Capitolo 14.3 - Ogni inizio ha una fine...
Angelina
«C-Ciao, Lorenzo. Come sta?» Mi trovai davanti l'uomo, che aveva appena varcato la soglia della caffetteria in pieno pomeriggio con passo traballante. Si lasciò cadere a peso morto sull'altra sedia, emettendo uno sbuffo. «Ehi, sta bene?» chiesi poi preoccupata.
«Angelina. Angelina...» Tirò fuori dalla tasca un mazzetto di soldi e li poggiò con un tonfo sul libro che mi stavo apprestando a leggere nel ritaglio della pausa. Li osservai allibita. «Prendi. Dalli a Federica e dille che suo padre non ha venduto sua nonna.»
«Che vuol dire? Non capisco.» Scrutai il denaro lì in bella vista, deglutendo un po' di saliva.
Sbatté la mano su di essi, ansimando con il respiro. «Anche questo ristorante appartiene a Federica. Per anni... ogni boccone che mi è passato in gola è stato denaro sporco, illegale!»
«Non dica così, Lorenzo.»
«Federica... Federica... me l'ha detto, mia figlia... mi ha sempre messo in guardia, e io...» Si bloccò di colpo, guardando un punto nel vuoto, e gli sfuggì un singhiozzo. «Ho sempre creduto a quella serpe, le ho permesso di distruggere la mia famiglia. Ora le mie figlie non mi parlano, hanno ragione. Aveva fottutamente ragione! Daglieli. Dalli a Federica.» insisté, ma forse aveva alzato un po' troppo il gomito. Non sembrava in sé. «Ripetile quello che ti ho detto.»
«Non posso, Lorenzo. Non posso. Mi dispiace tanto. Ti preparo un caffè caldo, ok? Penserai più lucidamente con la mente sgombra, d'accordo?» Recuperai il mio libro e gli diedi le spalle per recarmi a passo spedito nel retrobottega. Quando fui di ritorno nella sala per portargli il caffè che avevo appena fatto, di lui non vi era alcuna traccia da nessuna parte. Si era volatizzato. «Dove sarà finito? Santo cielo...» Chiesi tra me e me. Posai lì la tazza. «Spero che non vada in ospedale e non crei problemi a Fede.»
La mia amica aveva già fin troppe preoccupazioni per badare anche ad un padre ubriaco marcio.
Giovanni
«L'arteria del braccio è gravemente danneggiata.» Comunicò la dottoressa Rosalba, armeggiando con gli strumenti per portare a termine un intervento alquanto invasivo.
Ma valeva la vita del mio amico, era importante che ci riuscisse.
Osservai di sfuggita quel monitor. «Già...»
«Devono essere riparate anche le fibre nervose.»
«Matteo, aspira.» Ordinai al rossiccio che prese la sonda dal carrello vicino a sé e iniziò ad aspirare il sangue in eccesso.
«La famiglia di Riccardo è stata informata dell'accaduto?»
«Famiglia?» Ripetè l'infermiere facendoci girare in contemporanea verso di lui.
«Sua moglie abita fuori Roma.» Osservai il mio amico dormiente sotto l'effetto dell'anestesia. «Lascia stare, penso io a farlo. Non hanno più rapporti da un po'.» Completò la procedura e, alla fine, rialzò la testa incrociando il mio sguardo. Sfilò gli occhialini chirurgici dal naso e dispose di somministrare al paziente eparina e antibiotici. Non potevamo fare altro di più per Riccardo se non aspettare.
«Spero che si riprenda in fretta.»
Una volta usciti dalla sala operatoria, ci fermammo a parlare vicino ai lavandini.
«Un'operazione davvero rischiosa. Avete fatto un ottimo lavoro.» Commentò la dottoressa, mettendo le mani in tasca.
«Ce l'hai fatta. È merito tuo.»
«Non ce l'avrei fatta senza di te. Sei stato tu a portarlo qui.»
Distolsi lo sguardo.
Ma a che prezzo e quale conseguenza avrei pagato per aver salvato la vita del mio migliore amico? Probabilmente molto salato, avrei rischiato di perdere la sua amicizia.
«Mi ha convinto a tagliargli il braccio. È stata una delle decisioni più difficili che abbia mai preso in vita mia, Rosalba.»
«Hai fatto la cosa giusta.»
«La cosa giusta? La cosa giusta è tagliare il braccio a un uomo che ha dedicato la sua vita ai pazienti di questo ospedale, mettendo tutto il resto in secondo piano? Ric viveva per il suo lavoro...»
«Sì. La cosa giusta è stato tenerlo in vita in modo che continuasse a godersi i piccoli momenti che ci rimangono ancora.»
