Thirty-Two
Come al solito: spero che vi piaccia come scriverlo è piaciuto a me. Votate e commentate! Ora me ne vado perché questo capitolo ha 4467 parole.
-Gil
Di solito non sono mai in ritardo.
Mi correggo.
Di solito non sono mai così tanto in ritardo. Parliamo di pochi ed effimeri minuti che ormai tutti i professori hanno imparato ad ignorare.
Arrivo in ritardo da così tanto tempo che è come se avessero concesso una seconda campanella di inizio solo ed unicamente per me, tanto si erano rotti tre quarti di palle a sprecare l'inchiostro delle loro magiche penne rosse per scrivermi i foglietti di detenzione.
Sono un paio di mesi che non vedo la famigliare porta azzurrina dell'aula di detenzione, con le finestrelle dai vetri opachi e spessi dieci centimetri, almeno quanto una delle lenti degli occhiali che Freeman porta sempre a cavallo del naso leggermente arcuato.
Prima mi sedevo sempre in prima fila, con la schiena contro la parete, e contavo le stelline disegnate a matita sul banco. Le forme composte di grafite erano sbiadite e malamente ripassate da me, durante infinite ore, tutte quelle volte in cui ero capitata con il sedere spiaccicato sulla fredda lastra di metallo della sedia.
Era diventato il mio posto in detenzione, quasi portava il mio nome scritto sopra. Lo sapevo io e lo sapevano tutti che quel banco sarebbe sempre stato destinato ad ospitare me ed il mio audace carattere.
Ormai non è più così. Se commetto un'infrazione non si sprecano neanche più ad annotarla sul mio registro personale, mi spediscono direttamente dalla preside Porcelet e attendono in silenzio che sconti i miei trentasette minuti di inferno.
Se poi sono fortunati, quelli della segreteria e la Signorina Ball (accuratamente tradotto in italiano: palla di ciccia; il dito destro della preside. Carmen) possono sperare di udire la soave voce della Maialetta che mi intima di stare attenta al mio comportamento con profonde ed argute minacce.
Scommetto che di notte resta sveglia, occhi ben aperti e fissi sul soffitto coperto di ombre scure, pareti fitte di ricordi di una lei meno rotonda e più longilinea, a pensare a convincenti e terribili minacce da offrirmi. Ne caccia fuori di tutti i tipi, come fossero i biscotti della nonna.
In realtà utilizza sempre lo stesso "Chiamo il Signor Ashton" oppure se si sente particolarmente incazzata "Giuro che faccio venire qui e all'istante il suo tutore legale" che per Ashton è un ruolo di particolare rilievo e lo fa sentire un po' meglio quando prova con la band e non riesce a suonare come vuole lui.
Mi fa piacere rendere la vita delle persone piena e colorata, diversa e felice. Il mio è un sacrificio bello e buono.
Senza di me la preside non avrebbe attacchi d'ansia e senza nervosismo non suderebbe e non rischierebbe di perdere qualche etto rimproverandomi e piovendo grosse gocce madide di sudore giù per le tempie.
Mio padre non avrebbe motivo di disonore o di viaggiare da un continente all'altro per trasportarmi come se fossi una scatola di cartone dal contenuto fragile. Mio padre mi tratta come un bicchiere di vetro (il cristallo è decisamente troppo per me) in una scatola piena di polistirolo. Mi sbatacchia di qua e di là pensando "ah, tanto è imbottita di quella roba e non potrà rompersi mai" ma non sa che dei limiti ce li ho anche io.
Comunque non mi importa. Adesso non conta più nulla: ciò che sento per Calum o l'amicizia che ho costruito con i ragazzi in tutto questo tempo vale quanto un buono sconto per un negozio che è fuori produzione da dieci anni. La mia famiglia mi fa sembrare così inutile che mi viene voglia di piantare la testa sotto un cumulo di sabbia e nascondermi lì per tutta la vita.
Per questo questa mattina mi sono alzata particolarmente di cattivo umore. Nonostante mio padre dorma al piano di sopra, nell'ultima stanza in fondo al corridoio (apposta gli ho spostato le cose nella zona più inculata e calda di tutta la casa) Calum non si sente "sicuro" a dormire insieme con me, dentro lo stesso tetto.
