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1 - Di solito non si tira una bibita?

Ho sempre pensato che New York, la mia città natale, fosse meravigliosa. Sono orgogliosa di vivere in una metropoli così caotica e viva. Peccato che qualcuno non sia del mio stesso avviso. Delle coppiette continuano a squadrarmi mentre cammino fieramente per le strade.
Per carità, ognuno può avere la sua opinione ed esprimere le proprie idee, ma quando mi giudichi solo perché qualcosa mi piace, allora sì, che è guerra.
Certo, il fatto che stia piovendo a dirotto, che non abbia un ombrello e che emetta vibrazioni negative a ogni passo, potrebbe essere la vera causa di quegli sguardi.
Non che mi importi. Odio le persone. Non voglio stare simpatica a nessuno.

In questo momento sto attraversando Central Park, il polmone verde di Manhattan. Rabbrividisco, ma non per il freddo, anche se sono fradicia. Sono così cliché che potrei vomitare.
Intorno a me tutto è così verde che quasi mi gira la testa. Non fraintendetemi, mi piace questo posto, solo che quando il mio umore è nero, gli altri colori non sembrano poi così splendenti.
Dove sto andando? Al divertentissimo meeting con il mio futuro marito. Badate bene che non ho scelto la parola meeting a caso.
Il mio carissimo fidanzato è un uomo d'affari, da quello che mi hanno detto i miei genitori. A dire il vero non so molto di lui, solo che è ricco e che suo padre è amico del mio.
Ad un tratto una folata di vento mi arriva dritta in faccia. Mi stringo nel mio giubbotto di jeans e sento il freddo penetrarmi nelle ossa. Forse avrei dovuto portarmi almeno l'ombrello o un impermeabile.
Mia madre mi ha praticamente pregata di indossare un bel vestito e tacchi alti per essere al meglio per quell'incontro, quindi ho messo esattamente l'opposto: scarpe da ginnastica e tuta.
Non mi importa se farò una brutta figura, non è comunque nei miei piani andare d'accordo con lui. Non mi sono nemmeno truccata. Ho pensato che se non fossi corsa da lui vestita di tutto punto, allora mi avrebbe certamente rifiutato. Addio matrimonio. Viva la libertà!
Del resto, credo fermamente che questa sia una follia. Continuo a chiedermi perché i miei genitori abbiano accettato così di buon grado questa amorevole unione. Se un vostro vecchio amico, che non vedete da anni, se ne uscisse fuori con: «Ehi! Io ho un maschio, voi una femmina. Che ne dite? Bum bum e nipotini?» non credo che accettereste.
Purtroppo gli adorabili cinquantenni che mi hanno generata sono dei mentecatti, quindi mi ritrovo a dover sopportare tutto questo.
Buffa la vita, vero?
Mi viene da ridere alla sola idea che potrei anche attaccare al mio ragazzo il raffreddore, che sicuramente mi sono già presa grazie a questo tempaccio.
Faccio una smorfia quando mi rendo conto di averlo appena chiamato il mio ragazzo.
Come se non bastasse, noto una coppia darci dentro alla mia destra. I due sono seduti teneramente su una panchina, al riparo sotto un albero e si mangiano la faccia a vicenda. Immagino che alcuni ritengano che la pioggia sia romantica. A me viene da pensare che è una fortuna che non ci sia nemmeno un tuono, altrimenti non se ne starebbero così tranquilli sotto un cartello metaforico che recita "Ehi fulmini! Io sono un albero! Pikachu!"
Ammetto che quella scenetta mi ha fatto deprimere ulteriormente.
Avevo deciso di rimanere single, perché Dio mi ha fatto questo? Forse sarei dovuta andare in chiesa una o due volte al mese, anziché ribadire «Sono credente, ma non mi applico» quasi fosse un mantra.
Finalmente supero la coppietta e sospiro.

«Che schifo.»