«Ma fare il medico era tutta la sua vita, il suo lavoro...» ribattei.
«Senti, Giovanni...» Appoggiò la sua mano sulla mia spalla per darmi un briciolo di conforto. «Quando lavoravo in Medio Oriente, ho visto cose simili. Credimi, capisco come ti senti.»
«Per un chirurgo, le mani sono tutto.»
Rosi indietreggiò di passo, togliendo la mano dalla mia spalla e le infilò nelle tasche.
«Lo so bene. Ascolta, questa perdita probabilmente sarà traumatica per Riccardo. Avrà difficoltà ad accettarlo e, anche se è quello che voleva, potrebbe dare la colpa a te.»
Abbassai la testa, annuendo.
Mi rimisi dritto con la schiena e lasciai cadere le braccia. «È stata una decisione tosta e sarà tosta anche per lui da accettare.»
«Preparati, questo è ciò che devi fare. Avrei fatto la stessa cosa se fossi stata nei tuoi panni.»
Ringraziai la dottoressa per i suoi consigli preziosi, stringendole amichevolmente le braccia. Aveva portato un po' di sollievo alla mia anima tormentata.
Mi diede una pacca leggera a sua volta e mi allontanai da lei.
Raggiunsi il teatro operatorio.
Il dottor Tommaso, in compagnia di Federica e altri stavano eseguendo un delicato intervento e poggiai la mano sulla spalla della rossa, talmente persa a fissare con attenzione cosa stesse capitando di sotto, che si voltò trasalendo. Le rivolsi un sorriso rassicurante e l'affiancai. Era molto provata e agitata, quella di sotto era una persona molto cara.
«Prima le ho detto che mia madre era una cattiva persona. Mi avrà sentito?» Esordì con un filo di voce, trattenendosi a stento dallo scoppiare a piangere.
«Non lo so. Potrebbe.»
«Spero... spero di no. Comunque, se sopravvive, so che mi perdonerà. Ma» Si girò. Aveva gli occhi lucidi. «Se... Se muore.»
«Se muore, non c'è niente che si può fare...» Restò in religioso silenzio a guardare in basso la scena e mi girai un'altra volta. Più o meno, avevamo vissuto esperienze analoghe con i nostri genitori, entrambi ci avevano mentito e ferito. «Sai, prima che mio padre morisse, anch'io gli ho detto cose orribili. Non solamente che era cattivo.» Catturai l'attenzione di Alessia. «Gli ho detto cose terribili.» Tornai a guardare avanti a me esattamente come lei. «Non so se oggi avremmo potuto guardarci in faccia.»
«Era suo padre. Di sicuro, avreste sistemato le cose.»
«Non ne sono così sicuro e non lo saprò mai. Ma ora non ha importanza, perché purtroppo se n'è andato. Vorrei che fosse vivo e potessimo fare pace.»
«Mamma. Mamma» Riprese a piangere, appoggiando le mani sul vetro: «È un po' cattiva, ma è pur sempre mia madre! Come posso odiarla, eh?» Non avevo alcuna risposta giusta o sbagliata da poterle fornire in quel momento. «Federica e Tommy hanno fatto interventi più complicati di quello di mia madre, vero?»
Una scintilla di speranza le illuminò gli occhi marroni.
«Andrà bene, tranquilla.» Tornai a fissare i due indaffarati con l'intervento. «Fidati di loro. Non li ho mai visti deludere nessuno. Sono bravi e sanno quello che fanno. Tua madre starà bene, credimi.»
Poggiai la mano sulla spalla della ragazza e dopodiché la lasciai scivolare via per allacciare le braccia dietro la schiena.
«C-Ci credo. Non ho altra scelta.» Rispose, tornando a guardare.
Federica
La vista mi stava dando qualche problemino di troppo, ma cercai di tenere botta e stringere i denti. Non potevo mollare così, avevo promesso che avrei ricongiunto Alessia con sua madre e perciò dovevo rimanere concentrata. Non riuscivo a focalizzare bene di tanto in tanto e scossi la testa per scacciare il fastidio.
«Hai battuto la testa?» Domandò d'un tratto Tommy.
«Un po', ma non è grave.»
«Ti ha visitato qualcuno quando sei arrivata in ospedale?»
Sbuffai. «Tra te e Giovanni non so che mi faccia impazzire di più!» Non avevo cinque anni e d'altronde ero in grado di curarmi da sola, senza l'aiuto di nessuno. Sapevo come funzionasse visto che ero un medico, ma a quanto pare l'aveva dimenticato. «Non è niente, okay.»
«Ok, ma sai bene come la penso sull'autodiagnosi di queste cose.»
«Sono medico. So cosa ho e cosa no. Ti ribadisco che non ho niente.»
