Capitolo 23.1 - Dove sei?
Federica
«Ricordi... cosa ti ho spiegato anni fa, in un posto come questo?» A dividermi da Giovanni, in quel frangente, c'era un tavolo. Sentii il suo sguardo bruciarmi addosso ma tenni un profilo basso con la testa incassata. «Abbiamo aiutato insieme una donna incinta. Ha chiamato la sua bambina come te. Lo ricordi, vero?» Annuii e tirai su con il naso. «Cosa ti dissi?» Strinsi così tanto le labbra da morderle e avvertire il sapore ferroso. «Le emozioni che proviamo non derivano dal cuore, come tutti pensano, ma dal cervello. Una piccola regione chiamata "amigdala" svolge quel compito. Quando il cervello percepisce un pericolo imminente si difende con l'istinto di sopravvivenza e autoconservazione.» Posò la mano sopra la mia e strizzai le palpebre di più. Le mie guance vennero percorse dalle lacrime. Credevo di essere immune a quella sensazione ma, a quanto pare, mi ero sbagliata. Ero un essere umano e quella sua assenza mi torturava l'anima. «Lo so, amore mio. Fa molto male.» Avvicinò l'altra mano sotto il mio mento per alzarmelo e far incastrare i nostri occhi. Mi sfiorò delicatamente la guancia. «Sai, il dolore non passerà tutto in una volta.» Ebbi un improvviso déja vu: quella volta, quando mi aveva curato l'ustione al braccio nella sala colloqui. «Ma si attenuerà con il tempo, vedrai.» Continuai a sbattere le ciglia nel tentativo di scacciare via le lacrime, poi rialzai la testa. Giovanni era lì, ad osservare i miei gesti, in religioso silenzio. Afferrai saldamente il suo braccio temendo che sparisse da un momento all'altro. «Ti amo da morire, Federica. "Questa barca continua a viaggiare... dove si fermerà?" Io appartengo a te, ti prego... non dimenticarlo.» Accennò un sorriso, la presa man mano si affievolì e, in un attimo, la sua figura svanì e fissai la sedia tornata squallidamente vuota.
Mi aveva lasciata sola.
Ricominciai a piangere in silenzio e allungai il braccio dall'altra parte. Non sapevo quanto tempo fosse passato da quando mi avevano portato qui.
Lo scatto della porta mi fece tornare in posizione eretta contro lo schienale. Rimasi ferma con lo sguardo assente e un giovane ispettore prese posto sulla sedia lasciata vuota da Giovanni e sbatté un fascicolo sulla scrivania. Svitò poi la bottiglietta con fare naturale. «Ha sete?» Non gli diedi risposta. «Bene. Vorrà dire che berrà quando ne avrà voglia.» Poi, si schiarì la voce. «Federica Andreani... sa perché è stata portata qui, vero?» Tenni chiusa la bocca e non accennai a nessun gesto. «Perfetto, pensa di guadagnare tempo. Non importa. Io ho tutto il tempo.» Attese altri secondi con lo sguardo puntato su di me. Ma invano. Sollevò una bustina trasparente come un trofeo e me lo fece vedere: «É un bisturi molto vecchio, ma la traccia di sangue è abbastanza fresca. Guarda caso... appartiene a Giovanni Rinaldi.» La studiai. Mi sembrava di averla già vista, da qualche parte. Poi, mi si accese una lampadina in testa. Circa due giorni fa... Giovanni me lo aveva mostrato, quel bisturi era di suo padre e ora era nelle mani di quell'uomo. «Dottoressa, mi sta ascoltando? Ci sono sempre tre motivi che portano a commettere un omicidio: denaro, vendetta e... amore. Qual è il suo? Glielo devo dire io? Amore. Non riusciva ad accettare che suo marito la tradisse con un'altra.» Ero ancora persa da quei ricordi che mi fecero aggrottare la fronte quando cacciò dalla tasca una foto. «L'ha ucciso per questo, vero?» La gettò con noncuranza sul tavolo e mi sporsi in avanti, vedendo Giovanni in primo piano con le labbra incollate a quelle di Valentina Turchetto. La sua prima moglie. Stava ricambiando il bacio. Un'espressione palesemente sconcerta si fece largo sul mio viso. «Dottoressa, parli. Abbiamo molto lavoro da fare. Il corpo non è stato ancora trovato.»