Mi è uscito spontaneamente di bocca, prima che potessi anche solo elaborare il pensiero.
Se fossi la protagonista di un romanzetto rosa da quattro soldi, scoprirei che il mio fidanzato è uno strafigo e poi - bam! - colpo di fulmine. Ahimè, la vita reale non funziona in questo modo. Io al momento me lo immagino come un vecchio bavoso.
Scuoto la testa. Forse il raffreddore e la tuta non basteranno ad allontanarlo. Avrei dovuto comprare dei baffi finti, mettermeli e andarci così: chi dice donna barbuta, sempre piaciuta è un maledetto bugiardo.
Mi ritrovo davanti l'uscita dal parco, oltre la quale c'è l'Upper West Side.
Ma non potevo essere un personaggio di Gossip Girl? Almeno sarei stata ricca.
Mentre mi accingo a muovere un passo dopo l'altro, prima di congelare completamente, penso che anche questo gesto sa tanto di cliché, così come quel pensiero.
Anche se, devo ammetterlo, se adesso incontrassi Zayn Malik per strada, sarei felice di essere uno stereotipo ambulante.
Sbuffo, immergendomi fra la folla di persone che, proprio come me, se ne fregano altamente della pioggia. Beh, loro hanno avuto l'accortezza di portarsi un ombrello o di correre a ripararsi sotto qualche tettoia, ma non posso mica pretendere che tutti siano simili a me.
Anche se magari il mondo sarebbe migliore con un esercito di Alanis pronte alla battaglia contro il maschilismo e l'inquinamento. Wow, anche i miei ideali sono stereotipi.

Non appena mi ritrovo davanti l'insegna che recita "Italian's True Restaurant", penso tra me e me che questo è per forza uno scherzo di cattivo gusto. Mi guardo intorno, ma non vedo telecamere, quindi un dubbio mi sorge spontaneo: Chi diavolo chiama il suo ristorante in quel modo? E com'è possibile che abbia quattro stelle?
Entro, prima di perdermi tra i miei ragionamenti. Sicuramente il vecchio bavoso mi sta aspettando, non voglio mica farlo attendere. Certo, come no. Sono già in ritardo di venti minuti. Se ve lo state chiedendo: sì, l'ho fatto apposta.
Se rendo abbastanza disastroso questo incontro, non finirò con cinque figli e con un marito traditore. Non so voi, ma io preferisco di gran lunga i gatti ed essere un'acida zitella a una vita degna di una soap opera.
Non appena metto piede nel locale, inzuppando il misero tappetino che avevano messo all'ingresso - poveri illusi, credevano sul serio che bastasse? - un uomo mi viene immediatamente incontro.

«La signorina Alanis White?» domanda.

Vedo che è piuttosto sbigottito, ma non è questo a farmi riflettere. Questo gentile signore avrà settant'anni. I suoi capelli bianchi, il suo collo rugoso e i suoi occhi neri contornati da occhiaie la dicono lunga su di lui. Ok, indossa uno smoking, ma ciò non lo rende figo o apprezzabile.
Deglutisco a disagio. Se non riuscirò a farlo scappare, allora me ne andrò io.

«Ehm... Il figlio del signor Young?» chiedo, senza rispondere direttamente alla sua domanda.

Lo vedo alzare le folte sopracciglia stranito, poi sorride, mostrando la sua dentiera.

«No. Il mio padroncino la sta aspettando.»