«Quanto tempo fa ti è successo?»
«Tommy, la pianti per favore? Questo non è un interrogatorio. Stiamo operando.»
«Ti chiederò tutto quello che serve. Sei nella mia sala operatoria.» Sottolineò con aria strafottente, facendomi alzare gli occhi al cielo. Mi stava letteralmente spazientendo con tutte queste domande ridicole, quando il suo dovere era preoccuparsi dell'intervento. Il volto della donna si adombrò e dovetti staccare gli occhi, alzandoli verso il soffitto. Questi continui cali di attenzione non erano a mio favore. Non potevo permettermi alcuna distrazione mentre ero lì. «Ci fermiamo un secondo?» Propose all'equipe, poi eccolo, girarsi verso la sottoscritta. «Fede, hai una brutta cera. Va' a riposare. Smettila di ostinarti, gli altri sono tutti qui.»
«Il dottor Daliana ha ragione, dottoressa Andreani. Ha un forte mal di testa. Possiamo dare un'occhiata? Forse è qualcosa di più serio.»
«Gianma, chiudi la bocca.» Lo incenerii con un'occhiata e chinò il capo a terra. «Voglio andare avanti. Finiamo l'intervento, per favore.»
«Basta.»
Sbattei le palpebre. «E perché, scusa?»
«È la mia paziente, e voglio che tu esca subito dalla mia sala operatoria.» Ordinò perentorio guardandomi dritto negli occhi.
«Alessia mi ha affidato sua madre.» tentai di obbiettare.
«È una paziente e siamo in un ospedale. Tutti sono affidati a noi. Non preoccuparti, la madre di Alessia non mi interessa meno di quanto interessi a te.» La voce di Giovanni risuonò dall'altoparlante per tutta la sala, chiedendo se ci fossero problemi e Tommy replicò. «Scusa Gio, ma la dottoressa Federica ha avuto una giornata veramente complicata e non se la sente di continuare con l'operazione. Non è così?»
Lo scrutai di sottecchi, non dandogli uno straccio di risposta affermativa.
«Sì, ok, Fede non ti preoccupare, esci pure. Vengo immediatamente a darti il cambio.»
«Te la farò pagare cara.»
Sicuramente stava gongolando poiché aveva ottenuto quello che voleva.
«Gentile da parte sua, Andreani. Perfetto.» Rispose con sadica soddisfazione e controvoglia sfilai i guanti ormai sudaticci dalle mani.
Mi ritrovai nel corridoio in un batter d'occhio, con Giovanni che mi prese il viso, chiudendolo a coppa fra le sue mani.
«Fede, dimmi la verità. Stai bene sul serio?»
«Uhh, che palle! Certo che sì!» Gli feci allontanare le mani dalla mia faccia. «Non è niente. Ti sei preoccupato senza motivo. Smettila di darmi il tormento. Come sta Riccardo?» Cambiai discorso altrimenti lo avrei preso a schiaffi e il moro si rabbuiò.
«È in terapia intensiva.»
Piegai la testa. «Vado a vedere come sta.»
Feci un passo in avanti, ma mi agguantò il polso tornando a fronteggiarmi. «Federica... vai nel tuo ufficio e riposati un po', se non vuoi farmi arrabbiare.»
«Non credi di esagerare? Ho avuto un banalissimo mal di testa. Non sono in fin di vita.»
«Con te, le maniere drastiche non bastano mai.»
Mi inumidii le labbra. Mi dava l'impressione di un papà premuroso che stava rimproverando la propria figlia ribelle che era uscita ed era rincasata oltre il coprifuoco.
«Ok...»
Lo stupore gli si dipinse in volto e alzò il sopracciglio. «Come?»
«Vado a riposare un po'.»
«E vuoi fare ciò che dico io senza che debba insistere o altro?»
«Non sfidare la sorte, ok? Non avrai altre possibilità, Rinaldi.»
Sorrise, galvanizzato. «Mhm, non c'è problema. Allora vai nel tuo ufficio, chica mala. Appena finisco, verrò a trovarti.»
«D'accordo.» Feci spallucce.
Mi incamminai fuori dal blocco operatorio per cambiarmi e rimettere il camice. Non avevo altri interventi e la cosa mi andava bene così avrei utilizzato quel poco tempo a disposizione per schiacciare un pisolino. Mi serviva un po' di riposo e ritemprare le energie.
Attraversai a passo svelto il corridoio in direzione dell'ufficio.
«Fede?!» Voltandomi vidi Angelina. La raggiunsi a metà del corridoio e la castana si parò di fronte a me con aria stravolta.
«Cosa fai qui, Nina?»
«Ti ho chiamato. Mi hanno detto che eri impegnata in un'operazione.»
