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Capitolo 25.2 - Una pista da seguire

Giovanni

Attraversai tutto il corridoio reggendo fra le mani la cartella medica del paziente e mi fermai un secondo per lasciare una carezza sulla testa del piccoletto. La madre non lo aveva fatto entrare. Picchiettai le nocche contro la porta e l'aprii vedendo la donna seduta sul bordo del letto e l'uomo in piedi.

«Cosa sta succedendo?»

La donna continuò a tossire come se avesse il respiro corto e si strinse nel suo scialle di lana per coprirsi meglio.

«É... la gola. Quando ha i suoi attacchi di tosse non si ferma.»

Richiusi la porta e feci qualche passo in avanti. «Sta bene?» Si limitò a biascicare un frettoloso "sì, sì" e rialzò, mettendosi in un angolo. «E lei, cosa sta facendo? Si sdrai. I risultati della TAC sono buoni, ma deve riposare.» Mi obbedì, rimettendosi sdraiato. Rivolsi uno sguardo alla donna per poi riportarlo sul marito. «Come si sente?»

«Sto meglio. Grazie a lei, dottore. Quando posso andare a casa?»

«Non sta a me deciderlo.»

«Cosa significa?»

Feci un leggero cenno e ripresi a fissare la donna. Il suo corpo minuto era scosso e non smetteva di contemplare i piedi.

«Chieda ai suoi amici della polizia.»

«Come potrebbero saperlo loro?»

La donna si intromise dicendo di dover controllare il figlio e mi oltrepassò velocemente per uscire. Poco dopo, abbandonai anch'io la camera e vidi un ragazzo tenerla braccata al muro con fare poco amichevole.

«Parla! Mi hai pregato di denunciare tuo marito e ora dici che è innocente?»

Mi affrettai a raggiungerli per capire quali fossero le intenzioni.

«Lascia stare la mia mamma!»

Lo agguantai per le spalle trascinandolo via dalla donna e gli premetti la faccia al muro. «Cosa pensi di fare, eh? Cosa stai facendo?»

«Mi lasci andare, dottore. Non è quello che sembra!»

«È un ospedale. È meglio che parli con la polizia.»

«Non io, ma lei!» Cercò di ruotare il collo e guardai di striscio la donna. «Racconta la verità. Racconta com'è davvero tuo marito e cos'ha fatto a quella ragazzina! Confessa che è un malato e un perverso, Celia!»

«Le ho detto che siamo in un ospedale, si controlli! Dirà quello che sa alla polizia, andiamo!»
Lo staccai dal muro e costrinsi a camminare insieme a me, mentre inveiva contro la donna.

«Non mi sorprende. È meglio che si abitui. Quest'ospedale non è come gli altri che conosce.» spiegò Angela, mentre il tipo veniva scortato in manette verso la volante e non smetteva di imprecare. «Quella donna, per esempio... sa tutta la verità ma non dirà una parola.»

«È un modo per proteggersi?»

«Sì. Per quanto sia una persona orribile, non si metterà contro di lui... perché è suo marito. Queste donne non osano parlare. Hanno troppa paura di subire percosse.»

«Deve farlo!» Obiettai. «Perchè è una madre e una donna. Deve.» Presi un respiro. «Non ti preoccupare, le parlerò io.»

«Permettimi di darti un consiglio senza essere troppo presuntuosa. Credo che non dovresti immischiarti in questioni così.»

Rivolsi uno sguardo alla donna distante qualche metro da noi che accarezzava il faccino del piccolino e presi un respiro. «Questa raccomandazione non mi serve.»

Trattenne una risata. «Ah, già, a proposito, abbiamo una questione in sospeso.»

«Di cosa si tratta?»

Fece spallucce. «Devi ancora incontrare il propietario del nostro ospedale. Ti sta aspettando e non mi dirmi che non ti avevo avvisato. Credimi, è davvero un professionista.» Guizzai le sopracciglia e poi quando mi voltai, quella donna era sparita. «Seguimi, dottore.»

Rientrammo dentro e le andai dietro. Mi scortò fino alla porta dove c'era la targa argentata con su inciso "direzione" e mi ritrovai davanti un uomo in carne, vestito di tutto punto dalla spiccata vivacità e i profondi occhioni celesti. Seduto dietro la sua scrivania mi invitò ad accomodarmi mentre Angela prese posto di fronte a me.

«Dottor Rinaldi, è per noi un grandissimo onore avere un medico del suo calibro nel nostro umile centro. Oh... Vuole una zolletta di zucchero?»

«No, grazie lo stesso.»

«La mia Angela, la mia adorata bambina, merita proprio un extra sullo stipendio per averla condotta qui.» Fissai la ragazza che alzò gli angoli della bocca. «Le darò un bonus! Guardi, lo sottoscrivo! Scherzo, scherzo!»

«Immaginavo...»

«Con lei miglioreremo di qualità, ne sono più che certo!» Emise un sonoro sbuffo. «Vengono sempre clienti con i casi più insignificanti: "ho il raffreddore", "mi fa male lo stomaco", "ho le emorroidi". Con questo, non si può mandare avanti una baracca, amico mio!»

«Signor Ciancio... Le persone che chiama "clienti" sono pazienti che aspettano che ci prendiamo cura di loro.»

«Certo. Ma nessuno viene in questo ospedale dicendo: "ho un'ernia al disco", operatemi la schiena, jamm! Non ci sono abbastanza guadagni. Abbiamo bisogno di pubblicità!» Inarcai un sopracciglio sempre più basito dall'opinione che aveva: tutto ruotava su come fare grana, sfruttando in questo caso me. «Se la commercializzassimo come nuovo volto del centro. E poi... con la sua esperienza, è addirittura stato negli Stati Uniti, ha compiuto ricerche, tenuto conferenze...»