Mi ci vogliono esattamente dieci secondi per realizzare il tutto e poi due domande sorgono spontanee nella mia testa.
Se il mio fidanzato non è lui allora posso ritenermi molto fortunata. Da giovane potrebbe anche essere stato un bell'uomo ma: no, grazie.
Mentre lo seguo imbambolata, tenendo lo sguardo basso, mi pongo due questioni.
Uno, questo tizio è davvero così ricco da pagare della gente per intercettare i suoi ospiti?
Due, l'ha chiamato padroncino? Stiamo scherzando? Mi sento come una comparsa in una fanfiction daddy.
Mi acciglio.
Voglio essere ben chiara, se osa ordinarmi di piegarmi in due sul tavolo perché così può sculacciarmi, lo castro.
Persa tra i miei pensieri, non mi rendo conto di essere arrivata al tavolo, finché il distinto signore, che non si è degnato nemmeno di presentarsi, si sposta di lato, per farmi accedere al mio posto.
Il tavolo è circolare e coperto con una tovaglia bianca, c'è un gigantesco mazzo di rose rosse al suo centro e almeno dieci posate per ogni posto. Lussuoso, non c'è che dire, ma non è questo a impensierirmi, bensì il ragazzo più o meno della mia età che giocherella con il suo cellulare. È un iPhone, altro cliché. Che bello.
L'uomo alza lo sguardo e lo osservo mentre mi squadra senza alcuna vergogna. In realtà, io sto facendo esattamente lo stesso. Ha gli occhi verdi, i suoi capelli mori sono tirati indietro con una quantità spropositata di gel e indossa una camicia e un paio di jeans. Lo potrei definire anche carino, inoltre adoro gli uomini con un filo di barba, come lui.

«Non credevo che venissi sul serio Alanis.»

La sua voce rauca mi ricorda qualcosa e mi ritrovo a pensare che quasi certamente fuma.
Sono quasi tentata di chiederglielo, ma al momento ho cose più importanti a cui pensare.

«Cos'è tutta questa confidenza?» rispondo.

Con la coda dell'occhio vedo il signore che mi ha portata qui assumere un'espressione stupita.
Che c'è? Ora non posso nemmeno dire ciò che voglio? Sono seriamente tentata di dire una parolaccia, solo per vedere la sua reazione.

«Non sei cambiata affatto.»

Le parole di mr. Sono figo e un probabile daddy riportano la mia attenzione su di lui. Lo vedo stiracchiarsi sulla sedia e allungare le gambe nella mia direzione. Sono lunghe e snelle, mentre i suoi jeans scuri sono troppo stretti.
Incrocio le braccia sotto il seno, pensando che in questo modo capisca che non voglio avere a che fare con lui. Tutto di una persona comunica qualcosa, che sia il suo modo di parlare o i suoi gesti. In questo momento, sto esercitando quanto ho imparato dalle fanfiction che mettono in mezzo la psicologia. Praticamente non so nulla, ma questo sembra già un buon inizio, no?

«Ma non mi dire! Sei davvero un genio!» esclamo, dando enfasi a ogni parola.
«È impossibile che sia cambiata nell'arco di un secondo. Ci siamo appena conosciuti.» gli faccio presente.

Il mio essere acida avrebbe già dovuto farlo correre via e fargli perdere ogni speranza nel genere femminile, purtroppo niente sembra andare come voglio.
Fanfiction siete una menzogna!
Lui sorride, mostrando due fossette alquanto familiari e, non so nemmeno perché, ciò mi irrita da morire.

«High school.» dice semplicemente.

Mi sta prendendo in giro o vuole sapere il mio titolo di studi?
Beh, il ricco stronzo che si crede superiore è presente in ogni fanfiction degna di questo nome, forse è la volta buona per mettere in pratica ciò che ho imparato.

«Se ti interessa quanto guadagno, lavoro in un blockbuster. Immagina, puoi.»
Detto questo, incrocio le braccia al petto una seconda volta - solo per essere più drammatica - certa che, dopo questo, voglia fuggire via.

Sorrido nervosamente, quando vedo che non accenna a muoversi. Ci manca veramente poco per far sì che questa storia diventi un horror.
Ammetto che, probabilmente, sono un po' fissata su queste cose e dovrei smetterla di andare a dormire alle tre di notte per leggere.

