Twenty-seven
Ricordate l'avviso del capitolo precedente?
Non sono brava con i capitoli esplosivi alla James Bond (non ho visto il film, quindi non so se c'è qualcosa che esplode per davvero o no, ma avete afferrato il concetto).
Spero comunque che il capitolo sia di vostro gradimento. Il prossimo, vi prometto che mi impegno di più sui drammi di coppia.
OKAY HO GIA' DETTO TROPPO. SPARISCO.
Voi leggete, votate, commentate (i commenti sulle righe (dai che avete capito anche qui) sono i miei fav) e condividete con le vostre internet friends *sorrisino promozionale*
Qual è la vostra ship preferita nei 5SOS? Bromance o Romance?
-Gil
Quando arredai la mia stanza, circa un anno e sette mesi fa, mi ricordo di aver pensato "non me ne stancherò mai".
Ripensandoci adesso posso dire che ero semplicemente attratta dal trovarmi in una casa che era mia e che non vedeva i miei genitori al suo interno.
Pensavo che non avrei mai potuto stancarmi di guardare le foto che avevo attaccato al muro dipinto di bianco o al lampadario lilla che Luke mi aveva aiutata a montare.
Concentrandomi sui ricordi e confrontandoli con il presente, credo di essermi sbagliata alla grande.
La finestra è troppo grande e il mio letto forse troppo piccolo, la scrivania occupa troppo spazio e il mio armadio a quattro ante ingombra metà della mia stanza, esplodendo di maglie spiegazzate e Jeans macchiati.
Sono chiusa qui dentro da quella che sembra un'eternità e sono arcistufa di non poter uscire senza fare la figura della pappamolle.
Ho assunto la mia miglior posizione da broncio, con le labbra arricciate e le sopracciglia inarcate sul viso corrucciato. Ho le braccia incrociate fermamente sotto al seno e le gambe intrecciate nella coperta bianca che Michael cerca sempre di rubarmi.
Guardo la porta intensamente, immaginando che qualcuno la apra per provare a parlarmi.
Credo di star impazzendo.
Comincio a sentire rumori di passi sul soffitto e un fitto borbottare fuori in corridoio, ma è passato davvero troppo tempo e se i ragazzi non si sono fatti ancora vivi, è impossibile che siano loro a provocare questi suoni.
Per quello che so, potrebbero essere sdraiati in camera di Ashton a guardare Mulan senza di me.
Al pensiero sento gli occhi bruciare e il naso pizzicare.
Guarderebbero davvero Mulan senza di me?
Ripenso alla scenata che ho fatto in sala qualche ora fa e abbasso lo sguardo alle mie braccia incastrate l'una con l'altra, riflettendo su quello che ho detto, ma non riesco a ricordarmelo.
Non intendevo davvero dirlo, qualunque cosa fosse, e non volevo che si arrabbiassero con me fino al punto di ignorarmi spudoratamente per chiudersi in una stanza senza chiamarmi.
Mi sento stupida, chiusa da sola in una camera palesemente vuota a fare il muso lungo al niente, sperando che uno di loro abbia un attacco di pietà o pena improvviso per me.
Quando sento una lacrima corrermi lungo la guancia decido di riprendermi.
La asciugo bruscamente via e mi sdraio a pancia in su, guardando fermamente il soffitto bianco, come se li stessi guardando negli occhi.
La colpa è loro, che mi vogliono brava e studiosa come i miei genitori avevano provato a farmi diventare.
Devono capire che io non sono così, che il mondo dello studio, dell'essere brava e obbediente e di tutte quelle cose lì, non è il mio.
Sono me stessa e se a loro non sta bene, allora forse dovrei chiedere a mio padre di trovarmi un altro appartamento.
Resto nella stessa posizione per altri cinque minuti, fantasticando sull'ottenere una casa come questa tutta per me.
Niente urla notturne, niente colpi di batteria ad ore assurde del mattino, niente chitarre in giro per casa o boxer nel lavandino quando la mattina mi alzo per fare la colazione.
Niente pile di calzini neri da lavare, niente camice da stirare, niente problemi di coppia, niente rumori strani dalla stanza di Luke.
Più vado avanti con la lista, più mi accorgo quanto vivere con loro sia stressante.
Niente Calum che mi chiama nel bel mezzo di un sonnellino per tirare Luke fuori dall'armadio, niente restrizioni sulle parlolacce e niente barattolo dove versare i miei soldi.