«Sono un medico, signor Ciancio. Non ho bisogno di pubblicità.»

«Be', ne discuteremo più tardi. Mi dica di più e intanto le faccio portare un caffè. Come lo preferisce? Zucchero o senza?»

«No. Grazie.»

«Oh no, no, no!» Esclamò tendendo le mani avanti. «Allora, succo di melograno e non si accetta un no. Abbiamo appena acquistato un nuovo distributore. Lo dobbiamo testare!» Agguantò il cordless e iniziò a comporre il numero.

«Ok...»

«Dottore, mi dica un po', ten na guaglion

«Papà!» grugnì Angela, portando la mano alla fronte.

«Eh vabbè!» Squittì il direttore.

«Ehm, ho una moglie. Sono felicemente sposato.»

«Oh, sua moglie deve essere molto fortunata...» Nel frattempo, comunicò di portare in ufficio del succo di melograno. Non si poteva ammettere che questo direttore non fosse un tipo fuori da qualsiasi schema e con la testa perennemente fra le nuvole.

Dopo aver trascorso una giornata alla clinica, mi stavo preparando a tornare a casa.

Cercai di rintracciare Federica, ma senza ricevere risposta, si ostinava di tenermi fuori dal suo immenso dolore. La risata allegra di Angela mi distolse un secondo dai miei pensieri, stava giocando col signor Raffaele che la scarrozzava sulla barella come fosse una bambina. La felicità nasceva con i piccoli gesti, se solo anche la mia si fosse degnata di non ignorarmi più.

Federica

Riccardo trotterellava avanti e indietro per la cucina, parlandomi di quanto le sue capacità culinarie fossero paragonabili a quelle di chirurgo. Non riuscii a star dietro, anche perchè la mia testa vagava altrove, negli stessi pensieri.

«Guarda, i muscoli e i nervi della mano hanno cominciato a reagire. Posso tagliare il pesce. Presto sarò in grado di usare un bisturi! Fe?»

«Quando mia nonna morì... non riuscii ad accettarlo, per mesi. Mi lasciò una ferita profonda, difficile da cicatrizzare. Fu la prima persona che mi aveva voluto un po' di bene, mi aveva dimostrato di tenere a me come nessun altro. Non voleva che facessi la fine toccata a mia madre, che si era innamorata di mio padre e alla fine quell'amore malsano l'aveva portata a farla finita. Un giorno, stavamo chiacchierando, ridendo e scherzando e...» Tolsi la mano dalla guancia e alzai gli occhi verso il mio mentore. «Il giorno dopo... se n'è andata. All'improvviso, è scomparsa. È una cosa difficile da capire.» Feci una pausa con gli occhi nel vuoto per poi abbassarli. «Sai cos'è strano? Si dice che quando una persona subisce una perdita così grande riesce a superare più facilmente quella successiva. Ma non è così...» Sbattei le ciglia e sospirai. «Viviamo lo stesso dolore più volte... e non ci si abitua mai. Non si sconfigge, ti rimane incollato addosso, marchiato nella tua anima.» Portai la mano alla fronte emettendo un altro sospiro fugace. Non vedevo una via di fuga, non raggiungevo mai la luce e i problemi mi costringevano a brancolare in quel tunnel. «Pensi... che possa superarlo, Riccardo?»

Stava diventando uno stress continuo, non potevo crollare, ma sentivo di aver perso la stabilità...

«Certo. Ne dubiti? L'hai sempre fatto. Sei una donna molto combattiva, anzi la più forte che io abbia mai conosciuto!»

«Non è vero. Lo dicono tutti, ma non riesco più ad essere forte. Non ci riesco più.»

«Ti passerà, Fe. È solo un momento di crisi passeggera. Sarai la stessa di sempre.»

«Non ricordo nemmeno più com'era la vecchia Federica.» ammisi a bassa voce. Riccardo si inumidì le labbra e chinò il capo, consapevole di non poter riportare in me la tranquillità. «Oggi ho litigato... con Alessia.»

«Hai litigato?» Annuii. «Perchè?»

«Ritiene colpevole Giovanni della morte di nostro padre. Mi ha fatto molto male...»

«Si è lasciata trasportare dalla rabbia. Se ne sarà già pentita, fidati.»

«Mi sento come se tutto il mondo fosse svanito e io fossi l'unica cosa rimasta... immobile...» sussurrai e schiacciai la mano alla fronte, trattenendo la voglia di piangere.

Riccardo posò la mano sul mio braccio. «Non sei sola. Io sarò sempre al tuo fianco.»

La verità era che a furia di combattere, lottare e stringere i denti si finiva inevitabilmente per rimanere a secco. Ero senza forze e inerme. Tutta la mia presunzione di essere invincibile era svanita. La suoneria del mio cellulare spezzò il silenzio che regnava indisturbato e vidi lampeggiare il nome di Giovanni "chiamata in arrivo". La nostra conversazione non era andata bene, gli avevo detto di fare ciò che voleva, mi aveva ferita anche lui, il suo tenermi nascosta quella decisione di lavorare ad Anzio, come se non valessi a niente...

Riccardo ritirò la mano e lo presi. Annullai la suoneria premendo il tastino e posai sulla penisola.

Preferivo non sentirlo.

Non volevo litigare ancora.

Alessia

Sul tavolo regnava silenzio, disturbato dal tintinnio delle forchette e dalla voce del conduttore del telegiornale. Non avevo ancora toccato il cibo nel piatto e rimasi assente.

«Tesoro... Ne vuoi un altro po'? Te li taglia la zia?» chiese Angelina, rivolgendosi a mia figlia che annuì. «Signora Rebecca, mangi qualcosa. Non ha fame?»