«Non è morto.» Obiettai.
«Dove l'ha nascosto?»
«Non ho fatto niente.»
«Non mi faccia perdere tempo, altrimenti troverò un modo diverso per farla parlare.»
«Non ricordo niente.» Ribadii, la voce si affievolì nella gola. «Stavamo dormendo... stava dormendo.»
Era una notte tranquilla, la nostra prima notte di nozze, eppure qualcosa era andato storto.
Non riuscivo a capacitarmi...
«Sta mentendo.»
«Non le sto mentendo.»
Mi stava tartassando di domande, una dietro l'altra, per tirarmi fuori di bocca quella verità che, secondo lui, stavo celando.
«Ah, no? Ma ha mentito.» Raddrizzò la schiena e unì le mani. «Al marito di mia sorella.»
«Non conosco il marito di sua sorella.»
«Lo conosceva, è morto fra le sue braccia quando ci fu la sparatoria nel suo ospedale. Mentre era agonizzante, gli ha detto che sarebbe sopravvissuto, non è così?»
La saliva mi andò di traverso. «Io... non volevo che accadesse quello. Ho fatto tutto il possibile per salvarlo. Giuro che avrei fatto di più se avessi potut...»
«Non voleva neanche uccidere suo marito, però... l'ha fatto.»
Socchiusi le palpebre, tirando un forte sospiro per non perdere la calma e mandare al diavolo le sue ridicole insinuazioni. «Giovanni non è morto.» Sentenziai.
«Nemmeno mia sorella credeva che suo marito fosse morto. Perciò, è meglio che lo accetti e che cominci a parlare.»
Il mio corpo tremò di sdegno. «Mio marito non è morto! Non era accanto a me quando mi sono svegliata, ma non è morto.»
«Mi dica dove ha nascosto il corpo.»
«Non ho fatto niente.»
«Ha agito da sola o ha avuto dei complici che le hanno dato una mano a nascondere le prove?» continuò, ignorando la mia ultima affermazione.
Mi sollevai dalla sedia a rallentatore, indurendo la mascella, e ringhiai. «Le ho detto che non ho fatto niente.»
«Dov'è Giovanni Rinaldi? Parli!» ordinò perentorio. Guardandolo dritto nelle iridi azzurre, non riuscii più a contenermi e scaraventai via la bottiglietta che volò dritta sul pavimento.
«Non lo so! Come glielo devo dire?» Strillai, alterata. «Non ne ho idea! Non lo so!» Tirai un pugno nell'aria con la mano non ammanettata e rovesciai la sedia sul pavimento. «Non lo so! Ha capito! N... Non lo so.» biascicai, premendo la faccia contro il braccio, mentre i singhiozzi riempirono il silenzio.
«A prescindere da quanto si comporti bene, non intendo cadere nella sua trappola. Ha scoperto la relazione di suo marito, si è arrabbiata come ha appena fatto e dopo l'ha ucciso. Continui a negarlo.» Mi afflosciai sulle ginocchia. «Lo dimostrerò, dottoressa. Si abitui a questo posto perché ci resterà per molto tempo!»
Raccolse la foto finita sul pavimento e prima di uscire dalla stanza la ributtò sul tavolo. Rimasi in quella posizione per un po' con le ginocchia piegate e il mento premuto contro il dorso.
Era un incubo. Giovanni mi avrebbe svegliato presto, per dirmi che andava tutto bene e mi avrebbe abbracciato per rassicurarmi. Guardai il polso bloccato da quella manetta, poi la foto dove sembrava che fosse consenziente a quel bacio. Feci sprofondare la testa. Mi feci forza e afferrai la fotografia, tirandomi su.