L'uomo si porta una mano alla pancia e, incredibile ma vero, scoppia a ridere. Penso che non gli importi minimamente di disturbare gli altri clienti e sto per fargli presente quanto sia maleducato, ma mi rendo conto che in sala ci siamo solo noi due. Anche il simpatico vecchietto è scomparso chissà dove.
Bene, evidentemente è così ricco da affittare un ristorante per un'intera mattinata. Ottimo.
Adesso mi aspetto di ricevere l'invito alla festa più pazzeschissima dell'universo che sfocerà sicuramente in una rissa, così potrei dire davvero di essere Hope. Nota bene, il mio cuore ha pianto quando ho pensato più pazzeschissima, ma rende bene l'idea.

«No, no.» riesce a dire, tra una risata e l'altra, il mio allegro maritino.

In quel momento arriva un cameriere e posiziona davanti a noi due piatti di spaghetti al pomodoro.
In tutto questo, io non mi sono nemmeno seduta, ma a questo punto credo che non importi. Non penso di poter intavolare una conversazione sensata con lui. Osservo il piatto e il mio stomaco borbotta quando il profumo del sugo mi arriva alle narici. Oh, al diavolo! Mi siedo immediatamente, senza aggiungere altro. Mi porto una forchettata alla bocca, senza aspettare che il mio ragazzo faccia lo stesso.

«Ehm... Signorina, vuole un asciugamano?» mi sento domandare dal cameriere.

Faccio di no con la testa, mandando giù il boccone che - Mannaggia! - è delizioso.

«Voglio il peperoncino.» dico invece.

Adoro mangiare piccante e se devo mandare all'aria quell'incontro, tanto vale riempirmi lo stomaco.
Vedo il cameriere annuire stranito, andandosene con la mia richiesta.
Lascio cadere la forchetta sul piatto e aspetto. Questi spaghetti sono squisiti, ma con un po' di peperoncino saranno adirittura perfetti.
Tanto per la cronaca: sto mangiando in un ristorante italiano qualcosa coperto di pomodoro con uno strafigo, altro cliché.
Non appena lo realizzo, alzo lo sguardo dal mio piatto, guardandolo imbronciata.
Lui sembra non capire il mio atteggiamento, quindi mi accingo a fargli presente la soluzione alla quale sono giunta.

«Se ti chiami Harry Styles e sei un cantante, sappi che il mio secondo nome non è Hope.» gli dico.
«Anche se potrei esserlo a questo punto.» aggiungo a voce più bassa.

«Harry? Hope?» domanda.
«Stai già decidendo i nomi dei nostri figli senza il mio consenso o cerchi di dirmi qualcosa?»

Rimango per un secondo interdetta. Vedo il cameriere tornare con il mio peperoncino. Lo ha portato su un piattino, per poi appoggiarlo sul tavolo, prima di andarsene silenziosamente.
Quando mi rendo conto che sono rimasta immobile per molto più che una manciata di secondi, mi alzo in piedi, facendo anche cadere la mia sedia.
Sbatto le mani sul tavolo e sento alle mie spalle il frastuono che ho causato, tuttavia non me ne preoccupo.

«Fortuna che ho prenotato tutto il ristorante.» commenta mr. Non solo sono un daddy, ma sono anche schifosamente ricco, come se fosse la cosa più normale di questo mondo.

Mi dico che dovrei trovare soprannomi più brevi, quindi decido che d'ora in avanti lo chiamerò semplicemente Finto Harry.

«Puoi anche urlare, ho detto al personale che avremo fatto casino. Non verrà nessuno.» aggiunge Finto Harry, alzando un sopracciglio.

«Senti Coso!» grido, consapevole che così facendo lo sto assecondando.
Non che mi importi: mi ha fatta incazzare e io prendo fuoco facilmente.
«Non ho bisogno del tuo cazzo di permesso per urlare!»

«Ma che signorina.» ribatte prontamente, come se si aspettasse una reazione simile da parte mia.

«Stai zitto!» sbotto.
«Sappi solo che non ho la minima intenzione di sposarti, tantomeno di mettermi a sfornare bambini per te.» continuo, abbassando un po' la voce.