«Dimmi, è successo qualcosa, vero?» La incalzai.
«Fede...» Balbettò, guardando il pavimento trovandolo di colpo interessante. «Tuo padre è venuto alla Noia. Era ubriaco, avrà bevuto come una spugna. Ha tirato fuori una somma cospicua di denaro dalla tasca e poi...» Si sforzò di guardarmi in viso. «Mi ha chiesto di dirti che non ha venduto tua nonna, ma non ho capito che intendeva.»
«Io invece sì...»
«Mi ha dato anche le chiavi del ristorante, ha detto che era tuo e che è tutta colpa di Rebecca.»
«Sapevo che era stato lui.»
Era stato lui a commettere quell'atroce gesto: spingere una donna indifesa con l'intento di ucciderla e farlo passare per un futile incidente.
Angelina abbassò gli occhi. «Cos'è successo?»
«Lo sapevo.» Mi dissi.
«Cosa sapevi, Fede?» Mi interrogò.
«Nulla.» Minimizzai. «Nina, torna alla caffetteria e se viene mio padre, avvertimi.» dissi per poi piantarla là senza spiegarle niente. Avevo la matematica certezza che era lui il colpevole e che non era cambiato. Era rimasto il prepotente, bastardo e violento che ricordavo. Il riposo poteva aspettare. Quella sera, il mio unico intento era diventato affrontarlo, guardarlo negli occhi e sputargli in faccia tutto quello che pensavo di lui. Percorsi il corridoio come un condottiero pronto alla guerra quando l'infermiera Manuela mi chiamò da dietro il banco dell'accettazione, con tra le mani un modulo. «Dottoressa Andreani.» Mi bloccai. Era il documento relativo alla paziente senza identità, mancava qualche dato. «Dai, dammi.» Recuperò la biro dal cassetto e me la porse, smanettando sulla tastiera del computer. Mi piegai per scrivere il nome e cognome e un'altra fitta di dolore mi trafisse la testa. Feci fatica a mantenere la penna, mi cascò varie volte e, dopo molti sforzi, riuscii nel mio intento. «Serve altro?» Rispose di no, mi augurò la buona serata e mi allontanai in fretta e furia. Quando uscii fuori dalla struttura, era calata la sera, l'aria era più leggera e sull'asfalto si erano create delle piccole pozzanghere, segno che aveva piovuto da poco, e le calpestai per dirigermi all'auto. Durante il tragitto, lo chiamai però continuava a squillare a vuoto. «Dove sei finito, papà? Rispondi!» ringhiai.
«Cara.»
«Che hai fatto, papà!?» lo accusai senza dargli il tempo di concludere la frase.
«Che ho fatto, tesoro? Niente, sono qui seduto al ristorante.»
«Non cambiare discorso! Quella donna ha avuto due delicati interventi. Non sappiamo se riuscirà a sopravvivere.»
«Cosa stai dicendo, Federica? Quale donna? Di quale intervento parli?»
«Non fingere di non saperlo.»
«Giuro che non lo so, tesoro. Ho bevuto un po', mi stavo annoiando.»
«Ti annoi sempre, papà!» Urlai stritolando il volante. «L'hai picchiata e poi dopo l'hai spinta sotto un autobus.»
«Cosa?» Mi torturai il labbro inferiore per trattenere gli insulti che volevano sgusciare voa. «E' in coma? L'ho sbattuta fuori casa. Com'è finita in coma?»
«Dove sei? Sei al ristorante?»
«Sì, certo.»
«Aspettami lì e non muoverti.» Riattaccai la telefonata senza attendere una replica da parte sua. Le spiegazioni me le avrebbe date quando ci saremmo ritrovati faccia a faccia.
Quando arrivai a destinazione sostai dal lato opposto del marciapiede e ruotando il collo notai l'uomo che si era addormentato sul tavolo. Slacciai la cintura per poi aprire lo sportello e scesi. Lo osservai da lontano. Era il momento di regolare i conti di questa storia una volta per tutte. Non c'era più spazio per l'incertezza.
Giovanni
Riccardo aveva ripreso i sensi per fortuna e, per sincerarmi che stesse "bene", ero andato a fargli visita nella camera dove era stato trasferito. «Come te la passi? Va tutto bene?» domandai ma non mi guardò neppure in faccia, preferì fissare un punto nel vuoto.
«Parlami dell'intervento.»
«Intervento. Lo abbiamo eseguito con la dottoressa Rosalba. Il tuo braccio è stato ricucito perfettamente, però...» Abbassai gli occhi e sfiorai l'orologio che mi cingeva il polso. «I tessuti molli erano un po' danneggiati.»
«E che mi succederà?»