Un moto di ribrezzo mi fece distogliere lo sguardo e schiacciai la mano alla fronte.
In cosa ero capitata...
Alessia
Nessuno era venuto a darci ancora notizie e io rischiavo di dare di matto.
Ma era mai possibile?
«Non voglio dirlo ad alta voce, ma... se Valentina avesse qualcosa a che fare con tutti questi eventi catastrofici, con la foto e tutto il resto?»
«Waxie', mi aspetto di tutto da quelle come lei.» Esordì Gianmarco.
Il dottor Gentile domandò intanto a Tommy cosa fosse capitato. Avevamo celebrato e festeggiato le loro nozze proprio ieri e stamani era stata una doccia fredda vedere mia sorella scortata fuori dalla casa dai poliziotti, in manette, come la peggiore criminale.
«Non sappiamo niente. Ma io non ce la faccio più. Chiedo a qualcuno.» Scattai in piedi. «Mi scusi, senta, agente?»
Tommy mi bloccò per il braccio. «Vieni. Niente, grazie.» Lo mandò via. «Che fai? Questo non è l'ospedale, dobbiamo aspettare.»
«Per quanto? Sto impazzendo!»
«Ecco l'avvocato Fiano. Andiamo a chiedere informazioni a lui.» Un uomo vestito di tutto punto con lunghe falcate e una valigetta stretta in mano ci raggiunse.
«Dov'era finito?!» sbraitai.
«Mi stavo occupando del caso del signor Svevi.»
«La mia amica è lì dentro ed è sola. Questo è più importante di qualsiasi caso, ha capito?» rimproverò Angelina, piccata.
«Mia sorella non può più stare lì dentro. Deve farla uscire.»
«Capisco quello che state passando, ma vi prego di mantenere la calma. Mi occuperò della signora Federica, va bene?» Sembrava ci stesse facendo un favore e mi fece saltare i nervi.
Sbattei le braccia contro i fianchi quando se ne andò.
«Merda...» Si lasciò sfuggire Gianmarco.
«É facile dire "mantenete la calma". Pff!» Schioccai la lingua e andai a sedermi con Angelina.
«Non importa. Nessuno lo capisce. Federica non ha fatto nulla, ma la trattano da criminale. Non capisce niente neppure la polizia.»
«Be'... prima di affermare che non ha fatto niente, bisognerebbe capire di cosa si tratta.»
Girai il collo e fulminai il rosso. Balzai in piedi. «Cosa stai insinuando? Parla chiaro!»
«Sssh... ragazzi, siamo in un commissariato, per favore.»
«Alessia, non ascoltarlo.» Gianmarco gli assestò uno scappellotto dietro la nuca, guardandolo male. «Siamo molto nervosi e diciamo assurdità. A quanto pare, è successo qualcosa al dottor Giovanni e lo sa solo la dottoressa Andreani.»
Scacciai in malo modo la mano che aveva posato sulla mia spalla e lo incerii.
«Non ha fatto nulla.»
«Ok, ma calmati...»
«Federica non farebbe mai del male a Giovanni! State scherzando?» sbottò Angelina.
«Nessuno pensa o dice il contrario!» provò a correggere la sua gaffe spaventosa il rosso.
«Ragazzi, la volete piantare? Siamo in un commissariato. Come se non avessimo già abbastanza problemi. Federica è lì dentro, non sappiamo nemmeno se Giovanni sia vivo o meno. La situazione è molto delicata, quindi calmatevi, ok?»
I miei occhi si offuscarono per lacrime che avevo tentato di trattenere e mi abbandonai nelle braccia di Tommy, stringendolo. Non avevo alcuna idea di cosa sarebbe accaduto nell'eventualità in cui la situazione fosse peggiorata.
Non ci volevo manco pensa'.
«Wax e Gianmarco, voi tornate in ospedale.» ordinò il nostro superiore, Gentile.