«Guarda che sono ben dotato.» mi fa presente, per poi ammiccare.

Dalla sua espressione trionfale sembra quasi che abbia appena detto la battuta più divertente dell'ultimo secolo.

«Non mi interessa!» esclamo scioccata.

Sono certa che le mie guance siano diventate rosse. Vorrei non essere così in imbarazzo, ma voi cosa fareste se vi ritrovaste davanti un tipo simile?
Io al momento ho voglia di strozzarlo.

«Sono bello, ricco e intelligente. Dovrebbe bastare questo per farti togliere le mutandine seduta stante, contando che non ti sei presa nemmeno la briga di riconoscermi.»

Il suo tono di voce è piatto, ma dalla sua espressione anche lui sembra piuttosto irritato. Bene. Siamo in due.

«Ti ho già detto che non mi chiamo Hope!» urlo.

«Si può sapere che c'entra?»

«E mia mamma non ha cinque nazionalità diverse, mio padre non è morto e non dico di essere brutta anche se sono una figa assurda!»

Ok, forse ho perso la testa e Wattpad mi fa decisamente male, ma questo tipo mi fa uscire dai gangheri.

«Sbaglio o questa Hope ti sta antipatica?» domanda.

«Certo che no! Altrimenti non leggerei le sue ventimila storie!» esclamo.

«Aspetta, stiamo parlando di un libro?»

«Di più libri!»

«Dio, sei intrattabile come al solito. Per questo sei ancora vergine.»

«Non lo sono, razza di maniaco!»

«Ana, senti...»

«Come mi hai chiamata?» lo interrompo.

Non è il fatto che mi abbia affibbiato il nome della protagonista di Cinquanta Sfumature a impensierirmi. Ho già superato quel trauma. Quello che mi ha fatto sbarrare gli occhi, perdere un battito e dieci anni di vita in un istante è che - porca puttana! - l'ho riconosciuto.
In un flash, capisco perché mi irrita tanto. Io questo tizio lo conosco, abbiamo frequentato la stessa scuola ed era odioso.
Ace Young. Non era il ragazzo più popolare o il più bello, non faceva sport e non aveva trenta ragazze che cambiava più dei suoi schifosi calzini, ma era l'essere più detestabile e idiota che avessi mai incontrato. Adesso capisco che lo è ancora.

«Mi hai riconosciuto, eh?» mi domanda con quel suo sorrisetto impertinente.

«Non posso crederci.»

Mi alzo senza aggiungere altro. Afferro il mio piatto di spaghetti e lo appoggio delicatamente sulla mia sedia. Non posso sacrificare quella delizia.

«Ana?» mi chiama.

Al suono della sua voce qualcosa scatta in fondo al mio animo.
Prima di compiere una pazzia e menarlo, faccio la cosa più logica che mi viene in mente: sollevo il tavolo con entrambe le mani, trovandolo insolitamente leggero - ma forse è solo l'adrenalina del momento e tra un'ora avrò dolori ovunque - e glielo lancio contro.
Finto Harry - mi rifiuto di pensare a lui come ad Ace - si scansa appena in tempo. Se non lo avesse fatto ne sarebbe rimasto schiacciato.

«Ma che cazzo!» sbotta.

Non credevo che lo avrebbe evitato, quindi decido a malincuore di compiere il sacrificio massimo, provando a rallentarlo con il piano B.
Senza aspettare che si riprenda, afferro il piatto di spaghetti e glielo tiro in testa, dicendo sayo-nara al mio pranzo. Faccio centro e, mentre lui è ancora preda dello shock, corro via.
Se non avessi fatto qualcosa per impedirglielo, visti i trascorsi, mi avrebbe certamente seguita.
Preferisco di gran lunga la pioggia alla sua compagnia.
No. Non esiste che io sposi Ace!

Mentre scappo lo sento che mi grida: «Di solito non si tira una bibita?»

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