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Twenty-Six

Questo è un capitolo abbastanza importante.

Vi spiego un po' meglio Gil e come è finita dove è finita.

Spero che vi piaccia, perché io lo adoro.

Commentate, votate, condividete con chi volete che legga e taggate a chi volete strappare un sorriso.

:)



Pensavo che avessimo superato la solita discussione sulla scuola.

Ormai anche dai parenti di Calum (vicino Hong Kong o giù di lì) sanno che a) faccio schifo a mantenere una pagella sufficiente dato che b) non frequento troppo i corsi che c) mi impegno a non passare.

Non che voglia fallire e sentirmi stupida (perché so che tutti quei diamine di corsi saprei superarli anche con un occhio chiuso e il naso tappato (sappiamo tutti quanto un naso ostruito sia scomodo per la concentrazione)), ma sento una pressione addosso che non mi si addice per niente.

Nella mia famiglia, quella intelligente, è sempre stata mia sorella Bil.

Non è un cane, mio padre è solo un fanboy di Michael Jackson (tipo fangirling pesante eh, ha anche i poster nell'armadio) e ovviamente la sua canzone preferita di tutti i tempi è Billie Jean.

Il caso vuole (il caso o mio padre) che nella folle (c'era anche la madonnina del duomo di Milano ad assistere) corsa verso l'ospedale (la macchina era più incinta di mia madre) il pezzo passato alla radio, esattamente quando la testa di mia sorella faceva cucù settete dalla pesca di mia madre, fosse Billie Jean.

E poi mio padre ha rafforzato il concetto con un convincente discorso dannatamente maschilista "se non avrò un maschio, allora farò finta che lo sia" che poi non è nemmeno un discorso, ma undici parole mascolinamente insensate che gli sono uscite di bocca dopo dodici ore di travaglio. Quattordici in totale con mia nonna Rita che urlava anche più di mia madre.

Ma questa è storia (letteralmente storia da libri di scuola).

E la bellezza di quindici anni dopo, nata da chissà che rapporto sgangherato e diciamocelo: chissà quanto ubriaco, sono saltata fuori io.

Ma ringraziando Dio, dopo quindici anni e una figlia modello, la vecchia macchina era andata a farsi benedire a San Coso di Compostela ed era spuntata fuori (mio zio Cristino (io lo chiamo Crostino) l'aveva praticamente regalata ai miei) una nuova utilitaria di quarta o quinta mano, senza radio.

Niente Michael Jackson, niente nomi strambi per me.

Ma la maledizione della famiglia Ternazzi vuole che mia nonna Rita fosse nel suo periodo "Nonna passione cantante" e che avesse accompagnato viaggio in ospedale e travaglio con i suoi rosari musicali.

Da qui il mio orribile secondo nome: Gildina (che è anche quello di nonna Rita).

Dici poco, ventidue ore e mezzo di canti cristiani ad una donna di quarant'anni mentalmente instabile con un nuovo essere umano (me) da espellere.

Dodici ore di travaglio per tirar fuori mia sorella e ventidue solo per preparare mia madre e farmi nascere.

A questo punto potrei anche interrompermi qui.

Mamma ha sempre detto che la mia pigrizia è nata con me (letteralmente).

Bil è sempre stata il genio di casa, la bambina prodigio che a quattro anni sdentati suonava il violino con un piede e scriveva un romanzo giallo con la mano sinistra.

Io sono sempre stata semplicemente Gil.

Tre anni, tanti capelli in testa e le mani continuamente pasticciate di colori a spirito e tempere.

Una volta mi sono infilata il tappo di una penna in una narice e sono finita in pronto soccorso per cinque ore e mezzo. Ero prodigio come mia sorella, solo un po' a modo mio.

E nonostante io fossi sempre stata visibilmente meno portata, per qualunque cosa fosse di logica e ragionamento, i miei genitori non avevano mai discriminato me per privilegiare Billie.

Gli sono immensamente grata per questo: vi pare che a quest'ora il mio stupendo ego sarebbe con me?

Comunque, non ero mai stata pressata sulla scuola. Inverosimile, ma con mia sorella che studiava per la seconda laurea in medicina, sembrava che il suo impegno bastasse anche per me e compensasse ogni mia mancanza, almeno fino a quando non mi sono trasferita in California.

Mio padre è agente immobiliare da quando aveva diciotto anni e un quarto, mia madre prima operaia in una fabbrica di scarpe e poi disoccupata, mamma e nonna a tempo pieno.