«Dottore, non possiamo andarcene proprio adesso e in questa situazione...»
«Sì, vediamo prima se la dottoressa sta bene e poi andiamo.»
«Vi faremo sapere appena sapremo qualcosa. Non si può fare nulla per il momento e i pazienti hanno bisogno di voi.»
Wax, a quel punto, fece un cenno affermativo. Lasciò un bacio a stampo alla fidanzata e mi diede una pacca di incoraggiamento.
«Alessia, non ti preoccupare, si chiarirà tutto e la dottoressa ne uscirà indenne.»
Accarezzai la mano che Gianmarco aveva posato sulla mia spalla e annuii.
Ne ero sicura...
Un uomo dai capelli brizzolati castano scuro si avvicinò e mi staccai dalla parete. Si presentò come ispettore Cavaliere, stava indagando sul caso di Giovanni e mi chiese di seguirlo per rispondere ad alcune domande. Scambiai un'occhiata interrogativa con Tommy e lo seguii. Domandò quale rapporto avessimo io e Federica e tra quest'ultima e la "vittima". Risposi a tutto. Mia sorella non aveva fatto niente ed era ingiusto tenerla dietro le sbarre. L'attesa infinita mi stava annodando lo stomaco. Cominciai ad andare avanti e indietro. Sbuffai. Appena mi girai, incrociai lo sguardo saccente e antipatico di quella donna e le andai incontro.
«Sei stata tu, vero? Disgraziata!»
Era stata lei a farlo sparire per far ricadere tutta la colpa su Federica, pur di mettere in atto il suo piano diabolico, aveva un'alibi perfetta.
Un poliziotto mi sbarrò la strada e impedì di strapparle i capelli.
«Dimmi, cos'ho fatto? Parla!»
«Hai organizzato questo schifo! Non siamo stupidi!» Intervenne Angelina, imbestialita.
«Basta, vi proibisco di avvicinarvi. Dov'è quella selvaggia di tua sorella? Chiedilo a lei.»
«Cosa stai dicendo di mia sorella?!»
«Angelina! Alessia! Datevi una calmata!» ci ammonì Tommy.
L'avvocato arrivò in tempo per evitare una rissa e si rivolse a lui, chiedendoci di stare calmi.
«Mia sorella?» domandai, senza perdermi in futili chiacchiere, ignorando Valentina.
«Dopo aver raccolto la deposizione, la sposteranno in tribunale con un mandato di arresto.»
«M... mandato?! A... Arresto?» ripeté Angelina, sconvolta.
«Quale mandato? Cosa sta dicendo? Mia sorella...» Non finii la frase e puntai il dito contro quella biondina ossigenata. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto verrà tutto a galla e non la passerai liscia!»
«Perciò... hanno arrestato tua sorella per niente.» Trillò
«Sì! Sì, è così!»
«Non ci sono prove contro di me.»
«Sei tu che hai orchestrato questa ridicola storia per far ricadere tutta la colpa su mia sorella e rovinare il suo matrimonio.» Mentre continuavo a inveire contro quella stronza, vidi mia sorella arrivare con le guardie. «Fragolina!»
«Assassina! Sei un'assassina! Sai cosa hai fatto a Giovanni. Confessa! L'hai ucciso! Sappiamo tutti che sei stata tu!»
«Chiudi il becco, strega!»
Seguii mia sorella che non aveva proferito una mezza frase e si lasciò trascinare via, senza opporre la minima resistenza.
Giovanni
Sentivo come se stessi galleggiando in una dimensione astratta. Mi mossi leggermente, stiracchiai le braccia e allungai il braccio dalla sua parte per sfiorare il suo corpo meraviglioso. Le mie labbra si curvarono in un sorriso al pensiero che tutte le mattine, d'ora in poi, mi sarei svegliato e l'avrei fissata dormire. La mia mano si posò sul materasso, ma trovai solo il vuoto sotto i polpastrelli. Avvertii un fischio nelle orecchie. Feci uno sforzo immane per socchiudere le palpebre. La vista era appannata da un velo. Richiusi un secondo gli occhi. Ero frastornato. Feci un respiro profondo, stropicciai la faccia e il fastidio alle tempie si intensificò. Arricciai il naso. Gemetti e tuffai le mani nei capelli. I dettagli di ciò che avevo attorno si fecero più nitidi. Sbalordito, notai che non era la mia camera da letto.