«No, cara! Ho mangiato abbastanza. Il dispiacere mi ha tolto l'appetito. Non posso credere che quella maleducata mi abbia dato uno schiaffo. Come posso avere fame?»

Angelina non osò rispondere.

«Allora, non mangiare. Se sei piena, puoi andare a letto. I piatti li faremo io e Angelina. Non serve che ti disturbi, mamma.»

«Con che tono ti rivolgi a tua madre? Stai acquisendo sempre di più la sfacciataggine di quella sciagurata di Federica?»

Le tolsi in piatto da davanti per andarlo a buttare direttamente nella pattumiera.

«Che cosa l'è preso?» Faceva la finta tonta, ma lo sapeva.

Suonò il campanello e mi diressi alla porta. Quando aprii un sorriso si dipinse sulle labbra alla vista di Tommy.

«Ehi...»

Non mi aspettavo una sua visita a quest'ora e si fece avanti.

«Ciao... Sono passato per vedere come ti sentissi.»

Si chinò per lasciarmi un bacio sulla tempia e mi circondò totalmente con le sue braccia muscolose. Per un po', dimenticai tutto, perfino la presenza di Angelina e mia madre.

«Dai, entra...»

Non se lo fece ripetere e si spogliò del cappotto. Mi accarezzò il braccio e avviò verso il salotto. Mia figlia lo accolse con un sorriso a trentadue denti.

«Tommy!»

«Ehilà, principessina! Mi sei mancata!» Si lanciò su di lui e la prese in braccio, dandole un bacio affettuoso sulla guancia. Da quando era stata ricoverata in ospedale, a causa della bomba, lei e Tommy avevano stretto un bellissimo rapporto, ci sapeva fare e Federica si era invaghita da avere gli occhi a cuoricino.
Poi si rivolse alle due, augurando buona serata.

«Dottore, benvenuto, ma è venuto per niente. Fossi in lei me ne andrei a gambe levate, a loro non piacciono gli ospiti.»

«Mamma...»

«Mamma, cosa?!» sbottò. «Direi che è stato come uno schiaffo in faccia, ma me l'hanno già dato!»

Tommy non capì l'antifona del discorso accigliandosi, appoggiando mia figlia a terra.

Ci scambiammo un'occhiata.

«Signora Rebecca, non crede di aver esagerato?» ipotizzò Angelina.

«Dici che è una bugia? Non sono stata schiaffeggiata dalla sua cara sorella maggiore? Ho ancora i segni!» Corsi ad afferrarle il braccio e la strattonai per farla alzare, imponendole di seguirmi subito. Cercò di divincolarsi. «Oh, perché?»


«Vieni con me.»

Si mise in piedi e la spintonai verso la cucina, chiedendo scusa. La costrinsi ad entrare e chiusi la porta. Doveva starmi a sentire e smetterla di essere sgradevole. «Come ti permetti?! Che razza di persona sei? Ti rendi conto di quello che hai appena detto? Dì là c'è tua nipote! Da stamani ti ho chiesto di chiudere il becco. Perché non lo fai? Ti rendi conto che oggi abbiamo seppellito nostro padre? Perché non ti stanchi di dire queste cattiverie gratuite? Perché sei così diabolica? Hai rovinato tutto!»

«Non parlarmi così, sono tua madre. Cos'avrei fatto di male? Eh? Sentiamo!»

«Lo chiedi sul serio? Mi vergogno di te, mamma.»

«Ah... tu di me?»

Serrai i pugni lungo i fianchi. «Ogni volta che fai queste patetiche scenate, mi vergogno di essere tua figlia! Non capisci?»

«Perchè? Non ho mica borbottato quando ti sei presa una cotta per quel ragazzino e ti sei fatta mettere incinta. Cosa ti prende? Hai paura che quel neurologo da quattro soldi non ti voglia sposare? Be', tua sorella di sicuro è più astuta di te.» Mi sfuggì una risatina. «Ha sposato un bel partito, ha conquistato l'ospedale... pensaci, quando avrà un erede, tutta quell'eredità finirà nelle sue mani. Ma anche tu ci riuscirai, tesoro...»

«Mi stai facendo diventare matta. Non hai un minimo di decenza, eh? Che stai dicendo? Cosa stai farneticando?»

«Sto dicendo che quel dottorino è sul palmo della tua mano, ma non abbassare la guardia e gioca bene le tue carte. Non si sa mai.»

«Dici sul serio?!»

«Alessia?» La voce di Tommy interruppe l'alterco violento. Guardai mia madre con disprezzo. Spalancai la porta, sperando che non avesse ascoltato nulla e mi avvisò che doveva tornare in ospedale per un'emergenza. Tornai a fissare mia madre, la piantai lì, e camminai verso di lui intrecciando le mani, a disagio. Mi salutò con un abbraccio, accarezzò il braccio di Angelina e mi soffermai sul ghigno beffardo stampato sulle labbra di mia madre. Era insopportabile.

Federica

Quella scena non faceva che ripetersi come un loop mentre ero comodamente seduta a tavola. Rividi mio padre... che appariva magicamente in corridoio, si fermava ad osservarmi, aspettando che fossi io a fare il primo passo. Fu quello che feci, mi avvicinai e sprofondai nelle sue braccia - il primo, che mi aveva dato dopo anni e... l'ultimo, purtroppo.

«Si risolverà ogni cosa, si risolverà, tesoro, vedrai. Non sentirti sola. Troveranno Giovanni e io sarò al tuo fianco. Non ho potuto farlo prima ma... adesso sì.»

Quella scena sparì.

«Il pesce è venuto davvero saporito! Ti piacerà.» Riccardo mi raggiunse con i piatti e lo poggiò davanti a me, ma la sola vista del cibo mi annodava lo stomaco e mi veniva la nausea.