«Comincerai la riabilitazione tra due settimane. Durerà sei mesi. Se non darà buoni risultati, non potrai muovere il braccio e ti servirà un altro intervento. Ma farò tutto il possibile affinché la tua mano guarisca, okay? Fidati di me, Riccardo.» Avrei voluto confortare lui oltre me stesso.
«Si è già dimenticato che anch'io sono un medico.» parlò fra sé e sé. Nella stanza calò il gelo e restai a fissarlo senza aprir bocca. «Giovanni non parlarmi come a un paziente. Dimmelo senza girarci attorno.» Spostò gli occhi su di me. «Quante probabilità ci sono?»
Piegai la testa. Gli avrei dato un colpo sleale, era un mio amico e non avrei mai voluto distruggere quella speranza.
«Le probabilità... sono purtroppo... basse. Meno del dieci per cento.»
«Sono un chirurgo. Un chirurgo...»
Ecco, il successivo colpo di grazia.
«Anche se migliorerai, non potrai più impugnare il bisturi, amico. Mi dispiace.» Lo sentii tirare su con il naso, inspirando a fondo e tenni il capo incassato, seduto al suo capezzale.
«Lasciami solo.»
«Ok, ma posso restare fuori.»
«Giovanni. Esci.» Ordinò con tono monocorde, ma diretto. Non mi voleva lì, aveva bisogno di tempo per metabolizzare tutto e ero d'intralcio in quel momento.
«Ok, resto fuori allora. Se hai bisogno di qualcosa, chiama.» Mi alzai dallo sgabello.
Rispettai la sua scelta e abbandonai la stanza.
«Giovanni!» Ancor prima di mettere piede in corridoio, Tommy mi corse incontro trafelato. E non avevo la minima idea di cosa gli fosse preso. Lo aspettai alla soglia della porta del reparto. «Hai visto Federica in giro?»
Federica...
«Era andata a riposare. Perché?»
«L'ho cercata dappertutto, ma non l'ho trovata. Non c'è!»
Tirai un forte sospiro. «Federica... Che ha combinato stavolta?»
Tommy aveva tra le mani due fascicoli che mi mostrò. Erano esattamente identici, eccetto per un particolare. Nel primo, risalente a ieri mattina, una firma precisa e ordinata, mentre l'altra risalente a stasera era sgranata e storta. «Vedi una differenza tra le due?»
Effettivamente c'era una differenza abissale...
Sollevai gli occhi dai due fogli. «Sì, non è normale.»
«Non lo è. È una condizione rara. Hai visto anche tu che le mani le tremavano spesso durante l'operazione. L'ho cacciata fuori perché sembrava stanca e poco concentrata. Mi hanno detto i ragazzi che stamani aveva mal di testa e ha assunto analgesici.»
«Ha battuto la testa. Le ho curato la ferita e quando siamo arrivati le ho detto di fare una Tac. Lei mi ha detto che l'avrebbe fatta.»
«A me ha detto la stessa cosa.»
«Dobbiamo trovarla.» Presi il cellulare per comporre il numero della mora e pregai che non le succedesse nulla. Tommy mi incalzò di non perdere altro tempo, però la voce metallica della segreteria rispose al posto suo. Grugnii. «Accidenti, niente.»
«Prima, non dava alcun segnale.» mi informò.
Fissai il display. «Rispondi sempre quando sei con me e proprio ora non rispondi, Fede? Ti prego, rispondi!» Ci riprovai, altri squilli a vuoto e la linea cadde da sè, lasciandolo il posto alla stessa voce di prima. «Merda.»
«Fantastico...»
«Dobbiamo fare qualcosa. Vieni con me.»
Lo esortai a seguirmi ed entrambi corremmo più veloci del vento. Il cuore si agitò nel petto al pensiero che potesse trovarsi in pericolo, magari stava male e non poteva avvisare nessuno.
Alessia
Quell'incubo era finito e mia madre era fuori pericolo, nonostante il suo aspetto ancora irriconoscibile ma almeno era sopravvissuta all'operazione. Mi sedetti al suo capezzale dopo che l'infermiera aveva finito di mettere un altro lavaggio e afferrai la sua mano baciandole il dorso, chiedendole come stesse. Ma era impossibilitata a rispondermi a causa della maschera d'ossigeno e si limitò a socchiudere le palpebre contuse e violacee. «Ti riprenderai. Sarò qui con te e anche Fede. Ha persino assistito alla tua operazione. Tutti noi ti aiuteremo a guarire.» Allungai il braccio per accarezzare dolcemente la sua guancia, da sopra la benda. «Mamma... qualcuno ti ha spinta. Ci sono un paio di testimoni.» Fece per chiudere gli occhi e una lacrima rotolò sulla guancia. Mi avvicinai. «Mamma, chi ti ha fatto questo e perché?» Avevo un disperato bisogno di dare un volto a quel vile assassino.