Non che le dispiacesse avere a che fare con il fagottino iperattivo che era sempre stata Chiara e beh ... anche con me.

Sono diventata zia all'età di 3 anni e tutto ciò che sapevo fare era urlare parole senza senso (per la maggior parte del tempo) e disegnare quadri astratti sulle pareti di camera mia.

Di tutto ciò che mia sorella era riuscita a fare per rendere orgogliosi i miei genitori, restare incinta a diciannove anni era stata la palla demolitrice (Miley Cyrus ci da una mano) della splendida torre di premi d'oro di miglior figlia di sempre.

Non ne ero stata felice, cazzo avevo tre anni, a malapena ricordo ciò che ho mangiato ieri a cena, ma credo che se fossi stata abbastanza crudele da ridere, l'avrei fatto.

Non odio Billie, quando non è troppo impegnata a rimproverare me e sua figlia per Dio solo sa cosa, è abbastanza okay.

Quindici anni di differenza sono una fossa tanta come quella delle Marianne (ovunque si trovi) e non ho mai sentito molto la sua presenza nella mia vita, almeno fin quando non è nata Chiara.

Ma anche da neonata, con i miei occhi grigio azzurri e le fossette sulle guance, i miei continuavano a sbavare dietro Billie manco fosse Beyoncé.

Ricordo di aver visto un paio di filmini del suo sedicesimo compleanno, dove mi spalmava la torta in faccia e mi chiamava "caccola".

Lei aveva sedici anni e io la facevo nel pannolino.

Lei si era diplomata con il massimo dei voti e aveva una borsa di studio per Bologna, mentre io mordevo penne colorate fino a macchiarmi d'inchiostro verde la lingua.

Non sono gelosa dei suoi trascorsi e delle sue vincite (perché oltre alla volontà di essere studiosa e ad essere la migliore in qualunque cosa facesse, Dio le aveva anche dato due botte di pura e sculata fortuna) e diciamo che non me ne sono preoccupata fino all'anno scorso.

Dicevo: mio padre è agente immobiliare da quando mio nonno Giacomino (una volta lavorava anche lui e non beveva mai neanche un goccio di limoncello) gli insegnò il mestiere, qualche decennio fa, ma al contrario dei vecchi imprenditori italiani, aveva fatto in modo di espandersi anche all'estero.

E qui entro in gioco io, la mia ossessione per le band, la pizza, le gonne rosa, gli unicorni, i gelati blu, gli M&Ms rossi, i film tratti dai libri, Justin Bieber e tante altre cose tra le quali l'inglese.

Vi ho detto che mio padre ama Michael Jackson? Bene, perché questo ha giovato un bel po' alla mia situazione e ha facilitato di molto la mia "improvvisa" partenza per gli U.S.A

Non fosse stato per lui, non avrebbe mai capito " l'importanza della lingua inglese", non per dire ma Billie ha una quarantina di master in lingua e i miei avevano ben pensato, nell'estate 2012, di farmi convertire in una qualche specie di suora ora et labora.

Dal mio primo anno di superiori la tensione scolastica si era fatta soffocante e il mio essere ... me, non aveva di certo facilitato le cose.

Passavo il 98% della mia giornata a litigare con la mia famiglia, un 1% a scrivere le mie frustrazioni derivate dai litigi e l'altro 1% a fumare con i miei amici.

Era una brutta situazione, fin quando mio padre non ha scoperto il mio continuo uscire di casa per andare al parchetto vicino con i miei "amici" e ammazzarmi di qualunque cosa si potesse aspirare. A quel punto la situazione è diventata ancora peggio.

Ero in punizione un giorno sì e l'altro pure, incluse vacanze di Natale e feste varie. Non festeggiai il mio quindicesimo compleanno e nessuno si ricordò di farmi gli auguri, tranne per la mia famiglia, ma potete immaginare quanto me ne fregasse a quel punto.

Pretendevano buoni voti a scuola, un comportamento esemplare, elogi dai professori, niente fumo, niente amici, niente uscite e tanto rispetto.

Volevano che fossi una piccola Billie.

A quel punto avevo capito cosa stessero cercando di fare e perché.

Billie si era sposata pochi mesi dopo il mio quindicesimo compleanno e di conseguenza si era trasferita a Roma con il suo nuovo compagno Marco.

Aveva una famiglia sua a due ore di viaggio dalla nostra vecchia casa in Abruzzo e non ci veniva a trovare se non per le festività o quelle poche volte in cui Chiara insisteva per vedermi.

Solo ora capisco quanto sia stato difficile per i miei, accettare che la loro figlia prodigio se ne fosse andata di casa, lasciandoli con "quell'altra".