Si mise seduto e afferrò la caraffa per riempirmi il bicchiere.

«Non credi che sia ingiusto?»

«Che cosa?»

«Che mio padre sia morto così.» Non l'avevo potuto nemmeno salutare. Non era stata vicina al suo capezzale negli ultimi momenti, sembrava tutto assurdo. «Va bene. Non sarà stato il miglior padre del mondo...» Asciugai gli occhi con un dito. «Eppure è morto... per qualcosa che non lo riguardava.»

«Senti, Fede, pensarci non ti fa bene.»

Tirai su con il naso. «Sono in parte responsabile della sua morte. Ogni volta che respiro... mi sembra di rubare l'ossigeno a mio padre.» La voce mi si strizzò per i singhiozzi. Tornai a prendere un forte sospiro.

«No, smettila. Non pensarla così.»

«Ma è la verità. Sono stata anch'io una pessima figlia. Ogni decisione che ho preso... ha portato alla sua morte. Mio padre è morto per colpa mia!» E le lacrime presero a solcarmi le guance e non ebbi la forza di frenarle o controllarle. Mi curvai in avanti e cercai di nascondermi con la mano alla fronte, ma altri singhiozzi infransero il silenzio che Riccardo non aveva interrotto.

In quel momento, udii lo scatto della serratura, ma non mi mossi da quella posizione.

«Benvenuto, amico...» Esord mio marito da poco rincasato.

Passai le mani sulle guance per eliminare le tracce.

«Grazie, è un piacere vederti.»

Dopo essermi ripresa, lo ringraziai per essersi impegnato a preparare la cena, ma non potevo mangiare e mi alzai dalla tavola superando Giovanni per correre di sopra. Avevo bisogno di tempo e magari di... dormire. Solo così avrei lenito quella sofferenza.

Giovanni

Appena misi piede in casa quella sera, trovai mia moglie seduta a tavola, però si alzò e scappò sulle scale, senza toccare il pesce che Riccardo aveva cucinato.

La situazione, a quanto pare, non era delle migliori.

«Va' da lei, Gio. Niente la farà stare meglio di te. Ha bisogno di te più di chiunque altro in questo momento» suggerì. Si rimise in piedi e si fermò accanto a me. «Gio, senti, Fede non è così forte come pensi. Non costringermi a spiegartelo per filo e per segno. Lo hai capito.» Mi diede una pacca amichevole e gli sorrisi benevolmente.

«Grazie. Sei un vero amico.» Mi fece un cenno e uscì. Tolsi subito il cappotto, lanciandolo con noncuranza sulla sedia e mi fiondai di sopra. Entrando nella camera, a luci spente, notai Federica sdraiata a letto e abbracciata ai cuscini che mi dava le spalle. Accesi la luce sul comodino e si mosse un po'.

«Gio...» mugugnò.

Mi accomodai sul bordo, facendolo molleggiare sotto il mio peso.

«Fede...»

«Spegni la luce, per favore. Voglio... dormire.»

«Federica.»

Non poteva continuare ad ignorarmi e io... non potevo fingere di star soffrendo a starle lontano, perché non mi sentivo degno nemmeno di guardarla in faccia dopo averle tolto la possibilità di stare con suo padre.

«Ho la sensazione che se dormo, dimenticherò tutto.»

«Sai che non accadrà. Sarà solo una tua illusione» Sbuffò, mettendosi seduta e si abbracciò le cosce, trascinandole al petto. Adagiò il mento sulle ginocchia e i suoi occhi continuarono ad essere fissi in un punto distante anni luce da me. «More... non fare così.» Volevo che si specchiasse nei miei occhi. «Non mettermi questo muso, lo sai che lo detesto. Non importa cosa succede, romperemo questo vetro e torneremo liberi... nel mare.» Accarezzai il lobo del suo orecchio con delicatezza, sfiorai l'orecchino a forma di cerchio e mi feci un po' più vicino. Con la mano sotto il mento, le ruotai il viso. «E non andremo mai a letto arrabbiati. Non ci volteremo le spalle. Ti prometto che nulla cambierà fra di noi.»

«Invece sì. Molte cose sono cambiate nella nostra vita ed è colpa tua, Giovanni.» Il suo tono si fece accusatorio. «... Per non avermi detto che te ne saresti andato in quell'ospedale e per avermi abbandonata.»

Sorrisi, provocandole il broncio. Giocai con qualche ciocca dei suoi capelli. «Io... Ti avrei abbandonato? Come ti viene in mente, piccolina, mhm? Non me ne andrò mai. Non sono riuscito a dimenticarti per undici anni...» Accostai la bocca alla sua. «E non lo farò, adesso. Non posso starti lontano. Sei la mia vita e senza di te non potrei vivere...» Federica mi scrutò. «E non mi sono mica allontanato da te, ma dall'ospedale. I pazienti di quella clinica hanno bisogno di un buon medico. Non voglio che altre persone muoiano perché si sono imbattute in un medico incompetente. Non permetterò a nessun altro di passare quello che ha passato tuo padre.» Abbassò lo sguardo e trasse un respiro. «Farò tutto ciò che è in mio potere e so che tu faresti esattamente lo stesso.»

«Può darsi.» I nostri occhi si scontrarono un'altra volta. «Ma tu saresti la prima persona a saperlo.»

«Hai ragione. Hai tutte le ragioni del mondo per tenermi il muso, Fe. Scusami. Avrei dovuto parlatene. Avrei dovuto chiedere l'opinione di mia moglie.»

Le passai la mano fra i capelli, scendendo sino alla nuca mentre sentivo i brividi nel corpo e nello stomaco.

«Già, sei stato uno stupido!»