«Tuo padre.»
«L'ho già chiamato. Non risponde, ma lo sa ed era molto preoccupato per te.» risposi asciugandomi le lacrime. «Avete avuto un brutto litigio, ma non importa. Ora stai bene. Lo chiamerò di nuovo.»
Feci per sollevarmi e mi afferrò il braccio con le poche forze che aveva. I suoi occhi stanchi mi fissarono dal basso. «Tuo padre...» Ripeté a bassa voce. Non capivo bene, poiché aveva difficoltà ad esprimersi e mi avvicinai con l'orecchio alle sue labbra. «È... stato lui.» Dichiarò e quella frase mi fece mancare il pavimento sotto i piedi. Mi sembrò di aver smesso di respirare, osservai mia madre con un misto di incredulità e perplessità, senza riuscire a muovere un muscolo. Non poteva essere. Andiamo, era uno scherzo. L'aveva schiaffeggiata e cacciata da casa nostra, erano volate parole grosse fra di loro ma arrivare al punto di ucciderla.
Sembrava un'assurdità a cui mi rifiutavo di credere.
Mi stesi accanto a lei, occupando una piccola porzione di letto e alzai il viso, vedendola che stava riposando. Tutto ciò che prima mi aveva confessato suonava mostruoso.
«Come ha potuto fare una cosa così? Come?» Sussurrai.
«Io... l'ho pregato di non farlo, ma lui non ha voluto ascoltarmi.»
Mi rivoltai a pancia in su, puntando gli occhi al soffitto, la rabbia mi infettò l'anima e le lacrime mi salirono agli occhi, scivolando sulle guance. «Ok, mamma, non continuare. Non avrei mai immaginato che arrivasse a tanto.» Mi tirai su di scatto. «La pagherà. Io non sono più sua figlia.» Non volevo avere a che fare con uno spietato assassino e non lo volevo neppure accanto a me o alla mia bambina. A quel punto, smontai dal letto velocemente, rimboccando il lenzuolo a mia madre e dopo essermi passata le mani sulla faccia, mi fiondai alla porta.
«Alessia!»
La voce di Tommy mi giunse alle spalle e mi costrinse a frenare il passo. Dovetti tornare indietro e raggiungere i due giovani.
«Alessia, hai visto tua sorella?» chiese Giovanni.
«No, però mi piacerebbe vederla.»
«Se non è con Alessia, dove diamine si sarà cacciata quella ragazza?»
«Vado a prenderla con la macchina, tu resta qua» continuò Giovanni e intanto mi estromisero dalla conversazione. «Mi presti la macchina?»
«Certo, tieni le chiavi. Potrei venire con te.»
«No, resta qui. Se torna, avvisami.»
«Ma sai dove potrebbe essere o dove puoi andare a cercarla? Roma non è piccola come pensi. È come cercare un ago in un pagliaio!»
«Certo che lo so!»
«Che succede? Perché siete così alterati?» Chiesi perplessa.
«Spiegaglielo tu.»
Il moro si allontanò all'istante, lasciandomi in compagnia di Tommaso, che osservò quella direzione con i tratti del viso tirati. Sembrava perennemente in ansia.
«Che sta succedendo?»
Mi voltò. «SVO. Deve essere stato causato dall'incidente di oggi.»
«Come? F-Federica... sta avendo un ictus?» Il moro abbassò gli occhi e capii che non si trattava di una presa per i fondelli. «Mi stai dicendo che potrebbe m-morire?»
«Se lo prendiamo in tempo, no. Ecco perché Giovanni deve fare di tutto per trovarla.»
«E che succederebbe se non ci riuscisse?» Ormai stavo per andare in panico, il cuore gonfio di angoscia mi salì sino in gola e si formò un nodo all'altezza dello stomaco.
«Non pensiamo al peggio. Giovanni ce la farà. La porterà qua sana.»
Gli occhi mi si inumidirono di colpo. Quella ferita superficiale non era nulla allora, il problema più grave era nel suo cervello e adesso era chissà dove!
Federica
Avanzai verso i tavolini a passo svelto e quando lo raggiunsi, alzò la testa e si raddrizzò con la schiena. Che schifo, aveva bevuto come uno scaricatore e guarda in che condizioni si era ridotto.
Era così patetico e imbecille.
«Federica... figliola.»
«Non osare alzarti!»
Alzai il palmo della mano per interrompere ogni suo movimento. Non mi diede retta e barcollò, reggendosi al bordo del tavolo. Era schifoso e disperato.
«Fede...»
«Voglio che tu me lo dica, guardandomi negli occhi.»