-Tuo padre potrebbe vederci, anche Luke e Michael dormono nelle loro stanze. Fin quando non ... - poi si è fermato e ha abbassato la testa, come se si fosse reso conto di aver sbagliato, nel nostro caso di pensato ad un futuro per noi due che non ci sarà. "Fin quando tuo padre non se ne andrà dovremo dormire separati" ma scommetto che ha ricordato che quando se ne andrà mio padre me ne andrò anche io.
Gli ho preso il viso nei palmi delle mie mani e l'ho guardato dritto nelle pupille, senza biasimarlo per la sua scelta di non starmi accanto durante la notte. Mi sono avvicinata al suo viso con il mio e gli ho lasciato un piccolo bacio al lato della bocca. Gli ho sorriso, pregando che capisse cosa sentivo in quel momento anche senza dover dare voce alle mie parole. -Anche se non sarò fisicamente con te questa notte, sappi che sarai l'ultima cosa a cui penserò prima di chiudere gli occhi- ha mormorato con gli occhi semichiusi, tenendomi per i fianchi come se ci stessimo dicendo arrivederci per un lungo periodo di tempo -e forse continuerò a pensarti anche dopo-.
Era un po' preoccupato. Staccando la sua fronte dalla mia il suo sguardo si era fatto insicuro e sapevo che la sua gola fosse piena di frasi non dette. L'ho visto: ho battuto le ciglia un paio di volte e mi sono lasciata andare a quel momento e al ragazzo che mi stava di fronte con le mani strette le une alle altre.
Sono stata egoista per tutta la mia vita, perché ho sempre dovuto imparare da sola a cavarmela con il mondo. In qualsiasi situazione mi sono sempre sentita come un individuo contro un tutto, e ogni volta sentivo quel tutto buttarmisi addosso con estrema violenza.
Le persone sono così: forti e brutali. Che sia in un modo positivo o negativo, tutte le persone che entrano a far parte della tua vita, per quanto breve il periodo di tempo, hanno un impatto su di te e sulla persona che sei. Su questo principio ho costruito il mio carattere. Ho sempre messo me stessa prima di qualunque altra cosa, per proteggermi almeno parzialmente da quella violenza di emozioni che presto o tardi mi si sarebbe riversata addosso.
Calum non è mai stato niente di tutto questo. La cosa che mi viene più difficile con lui è imparare a disarmarmi. Ho sempre tra le mani questo enorme e pesante scudo che sento come una prolungazione del mio braccio, in continuazione mi guardo intorno con gli occhi ridotti a due fessure, cercando il pericolo o il prossimo inganno. Con lui devo ricordarmi di lasciar scivolare via lo scudo e di schidere le palpebre per riuscirlo a guardare bene negli occhi.
Con Calum non ho mai sentito il bisogno di proteggermi, dal primo momento ho percepito la sua come una violenza diversa. Sulla mia pelle la brutalità di quelle emozioni era stata graffiante ma in un certo modo piacevole.
-Cosa c'è che non va?- gli ho chiesto schiettamente, avvicinandomi di pochi centimetri alla sua figura. Era teso e nervoso. L'ho guardato muovere la testa un paio di volte verso sinistra, adocchiando prima la porta chiusa della camera di Luke e poi un ciuffo dei miei capelli castani. -Nulla- ha scosso la testa e ha stiracchiato un sorriso per rassicurarmi -è solo che ... è una costa stupida, ma so che a te non piacciono le cose fatte così. A te non piacciono le frasi copiate, quelle che puoi sentirti dire da chiunque. So che non avrei dovuto dirti quelle cose sui pensieri e sul fatto di sognarti questa notte, ma sta accadendo tutto così in fretta e mi sembra di non avere il tempo per fare nulla come andrebbe fatto o come meriteresti che fosse fatto- l'ho sentito deglutire a secco e poi afferrarmi le mani con forza impetuosa.