«Be', è una cattiva abitudine che ho preso da te.» dissi, riuscendo a farle affiorare un sorriso e affondai il viso sulla sua spalla, accarezzandole il braccio.

«Ci assomigliamo sempre di più.»

«Sì...» Asserii, scoprendole la spalla per poi baciarla. «Non siamo più "io e te", ma noi.» Nascosi un sorriso mentre lasciavo altri baci e inspiravo il suo profumo. «Lo prometto, fino al mio ultimo respiro, tutte le strade mi porteranno dritte ai tuoi bellissimi occhi» bisbigliai vicino al suo orecchio, facendole chiudere gli occhi. «Dove vuoi che vada eh? Tornerò ancora da te. Non è sempre stato così? Questa barca continua a viaggiare e non si fermerà mai.»

«Bene, ma non girarci troppo attorno!»

Sorrisi, riprendendo a guardarla con un guizzo di malizia.

«Sì? È questo che vuoi? Ti accontento.»

La feci scivolare lentamente sotto di me, per poi catturare le sue labbra baciandola a lungo con trasporto, mi era mancata quella sensazione intensa ogni volta che toccavo le sue labbra. Portò le sue mani ad avvolgermi la schiena e cercammo di combaciare come pezzi di puzzle... perfetti.

[...]

Quella mattina, parcheggiai proprio nei pressi dell'ospedale, tenendoci ad accompagnare la mia incantevole moglie a lavoro. Spensi il motore.

«E qui le nostre strade si separano.» Esordì facendo un sospiro, congiungendo le mani senza nascondere la tristezza.

Tolsi gli occhiali e girai, abbozzando un sorriso.
«Era il nostro destino. Adesso siamo persone provenienti da ospedali diversi.»

Anche lei increspò un sorrisino, trattenendo una risata divertita. «Insomma... è il destino.»

«Destino.» Si allungò verso di me per stamparmi un bacio sulla bocca. «Oh...» Feci un verso di sorpresa. «Piccolina...»

Tornò a contatto col sedile e osservò, forse voleva aggiungere qualcos'altro nella speranza che cambiassi idea.

«Sei sicuro?»

«Sì, amore mio. Sarà molto meglio così, fidati di me.»

«Mi fido, solo che non so come funzionerà l'ospedale senza di te.»

Guardai avanti per un istante, riflettendo sul fatto che con o senza di me se l'era cavata benissimo e aveva anche assunto una certa posizione. Mio padre aveva scelto la persona più giusta per mettere al sicuro le quote.

«Andrà bene. In ogni caso, sarà un bene per noi. Ti ho spianato la strada. Cosa vuoi di più?» Federica schiuse le labbra fingendosi offesa, dandomi una sberla sul braccio e scoppiai a ridere. «Scherzavo... La verità è che non so cosa succederà d'ora in avanti in ospedale, dopotutto hanno perso un grande medico.»

«Modesto.» bisbigliò. Schiarì la voce, raccogliendo la borsa sul grembo e portò la mano alla portiera. «Okay, prenditi cura di te e mangia qualcosa appena arrivi.»

«Lo farò.»

«E sentirai la mia mancanza.»

«Mi manchi già, Fe.» Mi feci ad un palmo di distanza e le presi il volto per baciarla con passione. Sospirai contro le sue labbra, mi accarezzò con tenerezza la guancia come fossi un bimbo in cerca di protezione. Quella sua immagine me la sarei marchiata a fuoco nel cervello per averla davanti tutto il giorno fino a quando non ci saremmo rivisti. Mi riempì di baci, sulle gote, sulla mascella e la punta del naso.
Non ne avevo mai abbastanza.

«Anche tu di me.»

«Certo, da morire. Ora fammi andare altrimenti arrivo tardi all'appuntamento.»

Alzai le mani in segno di resa e scese. La seguii con gli occhi, mandandole un bacio al volo, mentre con passi aggraziati sui suoi tacchi a spillo si dirigeva all'entrata principale. L'aspettai e abbassai lentamente il finestrino. Quel sorriso si affievolì quando il nuovo medico la raggiunse e si strinsero la mano. Dopo essersi salutati si avviarono insieme dentro. Distolsi lo sguardo per recuperare il cellulare. Avrei dovuto prendere delle precauzioni. Visto che non ero nei paraggi, quello psicopatico era in giro e non potevo permettere che si avvicinasse a Federica di un solo centimetro...

Quell'uomo la lasciò passare per prima, poi la seguì.

«Ehi, Alessio. Sei riuscito a risolvere quel problema di cui abbiamo parlato?»

«Non temere, dottore.»

Annuii. «Grazie mille.»

Poi, agganciai la telefonata.

Era il minimo che potessi fare se stavo lontano... per proteggerla.

Non avrei permesso a quel maniaco di torcerle un capello.

Dopo essere arrivato a destinazione parcheggiai vicino alla clinica. Aprii l'ombrello per ripararmi dalla pioggia e stavo per bloccare la sicura quando mi sentii chiamare.

Sollevai lo sguardo e vidi quella donna correre trafelata.

«Dottore, dottore, la prego, mi aiuti!» Aggirai l'auto per andarle incontro. «Non ci lasceranno in pace. Non si fermeranno finché non ci avranno rovinato la vita! Non ci lasceranno in pace, deve aiutarci!»

«Si calmi Celia e mi dica cos'è successo.»

«É colpevole, è stato lui!»

«Non abbia paura. Che cos'ha fatto?» Abbassò gli occhi e la spronai. «Su, parli...»

«Lo hanno rapito! Hanno rapito mio figlio e l'hanno portato via. La prego, la supplico, mi deve aiutare, dottore!»