Billie aveva due lauree, una figlia, un marito, una casa e un bel lavoro.

Io avevo quindici anni, ero un anno indietro con la scuola, mi trovavo in un permanente stato di punizione avanzata e avevo le sigarette cautamente nascoste in balcone.

Quando i miei capirono che i loro tentativi di civilizzarmi a livello Billie Ternazzi erano stati completamente vani, ci fu la discussione più cruenta a cui avessi mai preso parte.

Evitai i miei per tre mesi, prima che mio padre si presentasse con una busta in mano e il mio professore d'inglese affianco.

Era di domenica, il ché era ancora più strano che vedere il mio professore con mio padre e una busta ufficiale del Cambridge in mano.

L'unica materia che non avevo mai fallito era proprio inglese e anche se dopo la litigata avevamo chiarito che i loro propositi di avermi uguale a mia sorella fossero inutili, sapevo che il loro sogno di vedermi "messa a posto" non fossero spariti.

E il mio meraviglioso professore d'inglese aveva esaudito le loro preghiere di vedermi con il naso infilato nei libri.

Avevo bisogno di due sole cose: un ottimo risultato al test di certificazione linguistica C1+ e un'appartamento a Los Angeles.

Quella fu la prima (e l'ultima) volta che studiai così duramente in vita mia. Era inoltre la prima volta che mi sentivo invogliata a posare gli occhi su un libro, credo perché prima di allora mi fossi sempre sentita in difetto nei confronti di Billie, e anche se i miei non me lo facevano affatto pesare, io stessa me lo ponevo davanti come ostacolo.

Non appena pensavo alla scuola, ciò che scattava automatico nella mia testa era "Billie prenderebbe sicuramente di più" e questo mi ha frenata dal fare molte cose nel corso della mia carriera scolastica.

Feci il test qualche mese prima del mio sedicesimo compleanno e lo passai con il merito e un buon punteggio, a quel punto la mia parte era fatta e a mio padre restava solo da assicurarmi un buon appartamento in America.

Sembrava surreale, anche solo partire, anche solo il pensiero di trovarmi nello stesso aereo porto in cui quello stesso giorno sarebbero stati i 5 Seconds Of Summer, mia band preferita da qualche mese ormai (vi dico solo che da casa, la cosa era molto più eccitante).

Ero entusiasta, anche dopo essere atterrata con un cespuglio al posto dei capelli, due cerchi viola sotto gli occhi peggio di un girone dell'inferno Dantesco e una caramella al limone (sapeva tutt'altro che limone) ad impastarmi la bocca.

Con la mia solita fortuna, non vidi i 5SOS in nessun gate dell'aereo porto, così mi trascinai con mio padre al ritiro bagagli con un quarto d'ora di ritardo perché i bagni erano a) occupati e b) sporchi come non so cosa.

Avrei sicuramente preferito farmela addosso e camminare come un pinguino strabico fino al nuovo appartamento in centro, ma dopo nove ore la mia vescica mi stava praticamente pugnalando per svuotarsi.

Credo di aver usato tutto il rifornimento di carta igienica per proteggere il mio posteriore dai germi sulla tavoletta, dai germi sullo sciacquone e dai germi che temevo avessero attaccato la carta igienica che avevo arrotolato e che aspettavo di usare mentre urinavo i dieci bicchieri di succo alla pera bevuti sull'aereo.

Al ritiro bagagli c'erano tutte le mie valige, almeno non ero incappata nella sfiga della viaggiatrice sprovveduta (assolutamente categoria alla quale appartengo) e avevo saltellato fino al mitico taxi giallo piscio dei film, fino a quando mio padre non mi aveva preso per mano per farmi attraversare la strada.

Non sono mai stata più imbarazzata in tutta la mia vi-

no okay mi fermo perché sto sparando una minchiata, ma non è stato affatto piacevole quando mi sono voltata e ho visto un bel bel ragazzo in canottiera ridere di me.

Non ricordo bene il tragitto fino alla nuova casa, ma credo che mio padre avesse speso tutti e venticinque i minuti per elogiarmi le qualità dell'appartamento che mi aveva preso.

"Conveniente e spazioso" mi pare che avesse detto, ma quando misi piede sul pianerottolo del sesto piano, vidi solo un monolocale con un bagno di un metro per un metro e un letto-divano attaccato al tavolino per due della sala da pranzo.

