1.
Il sangue cola sempre sulle pareti della mia mente, ma io non me ne curo più di tanto.
So già che tutto questo è falso.
Le persone di questo mondo non sono altro che stereotipi della realtà e i mostri sono le paure che albergano nei nostri cuori.
Io voglio vivere.
Capii che la giornata sarebbe stata brutta non appena uscendo di casa sollevai lo sguardo. Un'alba di un rosso cremisi sbucava tra i tetti delle villette del quartiere. Il resto del cielo era ricoperto perlopiù da lunghe nuvole dalla sfumatura rosa pastello, scurite di quel colore che i miei occhi percepivano come un viola. Visioni del genere erano più che rare in questa cittadina sempre immersa nella nebbia.
Raggiunsi la conclusione che quest'oggi, con molte probabilità, mi sarei trovata ad affrontare un mostro e altri avrebbero raggiunto la lunga lista di deceduti annuali. Sospirai, rassegnandomi al dover passare una tremenda giornata, e ripresi il cammino verso la fermata. Percorsi a grandi passi quel poco di strada che mi separava dal cartello dello stop e attesi.
Scrutai il grigio asfalto in cerca di quel bus dalla scritta "44" che mi avrebbe portato a destinazione. Generalmente il mezzo arrivava puntualmente in ritardo di cinque minuti rispetto a quello che segnava il cartello.
Mi ritrovai a pensare al motivo per il quale quando si aspetta l'autobus esso non arriva mai, e quando invece c'è lo sciopero dei mezzi se ne trova in giro più del solito.
Sentii un lento strascicare di piedi alle mie spalle. Mi voltai solo per ritrovarmi a guardare la mia anziana vicina di casa, la signora Russel. Lei mi sorrise con la sua solita espressione melliflua e lentamente riprese a salire i tre gradini della sua malconcia villetta.
Indossava, come di suo solito, un largo grembiule blu a fiorellini bianchi e un paio di ciabatte rosa. I capelli grigi li teneva raccolti in uno chignon che ondeggiava a ogni suo passo, sembrando sempre sul punto di sciogliersi. Portava spesso degli occhiali con la montatura dorata, anche se sospettavo non ne avesse affatto bisogno.
Il suo viso, come d'altronde tutto il sottile corpo, era ricoperto da spesse rughe che la rendevano parecchio anziana e brutta da vedere.
Era da un po' che la tenevo d'occhio e a quanto potevo constatare anche lei ricambiava.
Una Quarantaquattro raggiunse silenziosamente la fermata, aprendo le porte per permettermi di salire. Mi sedetti sul davanti del mezzo, appoggiando la testa al freddo finestrino. Il sedile di plastica scricchiolò sotto il mio peso, gli altri passeggeri si girarono contemporaneamente rifilandomi le tipiche occhiatacce di chi si è di nuovo svegliato con la luna storta.
Nell'aria lievemente consumata di quello spazio chiuso albergava un forte odore ferroso che mi diede da subito il voltastomaco.
Dalla mia postazione osservavo il modo in cui la strada veniva percorsa dal mezzo con eccessiva rapidità. Più di una volta mi si strinse il cuore nel vedere un piccione volare davanti alle ruote anteriori e scampare per un soffio a quell'orrenda fine.
La Quarantaquattro si fermò per qualche secondo davanti al Palazzo di Giustizia, dandomi il tempo di scorrere velocemente lo sguardo sulle scritte disegnate sui muri. Nei giorni scorsi aveva avuto luogo una polemica riguardante un'incisione comparsa dal nulla al fianco del portone principale. Non era una novità che le persone esprimessero il loro disappunto pitturando i bianchi muri della struttura con scritte volgari, ma quest'ultima in particolare aveva smosso le acque più del dovuto. La frase in questione era composta da due semplici parole, "Voglio vivere".
L'artefice di tale atto non era ancora stato rintracciato, e forse era questo il motivo del perché ormai quella frase si trovasse sulla bocca di tutti. Le telecamere del palazzo non avevano ripreso nessuno, come se quella rossa scritta si fosse fatta da sé. La conclusione più razionale che avevo raggiunto era che si trattasse di un qualche scherzo compiuto da un uomo invisibile, o il desiderio di un fantasma disperato.
Sta di fatto che, dalla prima volta che le avevo lette, quelle parole non avevano smesso neanche un attimo di tormentarmi.