Mi accigliai e scrollai le spalle. «Cosa vuol dire che hanno rapito suo figlio? Quell'uomo non è il padre del bambino? Perché l'avrebbe rapito?»

«L'hanno preso! Gli ho detto che saremmo partiti, che avrei preso mio figlio e me ne sarei andata e... loro l'hanno preso! Mio cognato è venuto ieri sera e l'ha portato via con la forza. Per favore, mi aiuti, dottore. Porteranno via il mio bambino!»

«Ok, non si preoccupi, non lo permetterò. Farò tutto il possibile, ok? Si calmi...»

Infilai la mano nella tasca del cappotto e composi il numero.

«Non so come ringraziarla, Dio la benedica, dottore.»

Misi in chiamata e aspettai qualche secolo, il tempo di un paio di squilli e il commissario rispose. Gli spiegai a grandi linee la situazione mentre ci incamminavamo verso la clinica, chiedendogli di incontrarci il prima possibile e di mandare una squadra. La questione era critica e non bisognava perdere tempo. L'entrata era decorata da tanti palloncini, tipica delle feste organizzate per i compleanni dei bambini, e il direttore mi accolse con un sorriso ampissimo.

«Oh, eccola, dottor Rinaldi! Buongiorno. Benvenuto!»

«Grazie...»

Ero un po' in imbarazzo vedendo che addirittura era stato allestito un buffet con rustici e dolci.

«Come le sembrano i preparativi?»

Alzai un angolo della bocca, sforzandomi di sorridere. «Sono senza parole.»

«Veda, da buon primario quale sono, ho pensato di festeggiare il suo arrivo con una grande festa di benvenuto.» Fissai Angela che fece spallucce e poi lo distolsi. «Tutto verrà fatto ad opera d'arte, taglieremo il nastro e faremo anche delle foto...»

Osservai la donna al mio fianco che sbatté leggermente i piedi per farmi intendere che non c'era tempo.

«Non avrebbe dovuto preoccuparsi. Non era necessario, davvero.»

«Sta pazzian!» obiettò con l'inconfondibile accento napoletano. «Certo! Dobbiamo mostrare ai nostri amici e pur nemici che tipo di medici di alto livello lavorano nel nostro illustre ospedale.»

Trassi un respiro profondo. Quell'uomo di certo non si sarebbe convinto e fui costretto ad assecondarlo.

«Ok...»

«Infermiera, porti il nastro!»

La donna alzò gli occhi al cielo sbuffando e mormorò qualcosa di indecifrabile alle mie orecchie. Lo sapevo che era in ansia. «Celia, mi aspetti dentro, okay? Arrivo subito.» Esalò un sospiro e piegò la testa, scuotendola. Le posai la mano su una spalla. «Non si preoccupi.»

Si limitò ad annuire e allontanò. Il direttore fece tendere il nastro rosso davanti a me per poi protestare che mancava il fotografo. Un biondino arrivò in scusandosi del ritardo, con fra le mani la macchina fotografica.

«Oh, menumal! Ci faccia una bella foto, per favore!» Mi accerchiò le spalle e guardai di sottecchi la mano posata sulla mia spalla. «Angela, unisciti a noi.»

«È proprio necessario?» chiese.

«Sì, vieni...»

La invitai e il padre ci chiese di fare un sorriso mentre venivamo immortalati, ma io con una smorfia e la postura irrigidita appoggiato all'asta dell'ombrello. Non ero poi così fotogenico...

Una volta finito quel set fotografico imbarazzante, l'uomo ordinò di appenderla sulla parete in modo che chiunque potesse guardarla e di prendere il succo di melograno.

«Raffale, dove sono le forbici?» domandò a denti stretti. Il suo collaboratore passò sotto il nastro per schizzare a prenderle. Mi sentivo sempre più a disagio a stare sotto i riflettori...

«Signor Ciancio, non si offenda, ma mi sento a disagio. Non c'era bisogno di fare tutto questo.»

«Dottore, la prego, sarà la punta di diamante del nostro centro e fosse per me le avrei anche steso il tappeto rosso. Ma purtroppo, non è arrivato in tempo!» Guardai Angela che tirò un sospiro, mentre il padre tornò ad avvolgermi le braccia attorno al collo, dicendo al fotografo di scattare una foto da soli. Ordinò alla figlia di spostarsi e dovetti rimettermi in posa.

«Raffaeee! Dove sono le forbici? Ti avevo chiesto di portarle qui.»

«Signore, non le ho trovate da nessuna parte. Mi dispiace.»

Quell'uomo avrebbe voluto scavarsi la fossa per quel piccolo inconveniente, ma avevo un problema più grave.

Il direttore continuò a rimproverare il collaborare di non aver trovato un paio di forbici in tutta la clinica e l'infermiera dovette arrotolare il nastro rosso.

«Signor Ciancio, faccia ripulire questo posto e torniamo a lavoro. I pazienti ci aspettano.»

«Ma non ha mangiato né bevuto niente. Neanche un biscotto. Ho fatto preparare tutto per lei.»

«Signor Ciancio, il cibo può anche aspettare. I pazienti hanno bisogno di noi, per favore.»

Un'infermiera si avvicinò a noi, non aveva un'espressione rassicurante. «Dottore, è successo una cosa terribile, il paziente...»

«Quale paziente?»

«Quello sospettato del presunto stupro.»

Avevo già capito. Lanciai un'occhiata ad Angela e le feci cenno di seguirmi verso la stanza così mi corse dietro. Quando spalancai la porta, i due stavano litigando furiosamente, urlandosi contro a vicenda, e alzai il palmo della mano alla vista dell'uomo, seduto sul ciglio del letto con le forbici conficcate nel cranio.

«Calma, calma, tolga la mano.»