Sembrava instabile sui suoi piedi, quasi mi pareva di vederlo barcollare in mezzo ad una tempesta. I capelli scompigliati da un vento saturo di un'insopportabile frustrazione e gli occhi rossi, per la stessa tristezza che ogni tanto sento ancora stringermi la gola in un pugno dalla stretta presa.
Gli ho sorriso leggermente e l'ho abbracciato, chiudendo gli occhi e respirando contro la nuca il vago sentore del suo shampoo. Gli ho stretto le mani attorno alle spalle e ho sentito una flebile scintilla di dolore salirmi su per lo stomaco. Sulla mia pelle serpeggiavano suadenti una coda di brividi, mi percuotevano come fossero scosse elettriche.
"Calum, è lui" ho pensato e per confermare il mio pensiero gli ho strofinato il naso sul collo, rabbrividendo per l'ennesima volta al movimento del suo corpo contro il mio. I suoi muscoli si contraevano e rilassavano facendo riferimento ai miei, adattandosi ad ogni curva che io assumevo contro di lui.
-Non devi sentirti in difetto per qualcosa di così bello- ho sussurrato e l'ho sentito chiaramente sussultare, era comprensibile che fosse sorpreso dal modo in cui avevo reagito. In quel momento ero totalmente vulnerabile tra le sue braccia e non sarei potuta essere al mio agio più di così. Le sue braccia si strinsero maggiormente attorno al mio busto e il movimento fulmineo e sicuro con cui aveva infilato le dita sotto la mia canottiera mi lasciò di nuovo senza fiato.
La sua pelle calda contro la mia fece rivivere quella sottile sofferenza che sentivo crescermi dentro -Non avrei mai pensato che amare avesse potuto farmi male in un modo tanto piacevole- gli ho sussurrato, lasciandomi trasportare da un timido sorriso per ciò che mi ero lasciata sfuggire dalle labbra.
Sapevo stesse sorridendo anche lui mentre le sue dita si muovevano sui miei fianchi, trovando un ritmo regolare e serafico. Le sue labbra trovarono presto le mie -Ogni volta che ti sfioro, che ti tocco stando vicini in questo modo- sussurrò, rinsaldando la stretta delle sue dita sui miei fianchi come a sottolineare le sue parole -ogni volta che ti guardo mi sento triste. Sono giorni che vederti mi rende malinconico, da quando è arrivato tuo padre e le cose sono andate precipitando e noi due ci vediamo per poche ore al giorno. Quando stiamo così vicini sento come un moto d'ansia investirmi e non è qualcosa che riesco a controllare o che so come sopportare. Mi viene un ... ho voglia di piangere quando mi sento così e tu sei accanto a me, perché io non dovrei sentirmi così- l'ho sentito spezzarsi lentamente sotto le mie mani, mentre lo stringevo sempre più forte contro il mio corpo. Per qualche secondo ho creduto che fosse colpa della pressione che stavo esercitando sulla sua pelle, il motivo del suo rompersi. Calum era tra le mie braccia e lo guardavo dal basso mentre iniziava a piangere, come un bambino da solo in un parco vuoto. -Io dovrei sentirmi felice anche solo di poterti vedere. Volerti bene dovrebbe essere facile e non dovrebbe ferirmi come lo sta facendo adesso. Non voglio che tu te ne vada, so che non lo sopporterei-.
A quel punto cosa avrei dovuto fare? Ero in piedi in un corridoio buio con la persona alla quale, ero sicura, tenevo di più al mondo. Ma quella persona stava dichiarando che il motivo del suo malessere ero io. Io che sentivo di amarlo. Cosa avrei dovuto fare?
Era notte inoltrata e la luna era un disco pallido coperto dalle nuvole, c'era vento e un paio di rami ondeggiavano piano fuori dalla finestra chiusa, le tende erano rese trasparenti dalla luce dei lampioni accesi in strada.