Distrattamente iniziai a grattare via i resti dello smalto nero che avevo applicato qualche settimana fa sulle unghie.
Più fermate l'autobus si lasciava alle spalle più la mia meta si faceva sempre più vicina e quindi più reale.
Si era formata nel pulmino una matassa di gente che spintonava per avere un posto o semplicemente per salire in quella trappola su ruote.
«Scusi, tra quanto scende?», chiese il signore che si trovava in piedi di fianco a me.
«Tre fermate. Scendo alla terza, mi alzo alla seconda, questa è la prima.», risposi.
Mi sono sempre chiesta quale fosse il modo corretto per contare le fermate quando sei fermo in una di queste. Cioè, la fermata su cui ti trovi va contata o semplicemente si parte da quella successiva? Ma soprattutto, perché le persone ti chiedono se devi scendere? Hanno forse paura di non riuscire a spostarsi in tempo per farti uscire?
Osservai con tranquillità il signore spremere le meningi, facendo i suoi calcoli per comprendere che doveva spostarsi e lasciarmi passare.
Subito riflettei su come fossero lente a capire le persone di questi tempi. Non mi sorprendeva il fatto che la popolazione fosse stata decimata nell'ultimo periodo.
Mi ritrovai nuovamente davanti una fermata. L'unica differenza era che questa volta stavo seduta e non era l'autobus che aspettavo. Attendevo invece una mia amica che, come al solito, arrivava dieci minuti prima dell'orario dell'inizio delle lezioni. Io invece mi recavo sul posto almeno trenta minuti in anticipo e la aspettavo ascoltando musica dal mio vecchio mp3.
L'aria quella mattina era piuttosto calda, nonostante mi trovassi in un mese autunnale. Le foglie gialle e rosse cadevano dagli alberi di fronte a me e si appoggiavano dolcemente al suolo bagnato.
Alzai lo sguardo sul tabellone che segnava l'arrivo degli autobus.
44: 2 minuti
41: 10 minuti
02/10 07:25
Con fastidio mi accorsi che avevo ancora a disposizione venticinque minuti di nulla assoluto. L'unica cosa che potevo fare era ascoltare la canzone e sperare che la mia amica si trovasse seduta sul prossimo mezzo in arrivo.
Vidi la Quarantaquattro arrivare dopo poco e fermarsi. Da essa scesero due bambine che trascinavano degli zaini con le ruote, ma della ragazza che aspettavo non c'era traccia. Posai di nuovo lo sguardo sul tabellone appeso alla parete di vetro dietro di me.
44: 10 minuti
41: 5 minuti
02/10 07:30
Il tempo passava molto lentamente in quel luogo, mi ritrovai a pensare. Ogni volta credevo che finalmente avrei visto l'autobus arrivare e lei scendere, ma si rivelava sempre un camion che trasportava qualcosa come cemento o calcinacci. Di questo periodo i palazzi crollavano come se fossero stati fatti di carta o come se qualcuno si divertisse ad abbatterli, ed effettivamente era così.
Estrassi il quaderno di italiano dalla piccola cartella che mi portavo appresso. Avevo avuto ben tre giorni per fare i compiti che mi erano stati assegnati, ma per mia sfortuna solo ora ne ricordavo l'esistenza. Lessi a mente rapida la consegna della professoressa. Dovevo scrivere un breve racconto di cinque righe su un tema di attualità.
Ho sempre odiato questo tipo di tracce. Non sono mai stata brava a parlare di cose reali, preferisco di gran lunga i racconti fantasy.
Sospirai mentre iniziavo a fare andare la matita sul foglio contando le righe che dovevo riempire. Ricordavo vagamente la scorsa discussione avuta in classe sul ritrovamento di persone i cui geni erano stati modificati. Dovetti scavare a fondo nella memoria, ma riuscii ad appuntare brevi pezzi di frasi per buttare giù un testo da scrivere.
"Le persone...", iniziai. No, ormai non avevano più una coscienza umana, non potevano essere definite tali.
Gli esseri che si trovavano nello scantinato di quel negozio non avevano più niente di umano.
Nelle foto trapelate su internet si poteva vedere come la loro pelle fosse ormai un accumulo grigio e grinzoso. I loro occhi erano nient'altro che sfere di un nero scuro come la pece. Alcuni di loro avevano ancora i denti gialli, gli altri li avevano vomitati insieme ai grumi di sangue che gli si bloccavano in gola.