«Quella maledetta mi ha quasi ucciso, dottore. È pazza!»

«Tolga la mano, la tolga.»
Mi avvicinai, stando attento a non urtare il letto e appoggiai delicatamente le mani sul capo. «Si calmi, si calmi. Stia molto fermo, ok? Non si muova. Dobbiamo fare subito una TAC, dì loro di prepararsi. Non dirmi che non c'è nessun tecnico.»

«Il tecnico che hai mandato ha iniziato a lavorare oggi, glielo faccio sapere immediatamente.» rispose prontamente Angela.

«Ok, sbrigatevi...»

«È stata lei, chiamate la polizia. Voglio denunciarla. Metteranno in prigione quella stronza!»

«Le ho detto di stare fermo e non agitarsi.» lo ammonii.

«É lui il colpevole!» Virai lo sguardo su Celia. «Volevo prendere mio figlio e andarmene da qui, ma non me lo ha permesso. Ha cercato di strangolarmi!»

«Oddio, cosa succede?» chiese il poliziotto entrando.

«Agente, la signora Celia ha qualcosa da dirle.»

Lui la squadrò da capo a piedi mentre quest'ultima aveva gli occhi contro il pavimento. Era evidente che c'era un problema. Guardai di rimando il marito...

Alessia

«Pensavo che non saresti venuta qui oggi.» affermò l'infermiere Matteo, quando ci incrociammo in corridoio. In una situazione normale avrei preferito tanto riposare, ma rimanere a casa... equivaleva a stare direttamente all'inferno e dover sopportare mia madre.

«No, meglio stare qui che impazzire a casa mia.»

«Hai ragione, così non avrai tempo per pensare. Come stai?»

«Diciamo... che ci sto lavorando.»

«Angelina mi ha detto che hai litigato di brutto con Federica.»

«Anche quello. Questo periodo non è proprio splendido.»

«In momenti come questo... diciamo cose che non pensiamo. Non so, diventiamo più sensibili.» Svoltammo poi in un altro corridoio. «Io ho detto questo, tu hai detto quello... Quindi non darci troppo peso. Si sistemerà tutto.»

«Spero che non ci sia tensione appena ci rivedremo.»

«Un momento? Hanno chiamato pure te?»

«Sì, dicono che è un caso raro.»

«Oddio. Un altro caso incredibile.» Si lasciò scappare il ragazzo dai capelli rossi mentre afferravo la maniglia della sala riunioni. La spalancai e quello che si presentò davanti ai nostri occhi paralizzò entrambi.

Cosa stavamo guardando? Guardai Matteo e lui guardò me, ritornando poi a fissare di fronte a noi con facce inebetite.


Cosa diavolo stava accadendo?



Federica

«Buongiorno, leggenda Andreani!» Il nuovo medico mi venne incontro e ci scambiammo una stretta di mano, per poi addentrarci nell'atrio. «Ad essere sincero, dopo tutto quello che ha passato negli ultimi giorni, ero titubante, ma lei non ha reagito come mi aspettavo.»

«Pensava che avrei detto di no?»

«No. Be', non ci pensavo... ma non tutti i medici sarebbero stati così interessati. La ringrazio.»

Ci fermammo dinanzi all'ascensore e premette il pulsante per chiamarla. «Non mi ringrazi ancora. Vediamo prima se posso fare qualcosa.»

«Non ho dubbi. Punterei tutto su di lei.» Osservai il ragazzo con una punta di sbalordimento e un cipiglio sollevato. «Credo proprio che vincerò. Che ne pensa?»

«Direi di non scommettere mai con la vita delle persone. Forza, andiamo.»

Un click preannunciò l'apertura delle porte e lo superai per infilarmi nella cabina. Poco dopo anche entrò e si posizionò alle mie spalle. La cabina cominciò a salire. Percorremmo il corridoio del terzo piano e, a quel punto, Tommy si unì a noi, giungendo dalla parte opposta.

«Appena in tempo, dottor Daliana.»

«Ha chiamato anche te?» domandai a Tommy.

«Mhm...» bofonchiò.

«Sono due.»

«Due?» ripetei, scambiandomi un'occhiata interrogativa con il castano, alla mia destra.

«Qual è il caso?»

«Non lo sappiamo ancora.» risposi.

«Un caso misterioso... mi piace.»

«Hai parlato con Alessia?»

Tommy ruotò il collo. «No, non l'ho ancora vista.»

«E ieri?»

«Le ho incontrate quattro di anni fa. Lavoravo in un ospedale di Torino, un caso unico e sorprendente.»

«Spero che non stia esagerando, dottor Cricca.»

«In realtà, è molto di più di quello che sto dicendo.»

Si bloccò dinanzi alla porta della sala riunioni e percepii una presenza proprio dietro di me. Mi voltai e vidi un uomo fare finta di nulla e portarsi il telefono all'orecchio. Sembrava che mi pedinasse o lo stavo immaginando? «Entrate...»

Al nostro ingresso Alessia e Matteo saltarono in piedi dal divanetto mentre la performance continuava, ma la cosa più sconcertante era che una mi fissò da uno specchio. Lasciai scivolare le mani fuori dalle tasche. «Vi presento... le sorelle Valentina e Cristina Picinelli.»

Osservai la scena a bocca aperta, sbattei più volte le palpebre credendo fosse una visione...

Non avevo mai visto in tutta la mia carriera un caso del genere.

«Ciao!» Salutò con un sorriso sfavillante la ragazza dal trucco più calcato, i lunghi capelli castani acconciati in una coda di cavallo e le iridi azzurre.

«Ciao!» Riuscii a vedere solo l'occhio azzurro dell'altra.

Gemelle... siamesi?

Prendemmo posto al tavolo ovale per prendere appunti.