L'ho guardato e gli ho asciugato una lacrima che gli scendeva su una guancia -Mi dispiace così tanto- ho mormorato mordendomi un labbro. -Vorrei che ci fosse un'altra soluzione. Proverò a parlare con mio padre- speranzosa ho aspettato in una sua reazione e una volta ricevuto il suo flebile sorriso, mi sono alzata in punta di piedi -Ricordami di indossare quei tacchi che mi regalasti per Natale quando devo baciarti ad effetto, sei troppo alto- e proprio mentre una risatina poco convinta gli scuoteva il petto, io mi sono slanciata verso il suo viso e ho ricongiunto le nostre labbra.
Siamo andati a dormire pochi minuti dopo, avrei dovuto sentirmi leggera dalle confessioni che ci eravamo fatti, ma sentivo il peso delle sue parole gravarmi in un macigno ingombrante al centro del petto. Mi sono stesa sotto le coperte sentendo le dita prudere e formicolare. Incapace di chiudere gli occhi e dormire sono rimasta sveglia per un paio d'ore a smanettare con il telefono.
In quelle ore sono riuscita a pensare solo alle notti d'estate in Italia, quando la persiana aperta faceva entrare un groviglio di aria calda ed umida all'interno della mia stanza. Io, raggomitolata sotto un lenzuolo, mi tenevo stretta al cuscino con cui dormiva Billie quando tornava dalla facoltà di medicina dove studiava, ad Udine. La casa era completamente immersa nel silenzio e la porta della mia cameretta era aperta sul corridoio, illuminato solo dalla lucina da notte che ancora mi ostinavo a tenere accesa. Il buio non mi ha mai spaventata troppo, neanche da bambina, ma insistevo con quella mia strana abitudine perché mi piaceva il modo in cui l'ambiente diventava blu. I miei libri si tingevano di un freddo color notte e lo scaffale accanto al mio letto assumeva una sfumatura azzurrina, il colore del cielo estivo quando inizia a calare la sera. Io mi spostavo da una parte all'altra del materasso in cerca di fresco e sollievo dal bollore del vento e il sonno non riusciva a chiudermi le palpebre.
In quei momenti restavo in silenzio a respirare l'aria notturna che proveniva da fuori il mio balcone e strisciavo fuori dal materasso cigolante per afferrare il telefono, poggiato sul comodino accanto al letto gemello di Billie. Mia madre dormiva solo due porte accanto alla mia e il suo sognare era labile e molto leggero, molte volte il cigolio del mio materasso mi aveva tradita nel corso della mia prima adolescenza.
Tutte le notti passate su twitter a votare per i miei coinquilini (dirlo è davvero la cosa più strana del mondo adesso) a guardare video su youtube con il volume ad un inutile livello due, sperando di non essere colta in flagrante dai miei. Quei ricordi mi investirono per ore intere.
In quel momento, dopo la buonanotte di Calum, stavo rivivendo quelle notti d'estate passate da sola nella mia stanza. Il sordo dolore di dover lasciare la vita a Los Angeles per riprendere quella ordinaria in Italia rendeva impossibile dormire.
Dopo una notte insonne ho fatto più fatica del solito ad alzarmi, l'obbligo di affrontare la realtà sembrava insopportabile. Fin quando sono stata a crogiolarmi nel mio letto con gli occhi aperti e la mente in subbuglio, è andato tutto magnificamente bene. Un paio di lacrime erano scese in seguito ad un paio di pensieri e ricordi salati, ma la solitudine della mia stanza aveva assorbito quella sofferente malinconia. Aperta la porta del corridoio, quello stesso carico di emozioni mi si era buttato addosso come pioggia sull'asfalto e la mia espressione insofferente aveva destato non pochi sguardi interessati.
Persino Michael aveva cercato di capire cosa mi stesse passando per la mente, ma avevo semplicemente fatto spallucce e afferrato un biscotto andando verso il soggiorno. Calum non aveva detto nulla e con un bacio sulla tempia mi aveva lasciata entrare di nuovo camera mia per vestirmi.
Mentre Michael mi spiegava con voce bassa e roca dal sonno in che modo si sarebbe svolta la giornata, in fronte ad alcune interviste programmate settimane prima, la mia giornata venne distrutta da mio padre che, scendendo a passo baldanzoso le scale, si era offerto di darmi un passaggio a scuola.