Avevano perso le unghie o parte di esse e ora le loro dita parevano magre stecche. Dei capelli non c'era neanche bisogno di accennare, qualsiasi roba gli avessero dato per farli diventare così doveva per forza essere stato un prodotto chimico.
Camminavano, o meglio, si muovevano a fatica gattonando come animali e sfregando le dure ossa contro i pavimenti.
Per puro divertimento uno scienziato aveva portato a loro uno specchio. Le creature alla sola vista del riflesso avevano emesso un grido così forte e acuto da far sanguinare le loro stesse piccole orecchie. Erano morte a causa di ferite interne, il corpo non poteva più reggere quella nuova forma fisica. Il sangue si era mischiato ai liquidi interni, vomito e feci, e il tutto era stato spinto all'esterno attraverso gli orifizi già esistenti, facendo esplodere i neri bulbi oculari fuori dalle orbite.
Rimisi il quaderno in cartella. Non sapevo cosa scrivere, ma avrei finito in classe quel compito. Rialzai lo sguardo sul tabellone, concentrandomi sulle scritte che velocemente sfrecciavano e non mi permettevano di vedere l'orario.
44: 5 minuti
41: 6 minuti
Altro palazzo crollato in via...
Fui costretta a battere le palpebre a causa della stanchezza che mi perseguitava dopo un'intera notte insonne, ma li riaprii quasi subito per continuare a leggere.
44: 6 minuti
41: 2 minuti
5 feriti, 2 morti. Per altre info...
Non era possibile, riflettei sconvolta, però l'avevo appena letto. Come era potuto accadere, che cosa avevo fatto per meritarmi questo?
Ero sicura di aver letto "cinque" minuti all'arrivo della Quarantaquattro e "sei" per la Quarantuno.
«Non è giusto!», esclamai ad alta voce.
Ah, sì, i feriti e i morti. La causa del ritardo dell'autobus era sicuramente loro. Sperai che questo non interferisse sulla mia accurata tabella di marcia.
Il telefono prese improvvisamente a squillare facendo partire a tutto volume un assolo di chitarra elettrica. Solitamente non uso il telefono, a meno che non sia una vera emergenza, e questo lo sanno anche i miei conoscenti; quindi, nel momento in cui ricevetti quella telefonata mi preparai al peggio.
«Pronto?», dissi.
Mi rispose una voce acuta e femminile «Ester, guarda che oggi sono stanca e non ho voglia di andare a scuola.»
Strinsi con forza la cover nera del mio cellulare per impedirmi di conficcare le robuste unghie nella carne. Ho sempre detestato le persone che chiamano all'ultimo per avvisare che non si presenteranno all'appuntamento.
«Ok, allora io vado. Ci vediamo domani.», risposi cercando di contenere il mio nervosismo.
Il cellulare produsse un secco bip e capii che Cinzia aveva interrotto bruscamente la telefonata. A quanto pareva sarei dovuta andare a scuola da sola oggi.
Mi avviai per la strada umida e ricoperta di foglie già quasi secche, che schiacciavo a ogni passo sotto i miei neri stivali. Mi accompagnava la musica che risuonava solo nella cuffietta sinistra, dato che l'altra si era improvvisamente rotta.
La canzone che ascoltavo era di Bugwine, un noto cantante solista dimenticato dalla società e considerato fino a poco tempo prima un inetto. Il pezzo parlava proprio del fatto di essere trasparente e di venir visto solo come un fastidioso fantasma.
Dopo aver inciso quella canzone aveva trovato l'anima gemella, si era sposato, e poi insieme avevano tentato il suicidio di coppia buttandosi dal balcone. Il triste accaduto fu accentuato dal fatto che la ragazza era intenzionata a rimanere ferma a guardare il cantante spiaccicarsi sul marciapiede, ma a causa della corda con cui lui li aveva legati fu trascinata giù anche lei.
Dopo la morte era improvvisamente diventato una star, tutti giuravano di essere sempre stati suoi fan anche se fino a pochi giorni prima non ne conoscevano il nome.
Ogni volta che mi ritrovo ad ascoltare questo pezzo mi viene in mente l'abito rosso sangue che indossava quando l'hanno trovato morto, e in faccia il sorriso di chi ormai ha capito tutto della vita.
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