre che estromessa, anche tenuta sotto stretto controllo.
In quelle condizioni sarebbe stato davvero difficile condurre delle indagini per conto mio.
«Non è ancora arrivato, ma sarà presto qui. Ho le mani legate, Emma» si scusò quasi «non avrei mai voluto sottoporti a tutto questo.»
«Forse era meglio non lamentarmi del partner interno.»
Non aveva avuto scelta e non ne avevo neanche io: non potevo fare altro che approfittare del tempo che mi restava per condurre qualche ricerca in autonomia e studiare con calma la scheda dell'agente che mi avrebbero affiancato.
Non era giusto che risolvesse lui il caso usando le mie informazioni; quell'indagine mi aveva distrutto la vita e solamente io potevo mettere la parola fine a quella terribile storia, non avrei lasciato a qualcun altro l'onore.
Uscii dall'ufficio piuttosto frustrata, portandomi dietro la cartella con le informazioni del federale che mi avrebbe affiancata, e la abbandonai sulla scrivania, senza degnarla di un'occhiata; l'avrei letta per bene più tardi, in quel momento dovevo dedicarmi ad alcune ricerche.
Dopo diverse ore avevo la schiena tutta incriccata e un gran bisogno di alzarmi.
Caricai quindi tutti i file circa il caso che mi interessava su di una pennetta e dopo essermela messa in tasca mi decisi ad alzarmi e a raggiungere l'area ristoro per farmi un caffè.
La stanza era piuttosto spoglia, fatta eccezione per il lungo bancone su cui giaceva la giara con il caffè. Quella era forse l'unico posto a non essere cambiato affatto, se si escludeva la pianta finta che aveva fatto la sua comparsa di fianco al mini frigo dei budini.
Non c'era nessuno a parte me e la cosa non mi dispiaceva, desideravo godermi in assoluta pace e silenzio il mio caffè bollente, ma nessun momento simile dura mai molto a lungo.
«E così adesso sei una detective? Ne hai fatta di strada, ragazzina.»
Una voce divertita, intrisa di sarcasmo e dal tono suadente.
Sorrisi tenendo la tazza calda con entrambe le mani davanti al viso, per soffiarvi sopra.
Avrei riconosciuto quella voce tra mille, anche senza voltarmi; apparteneva all'unica persona che mi fosse mai davvero mancata e che non avrebbe dovuto essere lì.
«Disse il pezzo grosso dell'FBI.» Mi voltai, felice di poterlo rivedere, anche se provai ad atteggiare la mia espressione a divertito sarcasmo. «Che ci fai da queste parti?»
«Mi hanno detto che c'era una ragazzina spaesata alle prime armi, alle prese con un caso più grande di lei, che aveva bisogno di un baby sitter.»
Non era affatto cambiato: i capelli neri disordinati in contrasto con il pizzetto curatissimo, lo sguardo intelligente e distaccato, il sorriso sarcastico e strafottente; un uomo impossibile da sopportare e con seri problemi nel relazionarsi agli altri, ma con una mente talmente acuta da aver fatto rapidamente carriera nell'FBI. Se c'era una persona che poteva aiutarmi a risolvere quel maledetto caso quello era lui.
«E ti sei offerto volontario, ma che carino» risposi altrettanto sarcasticamente per non essere da meno, non volevo dargli soddisfazione «se pensi di poter venire qui e dirmi come devo fare il mio mestiere allora farai meglio a tornartene da dove sei venuto» aggiunsi un po' acida.
«Sai bene perché sono qui» rispose poggiandosi alla porta e incrociando le braccia sul petto «ho un caso da risolvere e tu volente o nolente mi darai una mano.»
Quel giorno tutto mi sarei aspettata tranne che il destino avesse scelto proprio lui come mio partner.
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