-Ci passo davanti andando in azienda, quindi tanto vale che ti risparmi un ritardo- cercava in tutti i modi per incrociare il mio sguardo e credo di averlo fatto sentire incredibilmente a disagio voltandogli le spalle per afferrare la borsa di scuola, parcheggiata accanto al solito divano blu.
Entrando di nuovo in soggiorno, ora illuminato da un accecante raggio di sole, ho sentito Michael rivolgersi a mio padre -Le passerà- aveva detto, ma lui più di tutti sapeva che non sarebbe affatto stato così. Non avevo risposto alla sua offerta di accompagnarmi a scuola, alla quale ero naturalmente tentata di rifiutare, ma trovandomelo con le chiavi in mano e un piede fuori dalla porta, penso fosse sottinteso che non avessi più scelta.
Non credo abbia mai vissuto un momento più imbarazzante del viaggio in macchina di questa mattina. Sono due anni che non ci rivolgiamo parola se non per a) lo stretto necessario che b) per me equivale a discutere. Non abbiamo più nulla che ci accomuna e di cui parlare.
Preferisco eliminare per sempre dalla mia memoria l'effimera e povera conversazione che ha cercato di stabilire per i venticinque minuti in cui siamo rimasti bloccati nel traffico.
Vedevo chiaramente il sudore scendergli in goccioline dalla fronte e sulle tempie, mentre si sforzava di trovare un argomento che non mi facesse venir voglia di uscire dal finestrino in quell'istante. Peccato per lui che fosse l'unica cosa a cui potessi pensare. In confronto all'aria che si respirava dentro l'abitacolo della sua auto, i nuvoloni di fumo sputati fuori dai tubi di scarico delle vetture che ci circondavano erano puro ossigeno.
Giunta davanti alle porte di scuola mi sono sentita più leggera di dieci chili e guardando un'ultima volta, attraverso il finestrino dal lato del passeggero, il viso tondo di mio padre mi sono decisa ad entrare nella struttura.
***
-Mi scusi per il ritardo- mugugno, sentendomi appiccicaticcia su tutto il corpo. Devo avere due parchi acquatici sotto le ascelle per tutto il caldo che c'era in auto, penso grattandomi il collo con due dita e attendendo che la professoressa mi dia il permesso di sedermi o, nel mio specifico caso, mi spedisca in segreteria.
Sposto il peso da una gamba all'altra mentre la Turner (cinquantanove minuti di puro terrore e matematica) si piega sulla scrivania tenendo una penna bloccata tra le labbra sottili e appicicose di lucidalabbra rosa shocking.
Guardo la classe di sfuggita per un paio di secondi, girando lo sguardo tra i banchi e le facce famigliari di un paio di studenti dell'exchange con cui condivido i corsi obbligatori con Freeman il giovedì pomeriggio.
Yoyo siede in un banchetto verde vomito infondo all'aula, i suoi occhi scuri sono concentrati sulle mani che tiene strette in un intrico di dita e unghie tonde sul quaderno chiuso. Ha la frangia che gli copre un sopracciglio e un paio di ciuffi lisci che gli ostacolano la vista, ma lui li tiene lì e sta fermo a guardarsi le maniche della felpa nera.
Accanto a lui siede un'abbronzatissima Alexandra, con la scollatura profondissima sul petto e un groviglio di collane tra le clavicole sporgenti. Infastidita dal suo sorriso bianchissimo distolgo lo sguardo dopo essermi guadagnata un timido saluto e un bacio volante disgustosamente femminile. Le rivolgo un sorriso tirato e torno a guardarmi le scarpe, impaziente -Posso sedermi o ha bisogno che le faccia da appendiabiti?- borbotto, causando una sommessa risata generale. Anche i mitici tre gemelli albanesi (Shi, Shu e She) si lasciano scappare un risolino confuso (quei tre non spiccicano mezza parola di inglese e il loro albanese è talmente dialettale che neanche un traduttore lo capirebbe).