Mi tirai su lentamente.
Che posto era...
«D... Dove sono?» Biascicai. Ispezionai la stanza, aveva l'aspetto di una cantina. L'unica fonte di luce in grado di rischiarare l'oscurità era una lampada sul comodino. Quel posto però non era familiare. «F... Federica? Federica?» Per mettermi seduto, dovetti aggrapparmi al bordo del comodino e rischiai di ruzzolare giù dal letto, a causa di una vertigine. Il mal di testa tornò con prepotenza e vidi sfocato. Con le poche forze, scivolai verso il bordo mettendomi seduto. «Cos'è questo? D... Dove sono? Fe... Federica?» Cercai la mora. Abbassai il piede e un tintinnio sinistro attirò la mia attenzione. «Ma che... è?» Avevo un catena alla caviglia. Non stavo capendo nulla e non sapevo come ci fossi arrivato. «Cosa ci faccio qui?» Avevo un vuoto di memoria spaventoso e mi presi la testa.
Un'altra fitta dolorosa...
«Oh, ben svegliato, dormiglione! Hai dormito bene?»
Una voce greve mi distolse dal torturare i capelli e guardai in tutte le direzioni.
«Chi sei?»
«Già, questa è la domanda a cui devi rispondere: "Chi sono"?»
«Dov'è Federica? Rispondi! Dov'è Federica? Dov'è...» Gemetti per il dolore martellante e mi afferrai la testa, piegandomi in due. «Dov'è...?!» Provai a mettermi in piedi, ma una sensazione di spossatezza estrema mi fece barcollare. Caddi in ginocchio. «Cosa mi hai dato? Cosa vuoi da me? Cosa vuoi da noi?!»
«Prendi la pillola.»
«La pillola...» Ansimai. «Che pillola?»
Mi sollevai con fatica e notai una teca poggiata sul tavolino.
Alzai quel coperchio, vedendo un'unica pasticca bianca e la rimisi a posto.
«Se fossi in te, non resisterei. Tra un po' l'emicrania peggiorerà, deve farti già abbastanza male. Ti farà venire la nausea. Credo di aver esagerato un po' con la dose del farmaco che ti ho. Ops...»
Lo stomaco mi si contorse, mi salì un sapore rancido, stavo per vomitare seriamente. Mi rimisi accovacciato su quel pavimento.
«Cosa mi hai dato? Cosa mi hai dato, psicopatico del cazzo!»
«Prendi la pillola, Giovanni.»