-Devo aver sbagliato indirizzo- lo ripeteva ogni cinque minuti, alzando il foglio davanti al naso e confrontando prima la figura di una villa a cinque posti e poi lo schifoso palazzetto che ci trovavamo davanti.

-No, sono uguali- continuava ragionare.

Erano passati tipo quaranta minuti e io mi ero rimessa lo smalto su un muretto affianco almeno tre volte.

Ero in america da un'ora e mezza e già volevo tornare a casa mia.

Alla fine avevo afferrato, non poco innervosita, il foglio dalle sue mani e gli avevo indicato una lettera precisa scribacchiata sul foglio che accartocciava da un'ora.

Ho sempre detto che ha bisogno di una lezione di calligrafia dalla maestra Carina, la mia insegnate di grammatica alle elementari.

Quella che aveva letto come una "o" era in realtà una "a", così dopo aver vagabondato dieci minuti in cerca di qualcuno che ci facesse la grazia di fermarsi, trovammo una signora sulla sessantina che ci disse, non senza un gentile sorriso, che ci trovavamo dalla parte opposta della città.

Due ore di traffico ed ero davanti ad una villa pazzesca.

Nah, era una semplice casa a due piani.

Sapevo che avrei dovuto condividerla con alcuni ragazzi e speravo vivamente che a) fossero carini, che b) le ragazze fossero gentili e che c) frequentassero i miei corsi.

Ma va la, come al solito non ci avevo azzeccato neanche una lettera (riferimenti a mio padre accuratamente selezionati).

Suonato il campanello avevamo visto tutt'altro che un semplice ragazzo straniero, che sarebbe stato il mio coinquilino con gli altri.

Ad essere straniero lo era: la sua australianosità la vedeva anche un canguro cieco senza due zampe, ma non era assolutamente chi mi aspettavo che fosse o che beh ... non fosse (ha senso?).

Ashton Irwin.

Semplicemente Ashton Irwin.

Dopo il battibecco mezzo italiano mezzo australiano antico con mio padre, eravamo giunti ad un accordo che sembrava potesse funzionare, ma vi dico già di no.

Tornammo in Italia dopo una settimana di forzata convivenza tra me, mio padre e i quattro ragazzi (immaginate voi, la vostra band e vostro padre vivere insieme, ecco).

Discutemmo se fosse il caso di cambiare appartamento e di rinviare l'inizio dei corsi di qualche settimana, ma dopo tutto lo sbattimento del viaggio e della caccia alla casa nuova mi ero opposta.

Mi ero trovata il mio batterista preferito (lui non lo saprà mai) davanti agli occhi, mentre ore prima avevo pregato di intravederlo solo per 0,87 secondi in aereo porto, anche con cinque beanie sulla faccia e quattro paia di occhiali da sole.

Avevo su un piatto d'argento la possibilità di far diventare il filmino mentale dei filmini mentali (niente porno, non ancora. Non conoscevo ancora Calum) la realtà, così mi ero rifiutata di muovermi.

Al management o chiunque si occupasse di queste cose, avevamo fermamente controbattuto con il fatto che quella casa era prettamente universitaria (nonostante io frequentassi una scuola superiore di Exchange) e che quelli a dover sloggiare erano loro.

Ovviamente anche loro non volevano mollare, nonostante a Los Angeles di ville per persone come loro ce ne fossero a bizzeffe (ancora mi chiedo perché abbiano insistito tanto) e alla fine siamo giunti a questa strana situazione che vede tutti un po' tanto nella merda.

E con tutti intendo me.

Non pensavo che i ragazzi e mio padre potessero coalizzarsi contro di me in questo modo, che addirittura potessero uscire insieme a cena, figuratevi se potevo immaginare la delega della mia persona (la mia favolosa persona) ad Ashton.

-è un'ottimo amico di famiglia ormai, è responsabile e avverte molto il senso del dovere. Con la sua esperienza famigliare, tenerti d'occhio non sarà così difficile per lui, posso dire che gli verrà naturale-

E ora ditemi se ha senso ...

Cioè ne ha, ma nella mia mente no, ma diciamo pure che non accettavo e non accetto (tutt'ora) che un bambinone di ventuno anni abbia la mia custodia legale.

Mio padre è sempre mio padre e ha potere decisionale su di me, Ashton è come un padrino, senza droga e con meno pancia.



-Dopo tutto questo, dopo tutta la fiducia che tuo padre mi ha dato, pensi che ti lascerò fare ciò che ti pare?- Ashton è diventato color peperone bruciato, di nuovo.