«Ti assicuro che non ho spinto nessuno. Non le ho fatto alcun male.»
«E non hai fatto del male neanche a me, papà? E neanche alla mamma, giusto? Ma lei è morta! Devi smetterla, basta.»
«È vero che ero arrabbiato dopo aver saputo tutte le cose che ha fatto alle mie spalle. Mi ha ingannato per anni, ha fatto cose orribili. Ero furioso.» tentò di spiegarsi.
«Non voglio sentire alcuna giustificazione uscire dalla tua bocca. Cosa le fai fatto?»
«L'ho colpita!» Esclamò riportando a galla dei vecchi, ma dolorosi ricordi. Quella volta, nel camion, quando mi aveva dato quel manrovescio, perché gli avevo sbattuto in faccia la verità e dopodiché mi aveva strattonato i capelli, costringendomi a ripararmi con le braccia il viso. L'avevo guardato sprezzante e lui aveva guardato me, senza il minimo senso di rimorso accusandomi di non essere una persona vuota di emozioni. «Vorrei essermi rotto la mano, almeno non mi guarderesti come se fossi un mostro!»
Un sorrisino mi spuntò, ma non era divertito. «Che altro hai fatto?»
«Giuro che non ho fatto altro.»
«Tranne, picchiarla a morte.» Sostenni i suoi occhi nocciola. «Sei esattamente il mostro di cui parli, papà.» Puntai l'indice contro il suo petto. «E un assassino che picchia a sangue, solo per sentirsi forte, ma non lo sei. Sei solo un essere crudele che attenta alla vita delle persone spingendoli sotto gli autobus!»
«No! Non l'ho fatto!» Obiettò, agguantò le mie mani e crollò in ginocchi. «Non ho fatto niente. Non sono stato io, te lo giuro, Federica! Te lo giuro su quello che ho di più caro, su di te, Alessia e la bambina.» Appoggiò la fronte sul dorso e rimasi impassibile a vederlo soffrire come un cane. «Ti prego, devi credermi!»
Fissai da un'altra parte.
«Alzati, coraggio.» Mi supplicò di crederlo piangendo. Lo presi per le spalle e aiutai a mettersi in piedi, guidandolo sulla sedia. Mi accomodai dalla parte opposta del tavolo e non osò sollevare il viso vergognandosi a morte. «Perché?» Esordii dopo un po'. «Perché sei così, papà?» Si girò a rallentatore e mi fissò di rimando. Da sempre mi ero fatta questa domanda, ma non avevo trovato risposta. Mio padre non era mai stato come gli altri genitori: non era gentile, né affettuoso. Era una bestia e provava gusto nel picchiare me e mia madre ogni volta che rincasava, dopo essersi ubriacato e aver passato il tempo nel letto di un'altra. «Perché non sei un buon padre? E non solo, anche come marito sei stato un totale fallimento. Pensi di essere invincibile.» Feci una pausa e lui si rintanò nel silenzio assoluto. «Ma non è così. Sei sempre stato abituato a ferire chi ti amava. Mai una volta che avessi detto a qualcuno ti voglio bene realmente.» Incassò la testa e, a causa delle lacrime, gli occhi mi si annebbiarono. Dovetti sbattere le ciglia e ritornò tutto nitido. «Tra tutti i padri che esistono, perché mi sei capitato proprio tu? Che peccato ho fatto? Ho visto mia madre morire di tristezza quando avevo sei anni, perché l'uomo che amava l'aveva abbandonata senza curarsi più di lei. Non avrei mai voluto ammetterlo, ma l'hai uccisa tu.» Si girò e annuii. «E stai cercando di fare lo stesso con Rebecca.»
«Non è vero, Federica!» Sbottò scattando dalla sedia e feci un passo indietro, rifiutando la sua presa.
«Non toccarmi!» Si allontanò, mantenendo le distanze. «Sai cos'è peggio? Ti ho quasi perdonato. Per un attimo, quel calore mi aveva fatto dimenticare tutte le cose spregevoli che hai fatto a mia madre.» Indietreggiai, ma restando incollata al suo sguardo addolorato. «Ma è un bene che tu me l'abbia ricordato. E sai cosa? Non sarò come la mamma.» Agitai l'indice. «Sposerò un uomo che mi rispetti, che mi ami e ami i nostri figli. Sposerò un uomo buono e gentile che non picchia la gente o la sua stessa moglie.»
«Io... ti amo moltissimo, figlia mia.»
«Smettila con queste cazzate! Non mentirmi. Tu non sei capace di amare nessuno!» Singhiozzò. «Sposerò un uomo che non mi mente e a cui i miei figli vorranno assomigliare. Ma tu non lo vedrai mai, perché non farai parte della mia vita.» Mi avvicinai, puntandogli il dito contro per puntualizzare. «Stai lontano da me. Non voglio più vedere la tua faccia.»