«Cristina e Valentina sono due gemelli siamesi, nate congiunte in un ospedale di Torino. Sono nate dopo un'operazione durata venti ore. Come potete immaginare, è stato un parto molto complesso, ma hanno tenuto duro.» spiegò il dottor Cricca.

Inclinai leggermente la testa.
«Si sono aggrappate a vite diverse.»

Quella dal trucco più pesante, Valentina, accennò una risatina ed esclamò.

«Non lo dica a me!»

«Effettivamente. Una ama il pop e l'altra il rock. Uno lo stile semplice, l'altra quello più stravagante. Sono unite, però diverse in tutto.»

«Dottore, mi sta offendendo» ribatté la ragazza acqua e sapone. «Dica "elegante".»

«Non so come facciate a sopportarvi a vicenda.» Prese parola Alessia.

«Ha una sorella?»

Restò a pensarci, poi annuì.
«Già. Infatti, in questo momento è seduta di fronte a sua sorella.»

Abbassai un attimo lo sguardo, quando le gemelle schizzarono i loro occhi su di me e sorrisero sornione.

«Perfetto! Così possiamo lamentarci delle nostre sorelle.»

«Mi sembra un buon piano.» Commentò l'altra.

Lanciai un'occhiata di sfuggita ad Alessia che però preferì tornare a sfogliare il fascicolo. Ovviamente non gli era passata la rabbia.

«Sono persone che hanno cercato la propria identità per tutta la vita.»

«Sì, ma devono imparare a pensare a sé stesse. Non come due persone separate, ma come una sola.» affermò Tommy Dalì.

«Parlate come se non fossimo qui.»

«Ci offendete.»

«Va bene, avete ragione, ehm... lasciate che vi spieghi.» I nostri sguardi si focalizzarono di nuovo sul nostro collega. Iniziò a fare qualche passo e agitare le mani. «Le due sorelle condividono lo stesso fegato e la stessa milza.»

Si girò a guardare l'immagine proiettata alla lavagna.

«Sì, milza e midollo spinale sono gli stessi. Ma i polmoni e il cuore sono diversi.» ribattei.

«Anche gli apparati riproduttivi... il che significa che possono avere figli separatamente.»

«Cristina soffre di sudorazione notturna e dolore pelvico. Per questo le ho portate qui, volevo che le vedeste.»

Qualcuno bussò alla porta. Il dottor Gentile entrò chiedendosi se lo stessimo escludendo da quel caso e non appena si fece avanti, si immobilizzò alla vista delle gemelle. Tommy mi mostrò una cosa e mi passò la cartella, ma scossi il capo. «Non qui. Be', accusa gli stessi problemi di sua sorella o non sente nulla?»

Valentina scosse il capo.
«No, sono io quella sana.»

«Non sempre. A volte ti manca il respiro e devo fare tutto io il lavoro!» ironizzò la gemella, facendole roteare gli occhi.

«Può indicarmi dove sente dolore?» chiesi, alzandomi per poi inginocchiarmi per tastare quella zona. «Proprio qui?»

L'altra però mugugnò.

«Lasci stare, dottoressa Andreani. Sta solo fingendo. Non condividiamo il sistema nervoso, quindi non può sentire nulla.»

«Non ha gli stessi sintomi di sua sorella?»

«No, sto perfettamente...»

Mi inumidii le labbra e annuii. «D'accordo. Dovremo fare degli esami ad entrambe.»

«Va bene.» risposero all'unisono.

«Sa cosa c'è che non va in Cri?»

«Ancora no. Lo sapremo dopo gli esami.»

Le due si girarono contemporaneamente verso Tommy dall'altra parte, che aveva uno sguardo particolarmente positivo.


[...]

«Ci sarebbe anche la lotteria di Capodanno. Ho giocato il numero 86... Puoi fare qualcosa per quello?» Gianmarco stava parlando letteralmente con l'aria e mi avvicinai a passo svelto.
Mi serviva il suo aiuto per gli esami alle gemelle e quindi schiarii la voce, provocandogli uno spavento istantaneo.

«Dottoressa Andreani! Perché appare come un fantasma?!»

«Gianmarco voglio degli esami. Devi aiutare Wax.»

«Dottoressa, lo sa che le voglio bene e la rispetto, però c'è un grosso problema...»

Inarcai un sopracciglio. «In che senso?»


«Ci sono dei pazienti che mi aspettano. La gente ha bisogno di me, dall'altra parte della città. Ho una missione importante e non posso rimanere... purtroppo!»

Tirai un sospiro. «Gianmarco, non ti capisco.»

«Oh, è facile! Suo marito mi ha appena chiesto un favore e io non posso deluderlo! Le voglio tantissimo bene e le auguro buona fortuna! Arrivederci!» Lasciandomi lì, in mezzo al corridoio, scappò via a gambe levate. Tenendo conto che era un atteggiamento tipico di Gianmarco fare stranezze... proseguii per la mia strada. Mentre stavo camminando, ebbi di nuovo la stessa sensazione, qualcuno mi stava dietro... quell'uomo di prima mi stava pedinando. Non mi ero sbagliata. Svoltai nell'angolo di un corridoio, quell'uomo mi imitò e lo tirai per il braccio, schiacciandogli la faccia contro la parete...

«Chi diavolo sei TU!» Gemette dal dolore quando fortificai la presa. «Perché mi stai seguendo? Chi ti ha mandato? Parla, coraggio!» gli ordinai brusca, spingendomi vicino al suo orecchio. «Cosa vuoi da me? Avanti, parli, o ti spezzo le ossa.» Se non avrebbe confessato con le buone lo avrebbe fatto con le cattive. «Parla! Che vuoi da me?! Rispondi!» insistei, tenendolo braccato.

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