Sono passati due giorni e quattro ore da quando mi ha beccata sul divano con Calum e non a scuola, dove avrei dovuto essere, e per ogni cosa che faccio non perde occasione di riportare a galla la faccenda.

Sbuffo e mi siedo a gambe incrociate sul tappeto, in salotto, mentre gli altri tre sono comodamente seduti tra poltrona e divano.

L'orologio segna le due e quattordici del pomeriggio e sono appena tornata da scuola.

-Hai solo il dovere di proteggermi e di tenere gli occhi aperti su qualunque cosa possa ferirmi o uccidermi, sei il mio tutore legale non mio padre- borbotto, passandomi stancamente una mano sul viso e poggiando la schiena sulla parte bassa del divano blu.

Lo guardo per qualche secondo, poi lui fa qualche passo avanti e si piazza davanti a me -non vedo la televisione- pronuncio, non distogliendo lo sguardo dallo schermo luminoso, nonostante veda male a causa delle sue gambe muscolose che mi fanno da barriera.

Sbuffo e inclino la testa verso l'alto, per guardarlo negli occhi. Ha i riccioli sulla fronte e la bandana legata ad un polso.

-Sono due giorni che non fai che ripetere sempre le stesse cose.- sbuffo, gesticolando frettolosamente -"Non sei rispettosa dei sacrifici che i tuoi genitori hanno fatto per te" o "dovresti essere più riconoscente" e "non studi mai. Si può sapere cosa hai intenzione di fare del tuo futuro?" e come dimenticarsi del "Se fossi mia figlia sarei così delusa ta te"-.

Mi alzo quando vedo le sue dita attorcigliarsi attorno al bordo della sua canottiera e chiudersi in un pugno.

Bene, è irritato.

Sorrido sotto i baffi e lo guardo con il mento alto -Avanti, dimmi. Hai qualche nuovo aforisma che vuoi donare al mio libro de "le cose di cui non mi frega un emerito cazzo"?-.

Lui semplicemente scuote la testa e osserva Michael, mentre questo abbassa dolcemente lo sguardo a Luke, che dorme appoggiato alla sua pancia.

Sento il volume della televisione scemare fino ad ammutolirsi, lasciandoci nel più teso dei silenzi.

-Sappiamo entrambi che così non va- mormora, guardando Calum con la coda dell'occhio.

Seguo i suoi movimento fin quando non li trovo affiancati e davanti alla mia figura. Sono in piedi e li guardo con un labbro incastrato tra i denti e le labbra incrociate.

-So cosa state facendo- dico indicandoli con due dita e congiungendole insieme ripetutamente -è come la congiura di Calina-.

Ashton si schiarisce la voce -è Catilina- mi corregge.

Prendo un profondo respiro e batto i palmi delle mani contro le cosce, in estremo segno di frustrazione -Non è questo il punto!- la mia voce è molto alta e quasi sfioro l'urlo.

-Non serve che urli- la mano di Calum si posa sul mio avambraccio. Lo guardo alienata e poi sposto lo sguardo sulle sue pupille, tirandomi indietro, verso destra.

Voglio scomparire in camera mia e non uscire mai più.

-E qual è il punto? Questa è solo l'ennesima dimostrazione che non fai il tuo dovere, che è quello di studiare- dice Ashton, incrociando le braccia e guardandomi sdegnato.

-Siete tutti così schifosamente uguali.- sputo a denti stretti -Tu- gli punto l'indice contro -voi- rivolgendomi ai ragazzi -i miei genitori, mia sorella, i professori-

-Pensate tutti che io sia una delusione, che non sappia fare nulla, che in sedici anni di vita non abbia combinato nulla. Scusate se non so cantare o suonare uno strumento tanto bene da essere diventata così famosa da aver lasciato la scuola e la mia vecchia vita di adolescente normale. Scusate se non sono brava nello sport tanto da andare in Brasile ad allenarmi in prima squadra. Non sono talentuosa, non ho nulla che mi caratterizzi e grazie, ma già lo sapevo. Pensate piuttosto a voi e al fatto che vivete con una ragazzina di sedici anni che bada ai vostri posteriori come una mammina.-

Esplodo tutta all'improvviso.

E non pensavo potesse essere così brutto, ma così liberatorio al tempo stesso.

Nel momento in cui sento le lacrime scorrermi lungo le guance e i loro occhi puntati addosso, a giudicarmi, capisco che devo andarmene.

Chiudermi in camera e non uscire più.

-Non andare via!- sento Ashton urlare e i passi di Calum bloccarsi esattamente di fronte alla mia porta, quando gli chiudo la mia porta davanti al viso.



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