«Non prenderò niente!» Ringhiai con il volto imperlato di goccioline di sudore, sollevando gli occhi al soffitto. «Non la prendo, mi hai sentito? Mi hai sentito? Non prendo questa schifezza!» Agguantai la catena e rimisi in piedi. Non avevo alcuna voglia di fare i giochetti di questo maniaco. «Rispondi. Rispondi alla domanda! Dov'è Federica? Rispondi! Chi sei?!» Stizzito, mi aggrappai alla poltrona e la colpii con un calcio. Cercai di lanciarmi in avanti, ma la catena a cui mi aveva intrappolato, mi provocò una caduta rovinosa. Risvegliò il vecchio dolore alla gamba che mi ero fratturato e urlai a squarciagola. Non mi arresi, dovevo disintegrarla. Imprecai tra me e me e scaraventai la mano sulla testiera del letto. Non potevo starmene lì, dovevo cercare mia moglie prima che quel pazzoide decidesse di farle del male. Ci avevo riflettuto, ma non avevo trovato alcuna spiegazione plausibile. Quel tipo... Si nascondeva dietro una voce distorta e mi aveva messo in trappola. «Dov'è Federica?» Rifeci la stessa domanda, spazientito. Lo schermo di un televisore al plasma si illuminò. Apparvero delle immagini inquietanti: Federica presa d'assalto dai giornalisti, mentre usciva da un commissariato in manette. «Federica...» Sbattei ciglia. Una giornalista parlava di un caso di "omicidio colposo" ai microfoni: la moglie indagata per omicidio ai danni del marito, proprietario di un ospedale famigerato a Roma. «No. Di cosa stanno parlando? Omicidio? É assurdo. No, no! Cos'è? Che razza di gioco malato è mai questo?!» Serrai i pugni e indurii la mascella. «F... Federica...» Gli occhi mi si inumidirono. Lo schermo si spense, un'altra volta. Guardai in alto, in tutte le direzioni. «Cosa vuoi? Cosa vuoi da noi? Cosa vuoi da me? Cosa vuoi da Federica?!» Alzai gli occhi e li puntai verso una telecamera installata in un angolo cieco. Mi stava vedendo. «Stai lontano da lei. Stalle lontano, hai sentito? Ti farò pentire di quello che le stai facendo passare, idiota! Mi hai sentito? Sta attento a quello che fai. Se le torci un solo capello, giuro che ti ammazzo.» La televisione riprodusse il filmato due, tre... persi il conto. «Non farmi vedere le stesse cose!» Tuonai. Era una menzogna, lo sapeva che non era vero. «Non azzardarti a toccarla nemmeno con un dito, psicopatico. Chi sei?» Lanciai un'occhiata torva alla telecamera. «Chi sei? Fatti vedere! Mostrati! Se sei in grado di organizzare qualcosa di così contorto, sii coraggioso e mostra la faccia, miserabile!»
Ripresi così a forzare la catena. Non potevo dargliela vinta...
Federica
Non riuscii a seguire bene la conversazione tra il commissario e il poliziotto, la mia testa stava viaggiando a ritroso a mesi addietro, quando Giovanni si ostinava a starmi appiccicato in ogni minima occasione per dimostrarmi il suo amore. Aveva totalmente cambiato la mia prospettiva... mi aveva insegnato a credere nei miracoli, mi aveva protetto dai miei scatti di follia, tipo quando ci aveva chiuso nello stanzino, evitando che mi facessi licenziare per aver inveito contro Svevi. In tutte queste occasioni... aveva creduto nelle mie capacità, quando altri mi avevano etichettato come un caso perso, in grado di combinare solo casini e problemi.
Giovanni rappresentava la mia ancora di salvezza...
Le dolcissime parole di quella sera mi echeggiarono in mente. Era felice di passare il resto della vita con me. Mi aveva stretto a sé, schiena contro torace, e sussurrato all'orecchio, mentre le nostre figure riflettevano nella vetrata. Si era complimentato per come mi calzasse l'abito... poi mi ero voltata per fissarlo. Gli avevo fatto una promessa: rimanere con lui fino all'ultimo respiro...
«Va bene, sarò lì per le otto, o forse prima. Voglio che questi documenti siano pronti e sulla scrivania appena arrivo.»
Riemergendo dalle mie fantasticherie, spostai gli occhi sul poliziotto alla guida. Dallo specchietto centrale notai la sua smorfia, l'espressione divenire sofferente. Un attimo prima... qualcuno passando gli aveva assestato una gomitata al petto.
Lo avevo visto...
Quando iniziò a boccheggiare, il sospetto si tramutò in certezza.
«Fermi la macchina.»
L'ispettore staccò la chiamata, girandosi verso i sedili posteriori. «Ha altre richieste, dottoressa?» mi prese in giro, ma io ero seria.
«Fermi la macchina. Tenga il volante. Sta avendo un infarto!»
«Agente De Longhi? Sta bene?!» Se ne accorse quando mollò la presa sul volante e si buttò dalla parte del lato guida per riprendere il controllo. Lo schianto però... fu inesorabile e seguì un fragore di vetri rotti.