-Non si permetta mai più!- tuona, schiudendo le sue labbra fini ed investendomi con un ultrasuono potentissimo -Non accetto alcuna forma di cafonaggine nella mia classe, vada fuori ad allenare la sua insolenza- punta un dito verso la porta e arrossisce esageratamente sulle gote -Non la sopporto più Ternazzi, grazie al cielo presto sarà trasferita di nuovo nel suo paese-.
Abbassa il tono di voce e si volta verso la lavagna, scrivendo una serie di numeri e lettere con un gesso un po' sbeccato e grande quanto un'unghia.
-Le ho dato un'indicazione- aggiunge, sentendo ancora la mia presenza all'interno della classe -la segua-.
Volto il mio sguardo agli studenti sentendomi bruciare di vergogna e umiliazione. Nessuno avrebbe dovuto sapere del mio trasferimento fino a venerdì e adesso tutto ciò che vedo sono gli occhi spalancati e le bocche schiuse dei miei compagni. Tutto quello che avevo voluto evitare mi era stato appena servito sotto gli occhi su un piatto d'argento.
-Stia tranquilla che la mia faccia non la vedrà mai più- sputo a denti stretti, improvvisamente furiosa, e voltandomi verso l'uscita alzo il braccio e le dedico il mio delicatissimo dito medio.
-IN PRESIDENZA- sogghignando annuisco alla sua nuova istruzione e mi chiudo la porta alle spalle.
***
-Cosa diamine ti passa in testa? Non è possibile che tu sia tanto stupida- allontano l'altoparlante del telefono dal mio orecchio e alzo gli occhi al cielo, sentendomi già esausta della conversazione appena iniziata.
-Sono passati solo 4 secondi da quanto ho risposto alla tua chiamata e ti giuro, ho già voglia di spaccare il telefono tirandolo contro il vagone di un camion in corsa- brontolo, inserendo il vivavoce sotto richiesta di Camille, che siede accanto a me nel fortino abusivo in bagno.
-Chi è?- mima con le labbra, indicando con un dito smaltato di rosa pallido il mio cellulare, ora in bilico sulle mie ginocchia coperte dagli skinny jeans che Luke mi prestò per il mio secondo (o forse quarto) appuntamento con Jason.
-Mio padre- le rispondo con il labbiale, ficcandomi un dito in gola e fingendo un coniato di vomito che la fa ridacchiare.
-Non puoi permetterti di fare cose del genere con il cognome che porti- grugnisce rabbioso.
-Cognome che vorrei non avere- ribatto -e che non significa nulla per me- aggiungo tentando di farlo infuriare per bene.
-Non riesco neanche più ad ascoltarti senza sentirmi disgustato- posso anche immaginarmi la smorfia che adesso gli adorna le labbra carnose. Camille mi guarda e scuote la testa vigorosamente. La sua espressione è tornata ad essere il solito misto di insicurezza e responsabilità.
Recepisco il suo messaggio e sospiro pesantemente essendo consapevole di aver esagerato -Mi dispiace- borbotto a mezza voce, morendomi un labbro convulsamente -Senti papà, siamo a metà settimana e tra quattro giorni sarò su un aereo diretto verso Roma. Non avrai di ché preoccuparti, quindi puoi anche evitare di fare un dramma per un richiamo dalla preside- porto un unghia alla bocca e tiro una pellicina che vedo sporgere.
Lo sento respirare contro lo speaker per qualche secondo, stabilendo un silenzio carico di tensione -Okay, non ne voglio più sentir parlare. Ci vediamo a cena-.
Annuisco sentendo la linea cadere e la chiamata terminare con un sordo squillo -è andata bene- sospiro, guadando Camille che ha gli occhi azzurri fissi sulla mia faccia rosea.
-Se avessi parlato così a mio padre, sarei già morta. Les français ne pardonne pas. I francesi non perdonano, lo diceva sempre quando ero piccola e combinavo qualche marachella- sorride incarcando gli angoli della bocca e incrocia le gambe accanto ad una pila di libri.
-Quelli sono tutti tuoi?- li indico con un frettoloso gesto della mano, squadrando le copertine pallide in cerca di titoli famigliari. Vedo molti classici e una copia un po' stracciata del "Giovane Holden".