Feci per andare e mi sentii afferrare il braccio così mi scostai brutalmente continuando a camminare, ignorando le sue urla, i suoi lamenti, i suoi piagnistei. Arrivai alla macchina e vi salii senza esitare. Le sue suppliche non mi toccavano e accesi il motore per ripartire.
Tutta la tensione che era esplosa con quelle parole taglianti si stava pian piano spegnendo dentro di me. Da tutto il giorno avevo combattuto contro una stanchezza asfissiante e frequenti emicranie. Appoggiai la mano sulla fronte madida di sudore e la vista tornò a far i capricci. Strizzai le palpebre per rimettere a fuoco la strada che si era sfuocata e strinsi la radice del naso. Guardai il sedile affianco, il cellulare squillava a più non posso. Allungai il braccio prendendolo e sul display lampeggiava il nome di Giovanni. Ci misi un po' per far uscire un flebile. «P-pronto?»
«Fede, dove sei?»
«In macchina.»
«Stai guidando, ora?»
«Sì...»
«Ascoltami, accosta e ferma la macchina, ok?» Non domandai nemmeno il motivo di quella richiesta e la fermai su una strada provinciale deserta. «Ok, mi hai sentito?»
«Certo...» dissi flebilmente. Non sapevo nemmeno io cosa mi stesse capitando, forse era l'effetto degli antidolorifici, ne avevo assunti troppi per i miei classici standard e ora ero stordita. «Ascoltami.» Dal lato opposto ci fu silenzio e proseguii. «Perché aspettare, Gio?»
«A che ti riferisci, Federica?»
«E' così stupido aspettare.»
«Fede, non è il momento, ascoltami.»
«Va bene... ti ascolto.» Prolungai la vocale finale e cercai qualcosa nella borsa, scavando tra i vari oggetti. «Però prima devo mettere questo.» Tirai fuori l'anello della sua proposta di matrimonio da quel barattolino di pomata e me lo infilai all'anulare sinistro. Avrei dovuto farlo settimane fa, ma c'era stato sempre un qualcosa a bloccarmi. Non ero sicura di volermi impegnare con qualcuno, ma ora pensandoci meglio mi aveva dimostrato ogni giorno che il suo sentimento era reale. «Che senso ha aspettare? Voglio trascorrere il resto della mia vita con te.» Un'altra fitta mi colpì in quel momento e dovetti portare di nuovo la mano alla fronte, inspirando a fondo.
«Fede? Ehi, stai bene? Fede, mi senti? Rispondimi. Per favore, parlami!»
Quel dolore mi aveva tolto un attimo la lucidità.
«E-ehi, io... ehm...» Il dolore riprese forte, mi martellava le tempie e mi strofinai la fronte con il braccio. «P-pronto? G-Gio, senti io... h-ho bisogno di prendere aria, ok?»
«Fede, fermati! Non scendere dall'auto, ok?»
«Ok...»
«Capito? Non scendere!» ordinò tassativo. «Chiudi la portiera e abbassa il finestrino, ma resta seduta in macchina. Senti, tra un minuto sarò lì da te.»
Lasciai andare la cintura ed esalai un respiro. «Ok...»
«Sei stata da tuo padre, vero?»
«Già...» proferii con la bocca secca.
«Tra un minuto sarò lì da te, non preoccuparti. Per favore, ascoltami e non scendere, ok?»
«Pronto? Pronto?» Portai la mano sul ponte del naso e strizzai le palpebre. Non sentivo nulla, non c'era segnale in questa zona. «Gio... pronto, mi senti? Non ho linea.» Spalancai lo sportello nella speranza di riuscire a riprenderla facilmente e mi aggrappai con la mano alla carrozzeria, avanzando a piccoli passi. Mi bloccai un secondo, avvertendo una fitta lancinante alla testa, un'altra. Era come se mi stesse spaccando a metà il cervello. Rantolai. «Pronto? Pro... Gio...» Barcollai, curvandomi in avanti. Attorno a me non c'era anima viva, solo la luce di un lampione solitario che svettava su di me e illuminava quella porzione. Ero sola, in balia di quella sensazione terribile che stava sopraffacendo i miei sensi. Il cellulare mi scivolò schiantandosi al suolo e mi bloccai. La vista si era completamente appannata, le orecchie fischiavano rendendo i suoni ovattati e avvertii le ultime forze abbandonarmi. Mi sentii trascinare a fondo, persi l'equilibrio e il buio avvolse ogni cosa.
-fine capitolo quattordicesimo-
SBEM...
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