Strizzai gli occhi e mi toccai il collo, mi doleva. Anche la poliziotta lamentò un dolore alla gamba per la botta. Qualcuno aprì lo sportello posteriore per chiedere se stessimo tutti bene. L'ispettore lo confermò.
«Controlli il polso.» Esclamai, dopo essermi ripresa.
«Dove?»
«Dal collo... È più facile.»
«Non sento niente.» Comunicò.
«Mi faccia vedere.» Mi alzai e cercai di spostare il lembo della camicia per premere sulla giugulare. «Non c'è polso. Chiamate un'ambulanza!»
«La chiamo subito.»
Il commissario tirò fuori il cellulare e si mise in contatto con i soccorsi, spiegando la situazione e chiedendo di mandarci un'ambulanza.
«No, non possiamo aspettare che arrivino i soccorsi.»
Feci per scendere e la poliziotta mi afferrò il braccio.
«Dove sta andando?» mi riprese brusco l'ispettore.
«Non può uscire!»
«Ascoltate, quest'uomo sta morendo. Lasciate che lo aiuti! Ha bisogno di me!» Mi scansai dalla presa, seccata. Intendevo assumermi ogni responsabilità. Scortata da due poliziotti, scesi e aggirai velocemente il furgone. Quest'uomo non avrebbe resistito, probabilmente il cuore si era arrestato da qualche secondo. Sarebbe morto se non avessi fatto la RCP. Ero un medico, il mio dovere era salvare vite umane. «Ho bisogno che mi tolga queste manette, così posso fare il massaggio cardiaco.» Il commissario mi osservò con faccia impassibile. «Sta morendo! Non posso scappare da nessuna parte. Mi tolga le manette!»
Si fece dare le chiavi dal poliziotto e mi liberò la mano. Li incalzai a tirarlo fuori dal furgone in panne e seguirmi. Ordinai di allontanare la gente che si stava accumulando sempre di più, serviva più aria. I poliziotti appoggiarono a terra il corpo del collega e gli posizionai il berretto sotto la testa. Tirai giù la zip del giubbino, poi strappai la camicia e iniziai a comprimere il torace.
Speravo bastasse questo...
Giovanni
Feci altri tentativi. Ci provai con tutti gli oggetti che mi capitavano a tiro. Mi tolsi una scarpa dal piede e addirittura provai a colpire il lucchetto con il vassoio. Mi tirai su, stremato, ma con una rabbia incontrollabile. Spasmodicamente, controllai ogni anfratto di quel posto e sul comodino adocchiai un portachiavi a forma di dado.
Lo fissai, scuotendo la testa.
Era un gioco... avermi intrappolato qui dentro.
«Un gioco. Quindi vuoi giocare con me? Va bene, ti mostrerò io il gioco vero.» Lo rimisi a posto, schiantando un pugno sul comodino. Aprii tutti i cassetti, afferrando una cianfrusaglia dopo l'altra, e buttai tutto a terra.
Al diavolo il suo gioco...
Avanzai di qualche passo, ma la catena mi trattenne saldamente, così mi misi carponi per avvicinarmi all'oggetto appuntito. Mi allungai, tentando di prenderlo e agguantando la catena spostai il letto verso di me. Bingo. Un ghigno si dipinse sulle labbra. Provai a colpire il lucchetto con l'oggetto contundente, si scheggiò la punta. Riprovai. Non intendevo mollare. Colpii. Quando non funzionò più, lo scaraventai all'altra lato, sbuffando dalle narici. Passai il braccio sulla fronte per asciugarla. La televisione si accese e quelle immagini mi rincuorarono. «Fede...» Era lei... Era davvero mia moglie. «Fede... stai bene?»
La guardai mentre stava facendo il massaggio cardiaco.
«Perchè ci mette tanto? Non c'è ancora polso, dottoressa?»