-Non pensavo fossi una tipa da Salinger- puntualizzo qualche istante dopo, distogliendo l'attenzione dai volumi per portarla al suo viso. Lei annuisce velocemente e giochicchia con un filo penzolante dalla manica della sua felpa azzurrina. -Credo che tutti siano tipi da Salinger- annuisce di nuovo sovrappensiero -lo considero a tutti gli effetti un classico e vorrei che questa edizione fosse la mia- dice soppesando il libro tra i palmi delle sue mani minute -ma come gli altri proviene dalla biblioteca- conclude impilandolo con gli altri.
Restiamo in silenzio ascoltando i fischi prodotti dal fischietto della professoressa di educazione fisica. A questi si alterano ribalzi di passi sul parquet, scarpe da ginnastica e palloni da basket.
-Ho sentito che te ne vai- esordisce dopo aver raccolto coraggio. Vedo chiaramente scritto sul suo viso il timore di scatenare in me una reazione bruta ed improvvisa, sa come sono fatta e quanto odio le voci di corridoio. Purtroppo, questa non è solo una voce di corridoio.
Le faccio un cenno con il mento confermando ciò che ha appena detto e concentro il mio sguardo su un paio di scarpe vans nere buttate a terra accanto alla panchina dove le ragazze si cambiano per l'ora di ginnastica. Io non sono mai stata una di loro, rifletto con un sorrisino ironico.
-Mi dispiace- biascica mordicchiandosi l'interno di una guancia, poi inaspettatamente mi si lancia contro in un intrico di gambe e braccia pallide e longilinee. Soffocata dalla sua improvvisa dimostrazione di affetto barcollo all'indietro e finisco sdraiata contro le mattonelle giallognole del pavimento. Siamo in un bagno e fa davvero schifo che io sia spiaccicata dove tutti passano con mani gocciolanti di acqua saponata e scarpette impolverate, soprattutto mentre una francesina dall'accento fastidioso e dalla personalità di una bambina di cinque anni e mezzo mi è stravaccata addosso. Nonostante questo chiudo gli occhi e cerco di godermi quel mezzo abbraccio, soprendendo lei e me per prima.
-Mi mancherai Gildina- singhiozza sulla mia spalla, inumidendomi la manica della felpa e immergendo le dita curate di manicure nella stoffa di colore scuro. Io sorrido flebilmente e le do un paio di pacche sulla schiena, sperando che smetta di piangere il prima possibile -Sai quanto è dura per me ammetterlo, ma mi mancheranno anche a me le nostre scappatelle in bagno durante le lezioni più noiose e i fortini abusivi in bagno per saltare educazione fisica o tutte le volte che mi hai portato cibo vero della macchinetta in mensa mentre Freeman non faceva caso a nient'altro se non al suo stupido taccuino. Penso che per le prime settimane potrei anche svegliarmi nel cuore della notte piangendo perché mi manca il modo orribilmente fastidioso con cui pronunci il mio nome o tutte le parole che hanno una "g" o una "r" in esse-.
Lei si tira su e mi sorride ampiamente, asciugandosi un paio di lacrime con il bordo della maglia. -Come farai con Calum?- chiede innocentemente, scatendando in me una serie di emozioni orribilmente forti.
Scuoto la testa e sposto lo sguardo a terra -Non lo so- deglutisco e controllo i messaggi sul telefono, cercando ciò che volevo farle leggere a proposito del mio ragazzo -ma mi ha scritto questo poco prima che entrassi nell'ufficio della preside per la storia del ritardo e del comportamento non corretto- giro lo schermo e lei legge il messaggio ad alta voce, sorridendo alla fine.
-I ragazzi ti hanno lasciato una busta sul letto, indossa ciò che c'è dentro e sii pronta per le 20:30 di questa sera, so che sarai stupenda e non vedo l'ora di vederti. Quando tornerai a casa non ci sarà nessuno, spero che tu non incontri tuo padre prima di domani, voglio che tu passi la miglior serata possibile. Ti amo. Cal-
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