Sorrido a me stessa, pensando che una vita senza 5SOS sia quello di cui ho bisogno.
La casa continuamente immersa nel silenzio, una sedia sola al tavolo in cucina, una sola stanza occupata, più cuscini e coperte su cui dormire.
Anche se la mia lista continua a migliorare, sento il sorriso sul mio volto iniziare a sbiadire e ad essere rimpiazzato da un broncio.
Non è però affatto simile all'espressione orgogliosa che ho mantenuto per due ore e trentacinque minuti fino ad adesso.
Sento il petto stringersi e la gola chiudersi progressivamente, mentre la vista si fa acquosa e il naso inizia a colare leggermente. Conosco bene questa sensazione e non mi piace per niente.
Mi passo la manica della felpa grigia sul viso e la vedo umida.
Sto piangendo o forse è solo moccio.
Mi chiedo come un pensiero apparentemente bello possa essere la causa della mia tristezza.
Ho sempre voluto dormire da sola o mangiare quello che voglio quando lo voglio.
Ho sempre voluto che Ashton mi lasciasse in pace quando non ho voglia di fare i compiti o che Luke non mi disturbi mentre dormo perché ha litigato con Michael per una cosa stupida.
Penso che a volte, ciò che vogliamo (o che pensiamo di volere) non sia quello di cui abbiamo bisogno.
Non ho idea di chi l'abbia detto (perché qualcuno deve per forza averlo pensato prima di me) ma non importa al momento.
I singhiozzi si fanno più rumorosi man mano che cerco di trattenerli.
Non so bene come sia successo, ma dopo un paio di minuti con la faccia immersa tra i palmi bagnati (forse è sudore?) delle mani, sento davvero dei rumori in corridoio, ma invece di restare fermi dove sono, il suono si rafforza e i passi si fanno sempre più vicini.
Deglutisco e guardo la maniglia abbassarsi, prima che lo stipite di legno si copra di riccioli biondicci.
Mi volto velocemente con la schiena all'aria e barrico le mie lacrime su un cuscino bianco, aspirando aria calda e contando i secondi con ansia, aspettando che Ashton se ne vada.
-Gil, possiamo parlare?- la sua voce sembra addolcirsi, ma io lo ignoro e conto il quarantesimo secondo con un singhiozzo soffocato dalla stoffa del lenzuolo, che ora stringo tra i denti.
Se mi sente frignare come una bambina penserà che sono pentita di ciò che è successo prima o peggio, che io voglia accontentarlo e iniziare ad essere una brava studentessa.
Avverto il tappeto peloso spostarsi dal parquet di legno e i suoi enormi piedoni coperti da un paio di stivali di pelle inciampare contro il materiale morbido.
Immagino il suo corpo spiaccicato contro la mia scrivania e lascio andare una leggera risata -ridi di me?- chiede retoricamente.
Mi sento sollevare dalle sue enormi mani (in Ashton tutto sembra zoommato, come potresti farlo con il culo di Calum nelle innumerevoli testimonianze del suo odio contro i boxer o qualunque cosa gli copra il culo).
Mi dimeno all'istante e sento la pianta del mio piede collidere con la sua faccia, prova di ciò è il mugolio infastidito che segue quella mia azione.
Scalcio e muovo le mie mani sulle sue braccia, pizzicando la pelle oltre la stoffa della maglia che indossa, per fargli mollare la presa.
-Credo che su di te l'isolamento non funzioni- sospira sconsolato, mentre io mi volto verso di lui con gli occhi ancora chiusi e le guance rosse coperte dai capelli sfuggiti al mollettone con cui erano rilegati.
Mi lascio sfuggire una risata sarcastica e uno sbuffo -era una punizione?- mi scosto il ciuffo dal viso e lo guardo con un sopracciglio inarcato.
-Non so cosa fare, forse dovrei scrivere "non sei mio padre" su un foglio e appicciarmelo sulla fronte con la colla attack- sbuffo, sistemandomi meglio sul materasso e sistemandomi di nuovo i capelli corti in una coda sbilenca.
Inutile nascondergli il mio pianto, se non l'ha capito dai singhiozzi è davvero più stupido di quanto io pensi.
-Hai pianto- lo sussurra più a se stesso che a me, così lo ignoro e mi tiro nervosamente le dita delle mani, una delle brutte abitudini che ho sviluppato crescendo tra litigi con i miei e con i professori della mia vecchia scuola.
Tirarmi le dita mi calma, tiene la mia mente impegnata su qualcosa di semplice che in qualche strano modo mi aiuta a superare ciò che reputo più difficile.
-Senti, se sei venuto qui per farmi la ramanzina puoi anche andartene- borbotto guardandolo negli occhi e alzandomi dal letto con calma. Deve sapere ciò che penso su questa cosa e chiudere definitivamente l'argomento scuola.
-Litighiamo per questo quante volte a settimana? Dieci? Due volte al giorno? Io sono stanca, non so tu- il mio sguardo resta sul suo viso per un paio di secondi in più, poi lo distolgo e mi occupo dei vestiti sparsi a terra.
Sembra che Lukey la principessa abbia trovato le mie gonne, penso guardando un paio di queste (mai indossate) buttate accanto alla sedia della scrivania.
Ne raccolgo una col tulle e la butto all'interno dell'ultimo cassetto dell'armadio. Lì dentro ci sono tutte le cose che mi hanno regalato i parenti e che i miei genitori mi hanno impedito di buttare.
Hanno sempre detto che è scortese rifiutare un regalo, per anni mi hanno costretta a sorridere fintamente a tutte quelle persone che mi donavano qualcosa che non mi piaceva e per anni, di tutta risposta, io ho continuato a dire esattamente ciò che pensavo quando lo pensavo.
Conseguenza di ciò, rimproveri costanti da parte di mia madre e il mio cassetto dei rifiuti stracolmo di roba orribile.
Lo chiudo con un calcio disinteressato mentre avverto la presenza di Ashton alle spalle, mentre mi guarda a braccia conserte.
-Badare ai miei fratelli era difficile, soprattutto quando Harry aveva quattro anni e mi pregava ogni notte di scacciare i mostri da sotto al suo letto. Ricordo che una volta mi scordai di farlo, non guardai sotto al suo letto e lui mi svegliò alle tre e mezza urlando- lo guardo confusa e mi poggio alla scrivania con il sedere.
-Non ti ho chiesto la storia della buonanotte Ashton, quindi se hai finito puoi andartene- mi tiro dietro una ciocca di capelli e continuo imperterrita il mio lavoro di pulizie, convinta a non mostrare segni di cedimento.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, poi si siede sul mio letto e mi guarda con le mani incrociate in grembo.
Perché non se ne va? Gli serve un cartello per caso?
-Cazzo Ashton, non mi hai sentito?- alzo di poco la voce e mi giro verso di lui, tenendo un paio di camice a quadri tra le mani, ora inermi lungo i miei fianchi.
Chiudo gli occhi e alzo la testa verso l'alto, aprendoli e tenendo indietro le lacrime.
-Si chiama ignorare. Quando una persona ti dice qualcosa e tu decidi di non prestarle attenzione. Dovresti saperlo bene, dato che è ciò che fai tutto il tempo- lo guardo pur avendo coscienza delle mie lacrime, pronte in qualunque momento a scendere.
Siamo così diversi che non c'è modo per noi di stare insieme senza discutere sulle nostre differenti opinioni, e non parlo solo della scuola. Odio litigare con lui, perché è l'unico dei ragazzi che sa essere cattivo quanto me.
Resto in silenzio e apro la porta, spalancandola con un calcio -esci- sputo la parola tra i denti, indicandogli il vano con la mano piena di vestiti.
Digrigno i denti quando lo vedo ancora seduto e fermo allo stesso posto. Ha la mascella contratta e le mani strette insieme, i suoi occhi sono vividi e le pupille grandi.
Prendo un respiro profondo e mi trattengo dall'urlare. Se urlo anche gli altri sentiranno e scenderanno per vedermi piangere, perché se urlo piango.
-Esci- ripeto più lentamente, nonostante il groppo che ho in gola me lo impedisca. La voce mi trema ma il suo sguardo è fermo.
-Sono più bravo di te in questo, cosa credi? Sono cresciuto tra litigi e discussioni, so come funziona molto meglio di te- si alza e mi viene incontro quasi minacciosamente.
Ha le spalle larghe e la sua figura è molto più alta della mia.
Di solito vedo in lui tante piccole cose che mi rendono facile prenderlo in giro, come i capelli ricci o le fossette profonde sulle guance, ma quando diventa così serio non riesco a vedere nulla di tutto questo.
Ashton è sorrisi e risate fino a quando non si altera, perché ora vedo solo un uomo serio che mi rimprovera e solo avendo i suoi occhi su di me, sento montarmi dentro il pianto.
-Capito ragazzina?- mi apostrofa, poggiando un dito indice sotto il mio mento e alzandomi il viso fino a che i miei occhi non incontrano i suoi.
Vorrei tanto trovare qualcosa per alleggerire il carico di tensione che ci grava sulle spalle, ma semplicemente è una discussione troppo importante e pesante per lasciare che una mia battutina ironica possa smorzare tutti questi sentimenti.
Annuisco lentamente e reggo il suo sguardo a fatica, sentendomi debole non solo nelle emozioni, ma anche fisicamente.
Il suo viso non dà segni di cedimento, mi guarda così serio che penso davvero che sia irreparabilmente arrabbiato con me.
-Mi odi?- sussurro con la voce tremante, non riuscendo più a sostenere il suo sguardo. Se davvero mi odia non riuscirei mai più a guardarlo negli occhi, sapendo quanto disprezzo la sua anima mi riserva.
Il silenzio si fa sempre più fitto, fin quando un soffio di aria espluso dalle sue labbra non attira la mia attenzione, seguito da un suono acuto.
Sta ridendo di me.
La mia espressione si intristisce ulteriormente, fin quando lo spazio che il suo corpo forma con il mio e il silenzio che ci circonda, non mi permette di tramutare la tristezza in rabbia, contro me stessa.
Dov'è la mia faccia tosta quando serve? La linguaccia lunga e la boccaccia troppo larga? Dove sono finiti tutti i miei pensieri, ora che mi servono? Il coraggio e la strafottenza di non temere alcun giudizio?
Continuo a guardare le camice sotto i miei piedi, attendendo che se ne vada o che faccia qualsiasi altra cosa.
Quando sto per prendere iniziativa e spostarmi, Sento le sue braccia intorno a me, che mi stringono e mi tirano verso l'alto.
-Non posso odiarti, davvero è impossibile odiarti- mormora, con il naso sul mio collo.
-Oh credimi, molte persone ci riescono e anche molto facilmente- parlo solo quando il nostro abbraccio di ricongiunsione è terminato e la mia voce non è più quella di un trans con il raffreddore.
Mi passo le maniche della felpa (povera, donatele un euro allo 000 890 000 per tutte le caccole che sta ricevendo) e esaurisco il mio pianto con un singhiozzo asciutto di lacrime.
-Non credo sia così. A volte pensiamo qualcosa di noi stessi- mi guarda, accompagnandomi verso il letto e sedendosi al mio fianco -ma non siamo abbastanza temerari per affermarlo da soli, così scarichiamo questo pensiero a qualcun altro e semplicemente ci convinciamo che sia esattamente ciò che pensano di noi.- conclude, squadrando la mia reazione con occhi gentili.
Rifletto per qualche istante su ciò che ha detto e mi limito semplicemente ad annuire, pronta a subire tutte i rimproveri che ha da farmi.
Visto e considerata la mia attitudine al causare disastri, questa volta non me la caverò con dieci minuti di ramanzina. Oh no, posso già sentire il mal di testa galoppare verso di me come Napoleone sul suo cavallo bianco.
-Sono pronta. Quando vuoi- chiudo gli occhi e strizzo le palpebre, tuffandomi di schiena sul letto e coprendomi la faccia con gli avambracci.
-Se aspetti che io inizi a farti la paternale, tu stessa hai detto che non sono tuo padre e mi comporterò semplicemente come il tuo tutore dovrebbe fare- aspetto qualche secondo e poi mi tiro una sberla su una guancia.
-Eh?- quando mi assicuro che il rossore dovuto al colpo sia reale, così come il dolore che segue, mi alzo di scatto e lo guardo con gli occhi spalancati.
-Lascerò predicare chi ne ha il diritto- mi guarda come se stesse semplicemente ordinando il cinese del venerdì da Fricate Frachete e batte le palpebre in maniera davvero molto inquietante o forse sono solo io -e il dovere- aggiunge poco dopo.
Il mio sguardo interrogativo deve essere abbastanza per farlo parlare, ma preferirei che si fosse semplicemente stato zitto -Per questo ho chiamato tuo padre, arriva domani a pranzo-.
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