«La frequenza cardiaca è troppo bassa. Mi servono dei guanti. Devo aprirgli il torace.»
«Il torace, qui?!»
«Se non lo apri, morirà.»
«Se non lo apro, morirà.» rispose, come se avesse sentito il mio suggerimento da lontano. Mi avvicinai allo schermo. Aveva sempre dimostrato più fegato di cento uomini. Non si fermava di fronte alle difficoltà, anche se un ostacolo era insormontabile lo avrebbe superato. «Sa fare la rianimazione? Continui lei.» Si rialzò. «Mi serve qualcosa di affilato.»
«Affilato? Forse è nel furgone.»
«Dove va? Ragazzi!»
«Tranquillo, continui! Non può fermarsi o morirà!» ordinò categorica e sparì un secondo dal campo visivo. Tornò e chiese qualcosa per sterilizzare. La poliziotta le passò una boccetta. Chiese a quest'ultima se sapesse fare la respirazione bocca a bocca e le rispose di sì.
Sapevo che quello - per lei - era un gioco da ragazzi...
Era in gamba: i casi più estremi erano il suo pane quotidiano.
«Puoi farlo, lo so. L'hai già fatto.»
Non era la prima volta che operava nel bel mezzo di una strada. Iniziò a spiegare meticolosamente i passaggi.
«Ho bisogno che mi dia una mano quando aprirò il torace. Si metta i guanti e segua le mie istruzioni, d'accordo? Appena farò il primo taglio, dovrà iniziare la respirazione bocca a bocca. È chiaro?» Dopodiché, diede inizio all'intervento. Fece mettere le mani dell'altro all'interno della cavità e gli disse di spingere i muscoli.
«Andiamo, more. Stai attenta. Concentrati.»
Inspirai a fondo anch'io.
«Più giù, ancora più giù.»
«Così va bene?»
«Più forte. Sì, così.»
«Meglio?»
«Ok, molto bene...»
Stava scavando nelle viscere dell'uomo per trovare l'aorta: la vena che alimentava il cuore.
«Ci riuscirai. L'hai fatto già prima. L'hai già fatto e non fallirai, mo...» La televisione si spense, lo schermo si oscurò del tutto, non mostrandomi il resto. «Fede... Ehi, perché si è spento? Perché si è spento?!» Girai gli occhi sulla telecamera e ringhiai indignato. «Riaccendi!» Il maniaco scoppiò in una risata isterica. «Cosa ti fa ridere? Eh? Cosa? Ho detto di riaccenderlo!»
«Sto dirigendo io questo film. Lo accendo e spengo quando voglio.»
«Davvero, regista? Non preoccuparti, metterò fine al tuo giochetto, vedrai.»
«Giovanni, sono io a comandare. Se voglio che tu rimanga in vita o che muoia, lo deciderò io.»
«Ti diverti? Hai deciso di torturarmi? Ti piace?»
«Be', non quanto avevo sperato, però sì. A proposito, non solo il tuo, ho anche il controllo della tua amata moglie. Posso toccarla... quando voglio. Per esempio, potrei... farla marcire in prigione.»
Mi tirai su. «Ascoltami bene, psicopatico! Se tocchi mia moglie, ti ammazzo. Hai sentito? Se le torci un solo capello, ti ucciderò con le mie stesse mani! Non ci sarà posto dove potrai nasconderti! Ti troverò e ti ammazzerò!»
«Calma i bollenti spiriti. Devi ancora vedere il resto del mio film.»
«Il tuo film... Il tuo film può andare a farsi fottere, per quanto mi riguarda!» Ringhiai e scagliai a terra il bicchiere frantumandolo in mille pezzi per poi tuffare le mani nei capelli innervosito. Mi imposi di rimanere calmo e non dare in escandescenza, poggiando le mani sulle ginocchia. Mi buttai sul pavimento e guardai il soffitto con un sorriso. «Ce la farai, Fede. Ci riuscirai, non preoccuparti. Sai cosa fare. E so cosa devo fare io.»
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro