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Capitolo 1.1 - Una ragazza ribelle

Ci ho sempre creduto... nel destino. Ho sempre pensato che ognuno di noi ne avesse uno scritto da qualche parte, ma io non ho ancora capito quale sia il mio. Se il destino di due persone è stare insieme, le loro strade si incroceranno certamente. Sarà inevitabile. Anche se dovessero andare dall'altra parte del mondo per incontrarsi oppure per nascondersi e fuggire da loro stessi. Se è il destino, sono obbligati a rivedersi.

Non esiste una spiegazione logica.

Mi alzai dalla panca in uno spogliatoio immerso nella semi oscurità e mi avvicinai all'armadietto, aprendolo.
Tolsi la giacca di pelle e sfilai dal piede i tacchi, appoggiando la pianta a contatto con il pavimento. Indossai il camice, sistemai il badge sul petto e afferrai lo stetoscopio per metterlo attorno al collo. Era fondamentale non lasciare nulla al caso. Infilai le mani nelle tasche e con passo celere abbandonai la stanza.
Il cercapersone mi avvisò di una nuova emergenza e così mi affrettai a raggiungere l'ambulatorio. «Miseria, avevano bisogno di me.» Percorsi il lungo tratto, arrivando nell'atrio principale nel giro di poco.
Lì c'era un andirivieni ininterrotto di barelle, pazienti, colleghi, ma delle grida infernali attirarono la mia attenzione.
Un uomo stava seminando il panico nei presenti e stava sbraitando un po' troppo.
Se la prese con un ragazzo, gli domandò se fosse dottore, lui rispose di essere un tirocinante, allora lo spintonò via continuando a chiedere nervoso che venisse qualcuno.

«Questa gente presuntuosa non aveva rispetto nemmeno per il luogo in cui si trovava, pretendeva ogni cosa, come se gliela dovessero servire su un piatto d'argento e fosse un loro diritto.»

Un altro ragazzo sopraggiunse e domandò confuso che stesse accadendo e lo afferrò per il bavero, portandolo al cospetto di un uomo ferito alla testa.
Le mani mi fremettero quando alzò il braccio per colpirlo.
Glielo agguantai e si girò perplesso, trovandomi alle spalle.

«Sono io il medico, qual è il problema?»

Mi guardò dall'alto in basso. «Non voglio una donna.» Spinse via il malcapitato e aggiunse. «Voglio un medico uomo.»

«Sono l'unico dottore qui. Se non ti sta bene, puoi andartene. La porta è lì.» Gli indicai l'uscita con un cenno del mento e si liberò dalla mia presa con uno strattone.

«Una donna... Assolutamente no. Toglila dalla mia vista.» impartì il capo, gesticolando con la mano.

«Se fossi in te starei più attento con le parole. La ferita è profonda.» Lo guardai puntando l'indice. «Ti restano quindici minuti al massimo per chiedere un medico maschio che ti visiti. Puoi dissanguarti oppure farmi lavorare. È tua la scelta.»

«Guardami, ragazzina.» Mi intimò il tipo rude. «Non fare troppo la saccente, oppure—» Non terminò la frase che stava già allungando le mani sul mio petto, ma non mi colse impreparata. Gli feci roteare il polso e lo scaraventai contro il cartellone pubblicitario.
Guardai il resto della combriccola con sguardo carico di sfida e uno di loro, con i capelli racchiusi in un codino, mi accerchiò le spalle bisbigliando all'orecchio: "Vieni con me, carina". Gli storsi il braccio, spostandomi dietro fulmineamente, facendolo gemere per il dolore e poi lo spinsi via. Provarono ad attaccarmi in molti, ma finirono a terra, in un nano secondo.
Non risparmiai nessuno e li vidi che a stento riuscirono ad alzarsi. Avevano già smesso di fare gli spavaldi? Che peccato... Mi stavo divertendo.

Sospirai, guardandomi attorno. Molte persone si erano fermate ad assistere a quello spettacolo, compresi gli infermieri. «Non preoccupatevi, vi curerò tutti.»

Il tizio che mi aveva insultata prima si tirò su a fatica, mi lanciò un'occhiata di sbieco, e poi si scambiò uno sguardo col suo capo. Alzò le mani in segno di resa. «Ok, ok, tu sei il dottore, fermati.» Roteai gli occhi e mi stavo già incamminando dal paziente, quando mi afferrò il braccio. «Guardami — Puntò l'indice su di me — se quell'uomo muore, seppellirò tutta la tua famiglia sotto terra.»

Strattonai il braccio. «Abbiamo perso molto tempo.» Mi piegai per esaminare la ferita, muovendo delicatamente la testa dell'uomo, che a stento riusciva ad essere lucido dopo aver perso sangue. «Portatelo in sala d'osservazione.»

Mi rivolsi ai due infermieri prima di allontanarmi con la stessa velocità di prima.

Roma, ottobre 2012

«Andreani! Federica Andreani!» Seppure stesse urlando il mio nome non me ne curai, avevo il volume così alto che mi risuonava in testa, coprendo gli altri rumori esterni. Con gli occhi chiusi, completamente assorbita dalla musica, battevo il piede sinistro sul pavimento e tenevo la gamba stesa sul tavolinetto. «Ehi! Sto parlando con te! Togli il piede dal tavolo e sistemati i vestiti, la preside ti sta aspettando nel suo ufficio.»

Quando me lo spostò con poca grazia, riaprii gli occhi e lo guardai di rimando.

Quando mio padre mi aveva obbligato a iscrivermi in questa scuola — ch'era già la decima — lo avevo insultato in ogni lingua possibile. Gli dissi che avrei fatto di tutto per farmi espellere.

Quella strega dai capelli biondi, che stava lì alla scrivania, a guardarmi male e a urlare come una cornacchia mi dava l'orticaria. Si alzò dalla poltrona con impeto e mi strappò le cuffie dalle orecchie, gettando poi il lettore all'angolo della stanza.

«Non osare guardarmi con quella sfacciataggine. Sei di fronte alla tua preside.» Tornò poi ad accomodarsi e congiunse le mani, mentre abbassai gli occhi. «Non credo che arriverai da nessuna parte con quell'atteggiamento. Quante volte l'hai fatto? Se non fosse per la tua povera madre...»

«Quella donna non è mia madre.»

«Ingrata! Dopo tutto quello che ha fatto per crescerti, ma ovviamente non lo capisci.» Spostò gli occhi verso la porta e deglutii un fiotto di saliva. «Esci. Non darmi più ai nervi.» Ignorai il suo ordine, andando a raccogliere il lettore, sperando che non si fosse rotto e all'improvviso la donna tuonò. «Fuori!» Mi salì una tale rabbia che sfogai contro la sedia, assestandole un potente calcio, tanto da riuscire a ribaltarla. «Che hai fatto? È proprietà statale, rimettila dov'era!» Mi venne davanti e la guardai impassibile. «Ho detto "rimettila a posto". Non hai sentito?» Schioccai la lingua sotto il palato e alzò il braccio per darmi uno schiaffo. Le afferrai il polso a mezzo centimetro dalla mia faccia, guardandola dritto negli occhi. Non proferì parola, rendendosi conto della gravità del gesto che stava per commettere, e strattonò il braccio. «Sei espulsa e per sempre. Sei una ritardata e non arriverai mai da nessuna parte nella tua miserabile vita! Vattene da qui!» Sollevò il braccio. «Marcirai nella tua sporcizia.»

«E io le auguro una vita abbastanza lunga per annegare nella sua di sporcizia.» le risposi a tono per poi oltrepassarla.

«Dio punisca gli studenti maleducati come te! Sei senza vergogna!»

I suoi innumerevoli insulti mi scivolarono di dosso non appena varcai l'uscita, chiudendomi la porta dietro. Questo posto non faceva per me, prima me ne andavo e meglio sarebbe stato. Ecco che però un altro guaio si materializzò quando mi trovai dinanzi l'amorevole moglie di mio padre.

«Di nuovo? Ne ho abbastanza. Io ti difendo e tu riesci sempre a mettermi in imbarazzo. Sono diventata lo zimbello della città!»

Ripresi a camminare, lasciandola indietro, sistemando lo zaino. «Non ti ho mai chiesto di farlo.»

«Infatti non lo farò ancora. Questa è l'ultima volta. È finita. Anche se marcisci in prigione, non ti aiuterò più. Ne ho avuto abbastanza.» La cosa era reciproca, a quanto pare. Mi fermò di colpo. «Aspetta! Aspetta... — mi guardò con fare da rapace — Potrei raccontare a tutti un sacco di cose.»

Le rivolsi un sorriso beffardo e avvicinai «Be', e se parlo io, che succederà a te?» Sfiorai qualche ciocca bionda, osservando la sua espressione tramutarsi in sgomenta. «Ad esempio, potrei raccontare la storia di questi capelli. Sai, quello che hai fatto dal parrucchiere, nel salone.»

La donna non replicò. Sapeva che se a mio padre fosse giunta all'orecchio quella faccenda, l'avrebbe cacciata di casa seduta stante. Non si era mai reso conto di che razza di approfittatrice, subdola e possessiva, avesse sposato. Quella donna gli aveva annebbiato il raziocinio e ora pendeva delle sue labbra.

Uscii dall'istituto, senza avere quella strega alle calcagna, ma mi bloccai sul primo scalino alla vista di mio padre. Non intendevo litigare con lui, quindi accelerai il passo, ma mi sbarrò la strada.

«Basta così, sali in macchina.»

«Io vado a piedi.» Iniziai a camminare un'altra volta per raggiungere il cancello.

«Federica! Federica!» Mi corse dietro e si parò di fronte a me con sguardo furioso. «Non voltarmi di nuovo le spalle. Sono tuo padre! Portami rispetto!»

«Perché non ne parliamo a casa?»

Mi bloccò per il polso, impedendomi di fare altri passi. «Di cosa stai parlando? Quale casa? Tu non hai una casa. Ormai è finita. Te ne vai.»

«Dove sto andando?»

«Non fare storie e andiamo.» Mi tirò per il braccio e mi portò di peso verso l'auto parcheggiata. Aprì lo sportello, imprecando, e mi fece salire. «Non meriti di essere mia figlia. Sei un flagello divino.» Portai la mano alla fronte. Era da quando ero nata che mi faceva sentire uno scherzo della natura, probabilmente non mi aveva mai voluta e perfino la mia povera madre si era tolta la vita abbandonandomi. Ero una barzelletta vivente.
Dopo aver preso posto alla guida, accese il motore e mi portò via. Nel tragitto mi focalizzai sul panorama che c'era fuori dal finestrino e lo aprii per sentire un po' di venticello fresco sulla pelle. Lui lo richiuse e mi guardò in maniera torva, come un cane a cui veniva pestata la coda, ma io ero più testarda, e lo riaprii schiacciando il pulsante. Me lo richiuse per l'ennesima volta e poi sterzò bruscamente inchiodando il veicolo in mezzo alla strada.

Si voltò e alzò la mano, pronto a fare ciò che gli riusciva meglio.

«Non potevi picchiarmi a scuola, ma la voglia ti è rimasta, giusto?»

«Adesso ti chiudo la bocca io con un manrovescio!»

«Avanti, colpisci! Ma non fare come hai fatto con la mamma. Colpiscimi una sola volta e uccidimi!» lo sfidai.

Mi sferrò uno schiaffo, facendomi finire contro il sedile, mentre tenevo le braccia incrociate come uno scudo per proteggermi. «Che diavolo ho fatto a tua madre?» Riprese poi a darmi altri schiaffi, ripetendo quella frase come un disco rotto. «Cos'ho fatto a tua madre?!» Poi mi afferrò per i capelli, tenendomi il viso ben sollevato affinché lo guardassi, urlandomi. «Guardami, cos'ho fatto? Cos'ho fatto a tua madre? Dimmelo, cosa le ho fatto?» Mi strinse il polso, facendomi male, e sfogò la sua collera con altri pugni e schiaffi. Si placò dopo un po' e guardai quell'uomo, attraverso i capelli che mi erano finiti davanti agli occhi. Cosa ci guadagnava ad essere così violento? «A chi assomigli? Eh? Guardati!» mi indicò con la stessa mano con cui mi aveva picchiato. «Non hai versato nemmeno una lacrima!»

«Non solo mia madre... hai lacerato la mia anima.» Risposi e senza più dargli retta, mi rifugiai in ciò che mi faceva stare meglio in quel periodo: la musica. Quando tutto crollava, mi sosteneva, ed eliminava i brutti pensieri (io ne avevo fin troppi, nel cervello). Tornai ad ascoltare il brano dei Cranberries, mi sentivo uno "zombie" anch'io, Dio era la verità, un essere privo di qualsiasi emozione. Il viaggio continuò in silenzio da parte mia, ma colmato dalle parolacce di mio padre. La sera calò. Stavo quasi per appisolarmi quando fermò la vettura. Non ero sicura di dove ci trovassimo, anche se il posto mi era familiare. Scaricò il borsone sul marciapiede ebmi fece scendere dall'auto rude. Notai l'insegna della pensione che rischiarava la zona, altrimenti l'oscurità avrebbe avvolto totalmente il luogo.

«Siamo venuti dalla nonna?» Mio padre si limitò a guardarmi con la stessa faccia da cane bastonato. «Cosa faccio in questo posto? Non mi piace qui.»

«È un problema tuo, ho smesso di sopportare i tuoi capricci.»

«Quella donna ti ha obbligato, giusto? Mi ha mandato via.»

«Bada a come parli! Lei ti ha sempre trattato come una figlia.»

«Quella donna è priva di moralità! Non è mia madre e non lo sarà mai!» gridai con tutta la rabbia.

«Basta così. Smettila di calunniarla. Visto che non hai mai capito gli sforzi che ho fatto, ora lo imparerai.» Restai immobile con un nodo alla gola a fissarlo mentre risaliva sulla vettura. Prese una busta dal cruscotto, ci diede una breve occhiata e poi me la lanciò contro. Essa finì sull'asfalto, ai miei piedi. «Non chiamarmi più. Non hai più un padre.» La raccolsi e guardai il contenuto, c'erano dei soldi. Cos'era? Compassione per una figlia che aveva appena abbandonato? Che dovevo farmene della sua elemosina? Ingranò la marcia e ripartì. Mi voltò le spalle, mi schiacciò il cuore e lo ridusse in mille pezzi.

«È così? Ti sei voluto ripulire la coscienza? Farabutto!» Gettai all'aria la busta. «Che padre saresti eh?!» tuonai in preda al nervosismo. «Non voglio più vedere la tua faccia e non mi occuperò di te quando sarai solo e vecchio!» Tolsi lo zaino dalle spalle e lo scaraventai a terra, avvertendo le lacrime pizzicare gli occhi. Non avrei dovuto piangere, non per quell'essere ripugnante. «Sono tua figlia, non puoi buttarmi per strada in questo modo!» Cedetti alla tristezza e iniziai a piangere. Se fossi morta, mi sarebbe stato di consolazione. Avrei smesso di essere un peso. Non ero utile a nessuno. Non sapevo cosa ne sarebbe stato di me, d'ora in poi. Le ginocchia mi cedettero al suolo e mi accasciai. Mi coprii il viso con la mano, singhiozzando. «Mamma...» Piansi a dirotto, lasciai che la frustrazione mi travolgesse come un fiume in piena. Ero da sola. «Ti prego, non voglio vivere. Portami con te...»

Anni fa, avevo perso mia madre. La mia matrigna aveva solo fatto la figura della buona samaritana e la mia vita non poteva essere più devastante di così. Ero io l'orfana, la cattiva, la ribelle. Io, che non meritavo l'affetto di nessuno.

«Che fai lì?» Una voce infranse il silenzio e alzai a malapena gli occhi, passandomi la manica della divisa sulla guancia. «Non starai mica piangendo?»

«Perché dovrei?» chiesi con la voce rotta dai singhiozzi.

«E tuo padre?»

«Se n'è andato, la vecchiaia ti ha abbassato la vista?»

Mi rimisi in piedi, recuperando il mio zaino e ricostruendo l'orgoglio, dando le spalle a mia nonna, che andò nel frattempo a raccogliere la busta.
«Che figlio ingrato. Viene fin qui e non saluta nemmeno la madre. Che uomo di merda.» 

Si avvicinò e con fare gentile mi invitò a rientrare. Lei abitava da queste parti da che avevo memoria e aveva sempre gestito questa pensione con cui riusciva a fare fronte alle spese quotidiane. Con mio padre non aveva un rapporto idilliaco, odiava la donna che aveva sposato e, a suo tempo, odiò mia madre. Diceva che mio padre era un cialtrone, che si era lasciato sempre comandare e non mostrava fegato. Aveva più che ragione perché era il burattino di quella serpe. Mi mostrò la camera dove avremmo dormito e preparò la cena.

«Quel farabutto di mio figlio non avrebbe dovuto fare una cosa simile. Non si abbandona un cane, figurarsi il proprio figlio!» Stavo letteralmente divorando il piatto di pasta che mi aveva posto davanti. «Piano Fe, o va a finire che te strozzi. Mica te lo porta via qualcuno?» Riempì il bicchiere d'acqua e l'appoggiò sul tavolo. «Dimmi un po'... hai picchiato di nuovo qualcuno a scuola?»

«Non ho picchiato nessuno. Ho avuto il foglio di congedo, sono così intelligente da non aver bisogno della scuola.»

«Ascoltami bene. Questo è un posto piccolo. Farai bene a stare attenta alle cose che dici...»

«O cosa? Mi sbatti fuori anche tu?»

«Ma ti ascolti quando parli! Che sarei io, una senza scrupoli?»

«Non mi sorprenderebbe. Sono abituata ad essere cacciata.»

«Non dire così. Tu rimarrai qui, e andrai a scuola.»

«Mi obbligherai?»

«Se necessario, ti prenderò anche a bastonate.» Distolsi lo sguardo, sbocconcellando una fetta di pane e curvò le labbra in un sorriso radioso. «Forse troverai un buon insegnante, sai?»

«Nonna, mi dispiace distruggere i tuoi sogni, ma sono una studentessa autodidatta da più dieci anni.» Feci una pausa per mandare giù il boccone. «Non esiste l'insegnante perfetto.»
Quel sorriso però non abbandonò la sua faccia. Lo avrei capito, a mie spese. Ma il mio unico pensiero in quel frangente, oltre a rinfocillarmi, era buttarmi a letto e farmi una bella dormita.

[...]

Quando dicono la frase "il buongiorno si vede dal mattino", è una grandissima balla.

«Buongiorno, mia cara!» Prolungò la "a" finale e si fiondò ad aprire la finestra per far entrare un po' di luce diurna. Ma chi glielo aveva chiesto? Presi a girarmi e mi buttai il lenzuolo in faccia. «Federica! Ma guardala!» Mi tolse il lenzuolo di dosso e mi scoprì il busto. «Dai, farai tardi a scuola il tuo primo giorno. Alzati!»

Ma davvero credeva che l'avrei assecondata? La nonna non mi aveva conosciuta abbastanza nelle poche occasioni in cui avevo frequentato questo posto. Avrebbe dovuto arrendersi, la nipote non avrebbe studiato, e punto.
La decisione dopotutto l'avevo presa quando mi era stato detto che non avrei combinato niente di buono. Che poi di quelle opinioni altamente intelligenti della megera non me ne fregava.

Spalancai gli occhi e la vidi cercare qualcosa nell'armadio con una gruccia fra le mani.

«Dove vai?»

«A scuola.» Sbuffai come una locomotiva in partenza e riposizionai il lenzuolo sulla faccia. Mia nonna me lo levò. «Forza, alzati!»

Aveva proprio deciso di giocarsi l'ultimo briciolo di pazienza che mi era rimasta... ma alla fine mi alzai per non dovermi sorbire la sua predica. Indossai qualcosa di sportivo, una maglietta verde militare e un pantalone, erano sufficienti. La nonna mi chiamò da fuori, ricordandomi per l'ennesima volta che sarei arrivata in ritardo per l'appello dell'insegnante.

La raggiunsi nel giardino retrostante all'abitazione, sbattendo le braccia contro i fianchi e aggrottai la fronte, vedendo che si era agghindata.

«Ti ho detto che ci vado da sola. Vuoi mettermi in imbarazzo?»

«Ah, che testa dura!»

«Chi sarebbe la testa dura?»

Mi fissò senza dire niente, riflettendo sul da farsi e poi infilò dei barattoli di vetro in una borsa. «Va bene, saluta il preside da parte mia e portagli questo miele che ho raccolto per lui. Ah, un'altra cosa, qui vicino c'è un negozio, compra lì la divisa.» Sinceramente non mi importava e misi la borsa sulla spalla a mo' di sacco, mentre la nonna mi urlava di stare attenta a non rompere i vasetti. Lungo il tragitto, li gettai nel primo cassonetto della spazzatura che mi capitò a tiro, e proseguii. Presi una direzione diversa e arrivai nei pressi del mercato, cominciando a sbirciare tra le varie bancarelle. Mi provai un anello che non valeva neanche un centesimo del suo valore, e poi passai a quello dei vinili. Ce n'erano di diversi, anche molto antichi, e approfittando della distrazione della commessa ch'era stata chiamata da un ragazzo, decisi di arraffare l'oggetto. 
Con la punta delle dita sulla confezione, aspettai il momento giusto e quando fui certa di passare inosservata a tutti, lo trafugaiUn sorriso soddisfatto mi aleggiò sulla bocca, ma mentre mi allontanavo, un uomo mi  agguantò il polso.

«Aspetta, dove vai?»

«Che fai? Lasciami in pace!»

Mollò la presa. «Non ti vergogni di rubare?»

«Ma che dici!»

«Apri lo zaino e te lo dimostrerò.» Tentò di strapparmelo e, nonostante la mia resistenza serrata, alla fine riuscì nell'intento, lo appoggiò a terra e ci infilò le sue manacce dentro. Quando non trovò la prova che cercava, alzò lo sguardo e si rimise in piedi. «Dove l'hai nascosto? Avanti! Tiralo fuori!» Provò a toccarmi, ma scansai quel contatto disgustata.

«Sei un pervertito o che?»

«Ti ho visto rubarlo.» 

«Ho già detto che non ho rubato nulla. Non l'ho rubato. Chiama pure la polizia. Andiamo!»
Mi piegai per raccogliere lo zaino e qualcuno s'intromise nella discussione.

«Scusi? Che sta succedendo qui?» 

«Questa ragazza ha rubato un CD.» insistè quel tizio orticante.

«Le ho detto che non ho rubato. Non mi ha sentito?»

«Lei dice di no.» Il nuovo arrivato mi difese e lo guardai di sfuggita. Era un giovane con dei baffi che gli conferivano un'aria adulta e mi stava aiutando anche se non gliel'avevo chiesto.

«Sembra che tu non conosca i ragazzini di oggi.» sentenziò.

«Li conosco bene, signore, ci lavoro con loro. Sono un insegnante.»

«Allora saprai bene cosa sta per dire ora. "Perdonatemi. Sono una studentessa. L'ho fatto perché non avevo soldi".»

«Non sono una studentessa!» ringhiai a un palmo dalla sua faccia. «Mi stai calunniando. Ho intenzione di riferire alla polizia quello ch'è successo. Dovresti vergognarti, denigrare una povera ragazza innocente. Vergogna!» Sventolai la mano e mi allontanai. Avevo recitato bene la parte dell'innocente, ci erano cascati in pieno quei due. Una volta distante, alzai il bordo della maglietta larga e tirai fuori il CD per metterlo nello zaino.

Ad un certo punto, qualcuno applaudì, e mi voltai trovandomi il tizio bassino di poco fa.

«Molto bene. Ce l'hai fatta. Sei contenta?»

«Cosa?»

«Rubi, manipoli le persone a tuo piacimento e metti nei guai quelli che credono in te.»

«Scusa?»

Non capivo dove volesse andare a parare con quella premessa...

«Ti ho difeso perché pensavo fossi una studentessa, non capisci?» sottolineò il concetto, alzando il tono della voce.

«Sei matto? Non so cosa ti abbia fatto pensare che io sia una studentessa.»

«Pensi di essere brava a mentire, ma la tua faccia ti tradisce.»

«Va bene. Non capisco perché ti importi tanto!»

Provai a scansarmi, ma fece un altro piccolo passo. «Chi lo sa?»

«Chi lo sa?» ripetei facendogli il verso. Mi osservò con un sorriso smagliante stampato sulle labbra. «Ci stai provando con me?»

Rise, abbassando la testa e avanzò. «Andiamo... io ho fatto il primo passo. Sei intelligente ed è una cosa che mi piace molto.»

«Faresti meglio ad andartene. Lasciami in pace.»

«Sai una cosa?» continuò lui, ignorando quanto gli avessi detto sul lasciarmi in pace. «Non mi piace questa storia della polizia, non sono il tipo che fa’ la spia, ma in questo caso per te posso venir meno ai miei principi oggi.»

«Va' dove ti pare! Non hai prove. Ne ho abbastanza. Smettila di intrometterti nei miei affari!»

 «Apri lo zaino.» Lo tirò verso di , ma lottai per la seconda volta consecutiva, urlandogli di lasciarlo altrimenti gliela avrei fatta pagare cara. Quel ragazzo bassino era ostinato e non mi lasciò altra scelta che affondare un potente calcio dritto nel suo stomaco, facendolo cadere a terra. Si appoggiò la mano in quel punto, emettendo qualche gemito, facendo fatica a respirare. La prossima volta ci avrebbe pensato mille volte prima di infastidirmi.

«Mi hai colpito.» biascicò ruotando il capo nella mia direzione.

«Ti avevo avvisato di lasciarmi in pace.»

«Già, è vero. Avrei dovuto ascoltarti...» bofonchiò. Si rimise in piedi con difficoltà e sistemò anche il monospalla sul busto. «Ti rendi conto di quello che hai fatto?» Inarcai il sopracciglio, confusa. «Sei riuscita ad abbattere un uomo con un solo calcio!» Sbattei le ciglia. «Senti, tempo fa ho fatto una promessa a me stesso. Se avessi incontrato una donna più forte di me, non l'avrei lasciata andare.» Mi prese la mano e la strinse. «Vuoi uscire con me? Esci con me, ti prego.»

No. No. No. Ma che era impazzito?!

«Cosa stai facendo?»

Mi agitai, cercando di liberarmi. Gli avevo dato quel calcio allo stomaco, non alla testa. Gli era andato fuori posto il cervello?

«Non faccio nulla. Ti sto solo chiedendo un appuntamento.»

«Sei un maniaco o cosa? Che stai facendo?»

«Guarda lì... c'è un bar. Andiamo a prendere un caffè, ci conosceremo meglio. Forse nascerebbe qualcosa tra noi. Non sei una studentessa, quindi non c'è niente di male.» 

Non sentì i miei no categorici e mi accerchiò le spalle, allora passai alle manieri forti e gli sporsi il braccio, bloccandolo dietro la sua schiena.

«Sono una studentessa. Sei solo un pervertito!»

Si liberò con una rapida giravolta e mi osservò con aria vittoriosa. «La signorina ha confessato.» Lo fissai a bocca aperta. Il nano malefico mi aveva ingannato. «Ammetti di aver rubato il CD e facciamola finita il prima possibile. Non farmi più perdere tempo.»

Rimisi lo zaino sulla spalla e gli sorrisi. «Nei tuoi sogni, bello.»

Il giovane tirò un sospiro, facendo schioccare la lingua e poi guardò altrove. «Guarda, non abbiamo dovuto aspettare molto.» probabilmente il CD era caduto dallo zaino a causa della colluttazione. «O ti porterò alla polizia o restuisci il cd a quell'uomo prima che ti denunci lui?» Effettivamente non avevo chissà quanta scelta e acconsentii con un cenno d'assenso. «Bene, è la cosa giusta da fare. Va' a prenderlo.»

In quel momento, l'autobus passò da quelle parti, forse la fortuna mi stava sorridendo, e approfittando che il ragazzo si fosse distratto un attimo, scappai. Prima di andarmene, gli tirai il dischetto con un destro. «Tieni, te lo regalo!» esclamai per poi salire sul mezzo, prima che ripartisse. «Chissà... ne avrai bisogno comunque.» Lo salutai sventolando la manina sporta dal finestrino, prima che la sua faccia confusa sparisse dal mio campo visivo.

[...]

Il bus si fermò e ne approfittai per fare una sosta. Ero stata in giro tutto il giorno quindi mi serviva una rinfrescata. Quando aprii la porta del bagno pubblico, le tre tipe che accerchiavano una quarta smisero di parlare e concentrarono i loro sguardi taglienti su di me. La ragazzina dai lunghi capelli castani mi osservò, come se volesse lanciarmi una richiesta silenziosa di aiuto.

«Che stai facendo?» chiesi restando sulla soglia.

«Giochiamo al gatto col topo, ti unisci a noi, bella?» rispose una biondina con la frangetta e l'aria da spaccona. Le ignorai e mi diressi vicino al lavabo.
Il gruppetto intanto riprese a sghignazzare, a prendere in giro quella ragazzina sul fatto che stesse piangendo per un portafoglio, lei le stava supplicava, era un regalo della madre e ci teneva molto. Tenni d'occhio la scena a pochi passi da me, mentre aprivo la manopola dell'acqua, che iniziò a scorrere nel tubo dello scarico.

«Datele il portafoglio.»

Le tre si zittirono ancora e stavolta fu la mora a parlare.
«Come desidera lei, sua Maestà.»

«Ridaglielo e vattene da qui.» 

«E se non lo volessimo fare?»

Strappai la carta dal contenitore, per poi girarmi totalmente verso la biondina. «Non vuoi saperlo.» In risposta si avvicinò e mi diede una leggera spinta. A quel punto, le tirai un ceffone e crollò sul pavimento. Le compagne intervennero all'istante. La mora mi trascinò vicino al muro per i capelli e le assestai una ginocchiata. Feci cadere anche colei che voleva attaccarmi alle spalle e, infine, restarono tutte a terra, doloranti. Le fulminai con uno sguardo e senza dire una parola, presero le loro cose e sgattaiolarono via. Solo la ragazzina gracilina era rimasta, in disparte, a osservarmi aggrappata al bordo del lavabo. Mi piegai per raccogliere il portafoglio con sopra l'immagine di un unicorno... e dato che avevo lavorato sodo, le spillai dei soldi. In fondo avevo perso del tempo a combattere con quelle tipe. Glielo lanciai e lo afferrò al volo. «È un compenso per i miei servizi. Non lavoro gratis.»

Mi voltai di nuovo verso lo specchio, sistemai la frangetta, per poi andarmene. Stavo camminando per conto mio, quando una vocina sottile mi giunse da dietro.

«Ehi, aspetta, aspetta!» La ragazzina a quanto pare si era ripresa dallo spavento, e mi porse altre banconote. Guardai la castana e poi quest'ultime.

«Perché?»

«Mi hai salvato, meriti molto di più di questo!»

«Mi stai dando altri soldi per lavorare per te?»

«No... cioè, non è per questo —»
Il sorriso le si affievolì sulle labbra sottili.

«Allora perché? Ti sei innamorata di me?» Ripresi a camminare, ma quella non gettò la spugna, al contrario mi seguì e si affianco. «Senti, ti ho aiutato, ma sto iniziando a pentirmene. Non starmi appiccicata come una chewing-gum!»

«Come ti chiami?»

«Oh, no... ci mancava questa.» bisbigliai roteando gli occhi.

Pulì la mano sul vestito e me l'allungò. «Sono Angelina. Però puoi chiamarmi Nina.»

Trattenni uno sbuffo di esasperazione e puntai l'indice. «Ti avverto, non fare un altro passo.» La guardai di traverso, per incutere soggezione. «Federica. Ora sparisci.»

«Federica? Un nome bellissimo, ma preferisco Xena! È la guerriera più forte. Tu me la ricordi tantissimo! Ho sempre desiderato una migliore amica come te! Forte, coraggiosa, che non avesse paura di menare qualcuno!» Mi fece esalare un altro sospiro con quel suo straparlare, e chiarendo il concetto, non volevo esserle amica. Me la lasciai indietro nella speranza che non mi seguisse come un cagnolino.
Dopo ciò che aveva visto pensavo che mi avrebbe tenuta a debita distanza, come minimo. Dopotutto, chi avrebbe potuto frequentare un soggetto a cui piaceva picchiare il prossimo? Non avevo nulla di positivo e non ero una buona compagnia specie per una signorina di buona famiglia. Proseguii, ma qualcosa calamitò la mia attenzione e tornai indietro a passo di gambero, puntando gli occhi sul manichino esposto in vetrina.
Era favoloso: un pantalone con le borchie argentate e abbinata una maglie con un'unica manica.
Con i soldi sottratti a quella ragazza e quelli della nonna, potevo permettermi il lusso di acquistarlo. Non ci pensai più su e decisi di entrare.

[...]

Roteai gli occhi infastidita, quando un tizio con l'aria da sexy macho e i capelli ricci, mi bloccò tra il muro e il suo corpo, impedendomi di passare per entrare nella discoteca.

«Lo ripeto per l'ultima volta, Nicolò. Non esco con i ragazzini delle superiori.»

«Sarò chiunque tu voglia bambolina. Nessun problema.» Mi provocò, accennando un ghigno.

«La tua esistenza è il problema.»

Quel sorriso si allargò di più e provò ad avvicinare la mano per sfiorarmi il viso, ma gli afferrai saldamente il polso.

«Quindi siamo aggressive.»

«Provaci un'altra volta e ti spezzo le ossa.»

«Bene, spezzamele tutte.» Stavolta fu lui a stritolarmi il polso, braccando la mano al muro per impedirmi di muovermi. Si passò la lingua sugli incisivi e poi mi osservò la bocca. «Ma prima dammi un bacio...» Lentamente provò ad avvicinarsi, con il desiderio che gli accendeva le pupille scure, ma gli diedi una testata dritta sul naso. Dovette arretrare, gemendo per il dolore, e finalmente riuscii a passare.

«Ti avevo avvertito.»

Nonostante gli avessi provocato presumibilmente una rottura del setto nasale, trovò il modo di raggiungermi e fermarmi, ma arrivò un suo amico alticcio che gli si buttò addosso, e fui finalmente libera. Quel posto pullulava di ragazzi e di ragazze e quelle tizie che mi stavano venendo incontro, erano familiari, lo erano pure troppo. Roteai gli occhi. Il mondo era così piccolo.

«Ancora tu?» Sorrisi alla mora che portava i segni del nostro precedente scontro in bagno. «Che stavi facendo prima con Nicolò?»

Gettai un'occhiata verso il fondo della discoteca, vedendolo che mi fissava con insistenza, nonostante avesse l'amico fra le braccia. 

Sollevai le sopracciglia e sospirai. «Non voglio problemi.»

La ragazza mi spinse all'indietro quando tentai di superarle. «Ma io sì! Abbiamo un conto da regolare io e te.»

Le guardai, una per una, facendo precipitare lo zaino a terra.
"Che volevano? Un'altra rissa."
Forse non sapevano che quello era il mio pane quotidiano, me ne cibavo fin da quando ero molto piccola, non rifiutavo mai un incontro di boxe, quindi le avrei accontentate...






Giovanni

Avevo trovato un posto perfetto dove soggiornare e la proprietaria era anche molto gentile e accondiscendente, mi aveva affittato una camera al primo piano. Non era distante dal liceo in cui stavo lavorando come consulente d'orientamento, anche se la paga non era alta e non potevo permettermi un appartamento in centro città. Ero tornato da poco dalle lezioni, quando vidi la proprietaria voltata di spalle e con la schiena curva all'entrata. 

Le era successo qualcosa? Come mai era fuori a un'ora tarda?

«Signora Elena? Sta bene?» la chiamai, avvicinandomi.

Sentendomi, si girò a rallentatore  e mi mostrò la sua faccia. Era pallida. «Sto bene, sto bene. È bello vederti, figliolo.»

«Che succede? Mi sta spaventando.»

«Mia nipote è andata a iscriversi al liceo. È passata un'ora e non è tornata.»

Guardai l'orologio sul mio polso. «Non si preoccupi, arriverà presto.»


«Portami alla stazione di polizia.» mi supplicò con gli occhi lucidi.

«Alla stazione di polizia?»

La poverina annuì. «Vado a prendere subito la borsa e poi ce ne andiamo.» Stavamo per entrare dentro, quando il rombo di una moto ci fece fermare. La vidi arrivare, il ragazzino accostò e la ragazza si aggrappò alle sue spalle per smontare dal mezzo. Gli sussurrò di andare e lui le fece un cenno di aver capito, prima di ripartire a tutto spiano. La ragazza poi, — una mia vecchia conoscenza — si accarezzò distrattamente il lobo dell'orecchio e salutò.

«Dove sei stata finora? Da dove vieni? Cosa sono questi vestiti?» la sgridò la signora Elena, seccata.

«Perché sei per strada? Dove stai andando a quest'ora?»

«Che pensi? Alla stazione di polizia per cercarti! Non sapevo dove fossi finita!»

«Ti stancherai se lo fai ogni notte.»

«Guarda cosa stai facendo il primo giorno davanti al tuo professore! Che vergogna!» Finora me ne ero rimasto in disparte, poi spuntai alle spalle della donna e appena mi riconobbe sgranò le iridi marroni e sbiancò. Non mi sarei mai aspettato un secondo incontro così presto...

«Questo non è nulla in confronto a quello che ha fatto oggi. Avreste dovuto vederla rubare.»

La signora Elena voltò il capo nella mia direzione, sconvolta. «Che cosa?! "Rubare"?» Annuii. «Che dici, giovanotto?»

«Non si preoccupi, non è successo niente. Ha fatto credere a tutti di non averlo fatto.»

«Ah, no... mia nipote non farebbe mai una cosa simile.» La ragazza scrollò le spalle, con finta aria angelica. «Che tipo di insegnante è? Calunnia mia nipote senza prove!» Alzai gli occhi al cielo. Povera donna, troppo convinta dalla buona fede di quella ragazza. «No. È mia nipote. Non farebbe mai una cosa del genere!»

«Se continua a negare il problema che ha sua nipote, rischia solo di danneggiarla e va contro la sua educazione.»

«E oltre questo, dice anche che lo nega. Mia nipote è incapace di rubare!» Spostai gli occhi sulla diretta interessata che teneva gli occhi abbassati e non apriva bocca. Sapeva che avevo ragione io. «Ah. Ora ho capito... Ha cattive abitudini.» la fissai interdetto e schiusi le labbra. «Ora capisco perché è ancora single alla sua età. Con questa mentalità, non credo che si sposerà mai.» Spalancai la bocca per lo stupore, spostando gli occhi sulla brunetta, che stava sogghignando. Dalla ragione ero passato al torto.

«Come ha portato l'argomento sul mio matrimonio?» Chiesi spostandomi accanto alla brunetta.

«Porto l'argomento dove voglio. Che ti importa!?» Poi si rivolse alla nipote. «Andiamo, entra!» La brunetta ubbidì. Non ci potevo credere. Mi passò accanto e mi rifilò un'occhiata vittoriosa.
La donna mi aveva fatto una lavata di capo in piena regola. Pazzesco. Mi decisi a rientrare.




Federica

Ma chi era quel tipo? Perché me l'ero ritrovato anche qui? Porca miseria, non me ne andava bene una!

«Sarà mai possibile! Che vergogna, santo cielo!» sbraitò la nonna, entrando nel salotto.

«Chi è quell'uomo?» la seguii a ruota, assottigliando le palpebre in due fessure.

«Un inquilino.» poi riprese il discorso precedente. «E tu, dove stai stata finora?»

«Sono stata in giro.»

«Cosa sono questi vestiti? Dov'è la tua uniforme?»

Osservai il mio aspetto, in fondo non era tanto male, ma la nonna doveva sempre sindacare.

«Non l'ho comprata e non lo farò perché non tornerò mai a scuola.»

«Quindi non andrai? E che farai senza studi?»

Serviva a qualcosa studiare?

«Pulirò i bagni degli hotel come fai tu.» ipotizzai.

«Pensi che sia facile, eh?»

«Poi venderò il mio corpo.»

La nonna si rabbuiò all'istante e mi mollò una sberla violenta in faccia, girandomela dall'altra parte. «Sei senza vergogna.» Mi toccai la guancia e tornai a fissarla. «Non ti ho portato qui per questo.»


«Smettila di dire stronzate. Mi hai accolto, perché quel bastardo di tuo figlio mi ha messo davanti alla tua porta!» le urlai contro.

«Non sai niente.» replicò. «Ti ho voluto accanto a me, capisci? IO!» si indicò tremando di rabbia. «Per salvarti la vita e non farti fare una fine indegna!»

«Stai mentendo.»

«Cosa ti devo? Mhm? Tua madre... quell'idiota, ha rovinato la sua vita per quella nullità di mio figlio. E non voglio che tu faccia la sua stessa fine.»

«Non parlare così di mia madre.» Replicai incazzata.

«Non perdonerò, né tua madre né tuo padre fino all'ultimo giorno che mi resterà, per quello che ti hanno fatto. Ma...» Osservai i suoi occhi iniettati di collera. «Se vuoi toglierti la vita, fai pure.»

Una lacrima mi solcò il viso, percorrendo la guancia.
«Va bene, ma non interferirai più nella mia vita. Mi hai sentito? Non lo farai e non permetterò a nessuno di farlo!» Alzai il tono di un'ottava irritata, stringendo i pugni, e me ne andai per smaltire la rabbia. Uscendo però impattai contro il ragazzo di prima.

«Guarda dove cammini, idiota!» lo rimproverai.

«Sei tu che sei arrivata correndo e senza guardare! Non è colpa mia.» mi fece notare.

Alzai gli occhi al cielo. «Signore, dammi la pazienza...»

«Hai un carattere molto forte, lo sapevi?»

«Almeno ho carattere. E non affronto una sessantenne dicendole che la nipote è una ladra schifosa.»

«Non ho detto nulla che non sia vero.»

«Resta fuori dalla mia vita. Non sono una tua studentessa. Stai indietro!» ringhiai. Cercai di spintonarlo ma si spostò.

«Ops... Non si ripeterà ancora. Quello che hai fatto oggi è bastato.»

«Oh, l'insegnante mi sta minacciando...»

«Che tipo di ragazza sei?»

«Esattamente questo tipo. E se non ti piaccio, non farmi sposare tuo figlio, zio

Gli diedi le spalle e lo sentii ripetere. «Zio... Mi fa male. È un colpo basso.»

Mi girai di rimando. «Da piccolo sicuramente eri insopportabile, oh, quanto compatisco tua madre.»

Mi osservò sbattendo le ciglia, con la testa inclinata da un lato.
«Non compatire mia madre. Ora è in un posto migliore.»

Detto questo, mi diede le spalle, salendo le scale e realizzai di aver esagerato, probabilmente avevo toccato un tasto dolente. Accidenti, avevo utilizzato parole troppo pesanti, ma quel tipo mi aveva infastidito, se l'era cercata. Ormai era tardi per riparare...





[...]

Io e la nonna dopo quel litigio furioso non ci eravamo rivolte più la parola. Quella notte, le molle del letto gemettero quando si mosse, ma continuai a fingere di dormire. La sua voce tremò a causa dei singhiozzi che si lasciò sfuggire. «Mi dispiace di averti colpito così. Ti ho dato quello schiaffo per non farti essere ignorante come me. Quello schiaffo era per me. Perché non ti ho portato qui prima? Non mi sono presa cura di te e non ti ho protetta, come avrei potuto.» Mi diede un affettuoso bacio sulla spalla. «Perdonami, piccola.»
Sistemò il lenzuolo e, a quel punto, riaprii gli occhi, osservando la luce della lampada sul mio comodino. Avevo ascoltato le sue parole, percepito anche il suo immenso dolore e mi rivoltai, vedendola dormire, o almeno speravo fosse così.
Mi tirai su con i gomiti e mi avvicinai il più possibile con l'orecchio al suo petto, per fortuna udii il suo battito cardiaco e esalai un sospiro di sollievo. Tirai su il lenzuolo per coprirla meglio e appoggiai la testa sul mio cuscino.

Neanche io volevo dirle quello che avevo detto in realtà. Non ero una persona cattiva. Semplicemente non avevo mai conosciuto la bontà o l'affetto di qualcuno. Avevo sempre e solo ricevuto disprezzo da chiunque. Ma forse qualcuno me lo avrebbe insegnato adesso.

Stavo dormendo placidamente quando mi arrivò dell'acqua gelida in faccia, facendomi spalancare di colpo gli occhi e rabbrividire. Osservai la nonna che stava posando la caraffa ed era in piedi vicino al letto.

«Ma nonna, tu sei pazza? Vuoi farmi prendere una polmonite!»

«Visto che non andrai a scuola, dovrai aiutarmi qui. Raccoglieremo il miele. Gli alveari ci stanno aspettando e non borbottare.»

«L'acqua mi è entrata nelle orecchie! Uffa!» mi lamentai posando la testa sul cuscino.
Ero letteralmente bagnata.

«Forza, alzati!» La nonna uscì e sbuffai per la doccia che mi aveva fatto. "Che strega diabolica." pensai, gettando il lenzuolo all'aria, anche se la mia voglia di fare i lavori era pari allo zero. Mi condusse in mezzo ad un campo e mi mostrò come utilizzare quella specie di nebulizzatore, ma le api come delle psicopatiche, iniziarono a ronzarmi attorno. Fuggii, continuando ad agitare le mani per scacciarle, e la nonna non fece altro che ridere di gusto. La giornata era all'inizio ed ero già piena. Mi fece pulire l'ingresso dalle foglie cadute, ma dopo un po' vi rinunciai e buttai all'aria la pompa e la scopa. Ero una totale incapace in quei lavori, forse avrei dovuto prendere in considerazione che lo studio non era così male.

Il sole, quel giorno, era asfissiante ma la nonna camminava come se non lo sentisse, tanto ero io la schiava a portare tutte le buste.

«Ha un nipote bellissima, signora Elena!»

«Sì, mia nipote è una bellissima ragazza.» confermò guardandomi orgogliosa, e appoggiai le buste per sistemare il pantaloncino che stava per cascarmi.

«Mi scivola.»

«Allora stringi bene l'elastico.»

Recuperai i sacchetti e si fermò al bancone del fruttivendolo, ordinando cinque chili di verdura. Immaginavo che quelle buste le avrei portate io, fino alla pensione.

Diventò più faticoso di prima con tutti quei pesi e sulla strada del ritorno le scaricai sull'asfalto.

«Quanto pesa.»

Avevo la schiena a pezzi e la nonna tornò indietro.

«Non farfugliare e smettila di lamentarti. Se non vuoi studiare, questo è ciò che ti aspetterà.» Abbassai la testa. Era peggio di una tortura cinese quella. «Abbiamo ancora molta strada da fare. Dai, andiamo.»

La nonna voleva uccidermi?
Quei lavori forzati diventavano più tosti, non credo avrei resistito per molto. Almeno a scuola...

Ci pensai su e poi corsi più veloce per affiancarla. 
«Posso dirti qualcosa?»

«Che cosa?»

Appoggiai le buste a terra, ponendo le mani sui fianchi. «Vuoi davvero che vada a scuola?»

«Sì, ma devi volerlo prima tu.»

«Va bene. Voglio andare.» affermai prendendo un respiro.

«Promesso?»

«Promesso, sì, va bene.»

«Ok, ma non stare lì impalata come una statua. Che stai aspettando? Corri, non fare tardi!» Iniziai a correre per poi togliermi le ballerine, che mi davano un fastidio terrificante. Magari da scalza sarei arrivata prima.

Non pensavo che l'avrei fatto, varcare la soglia di un altro istituto, scendere a compromessi, e invece era successo. Guidata da quell'uomo che mi aveva accolto all'entrata, continuai a stargli dietro per i vari corridoi. A volte, andare alla deriva e vivere senza preoccuparsene, era una specie di autodistruzione. Avevo accettato quel dolore e scelto di vivere così. Non sapevo ancora che il mio destino si celasse in quella stanza. Vidi un giovane seduto, intento a correggere qualche compito.
"Per favore, dio mio... non lasciare che questo tizio sia il mio insegnante. Se ciò dipendeva dalla mia fortuna, potevo considerarmi già spacciata."

Appena vide l'uomo salutarlo, lasciò quello che stava facendo, e si alzò in piedi. 

«La sua nuova studentessa, Federica.»

Il ragazzo puntò gli occhi verdi su di me e distolsi i miei. Sembrava che avesse visto un alieno, era talmente stupito che mi chiesi se stesse respirando, o se non avesse avuto una paresi facciale.

"Quando mai questa vita mi aveva dato ciò che chiedevo?"







Doverosa premessa: i capitoli si compongono di 4 parti, sperando che non siano troppo lunghi altrimenti ce la gestiamo in maniera diversa.

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