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Capitolo 9 : Un Natale diverso...

LE VICENDE DI QUESTO CAPITOLO SONO AMBIENTATE NEL PASSATO

Tra tre settimane è Natale. Di solito, ho sempre vissuto questo periodo dell'anno sentendomi sempre il "Grinch" della situazione. Ho sempre detestato ogni forma di addobbo, regalo, dolciume o qualsiasi cosa fosse legata alla festività. Probabilmente, questo mio atteggiamento è la conseguenza dell'infanzia di merda che ho avuto dopo la morte di mia madre.  

Eppure, quest'anno, nonostante tutte le sfighe che il destino ha deciso di scaricarmi addosso, mi sento diversa. 

Sarà colpa del coinquilino

Sì, in tutta sincerità, penso che sia merito suo se mi ritrovo quasi allegra mentre guardo Erdita, aiutata dal sempre più presente Arsen e da Lindita ( la signora che si occupa delle pulizie), addobbare il grande albero posizionato al centro dell'enorme salotto. 

Casa Gashi, o meglio villa Gashi, come la chiama mia nonna, è stata una vera sorpresa per me.

Il primo giorno che sono arrivata in Albania, quando Ergi ha fermato il suo scooter davanti al cancello, l'ho rimproverato dicendogli che non avevo i soldi per pagare un albergo di lusso. 

Lui, piegato dalle risate, mi ha spiegato che quella non era un hotel a quattro stelle, ma la casa di famiglia. Era  lì che viveva nonna Erdita e che, di conseguenza, sarebbe diventata anche casa mia. 

L'unica parola che riesco a trovare per descrivere l'edificio è trash, ma Erdita si incazza da morire ogni volta che lo dico. 

È tutto dannatamente esagerato: stanze enormi, arredi lussuosi, lampadari che neanche la regia di Versailles... Per me, che arrivavo dalla semplice ed essenziale casa famiglia "Fratello sole, sorella luna", abituarmi a tutto questo è stato uno shock.

Adesso, però, questo gigantesco albero di Natale, che brilla di centinaia di lucine colorate, mi lascia a bocca aperta come fossi una bambina di pochi anni. Mi riempio gli occhi di luce, sorrido felice e mi godo questo momento di serenità.

Mio zio Samyr non si è fatto più vedere. Erdita mi ha informata che il pranzo che voleva organizzare è diventato una cena, fissata per la sera della vigilia di Natale. In quell'occasione conoscerò tutta la mia famiglia albanese.  La notizia sorprendente è che è stata prenotata l'intera sala del ristorante più prestigioso di Durazzo, quello annesso al Movenpick Lalez Hotel.

Questo l'ho saputo da Stavros che, meravigliato della cosa, mi ha chiesto se ne fossi a conoscenza. Mai si sarebbe aspettato che un membro della famiglia Gashi mettesse piede nel suo hotel. Ho provato a chiedergli le motivazioni di questo odio atavico e lui è stato molto evasivo: vecchi rancori. Ma non mi arrendo, sono troppo curiosa di sapere.

«Dashuri (amore), è il terzo cioccolatino che ti vedo mangiare negli ultimi dieci minuti! Ti sentirai male!» Il rimbrotto di Erdita mi coglie di sorpresa. Sobbalzo e mollo la presa, proprio mentre avevo intravisto nel vassoio uno ripieno di caramello salato. 

Per un attimo, la mia mente vola alla mia infanzia, a quando la mia giovanissima mamma mi rimproverava con lo stesso tono di mia nonna e per lo stesso motivo: la mia passione per la cioccolata. In un curioso gioco di memoria, mi tornano in mente gli occhi del padre del mio bambino, di quel color cioccolato fuso in cui mi sono persa tante volte. 

Chissà se quelli del mio coinquilino gli somiglieranno.

Chissà se avrà anche lui quella bellissima fossetta sul mento che ho baciato così tante volte. 

Nervosamente, mordo l'interno della guancia. Fa male perdersi nei ricordi di qualcosa che non ci sarà mai più. Anche l'albero di Natale davanti a me sembra aver perso lucentezza,  mentre un'ansia sottile si insinua, accompagnata dalla paura di sentirmi sola.

Continuo a guardare mia nonna che scherza con Arsen. Parlottano tra loro con complicità, e io mi sento sempre peggio. È come se stessi soffocando, come se le pareti di questa stanza si restringessero piano piano fino ad accartocciarsi. Devo muovermi, reagire, fare qualcosa per fermare questo senso di frustrazione che cresce dentro di me.

In silenzio, senza farmi notare, prendo il bellissimo cappotto che Erdita mi ha regalato e la sciarpa dalla cappottiera all'ingresso, poi esco. Un venticello gelido mi accoglie appena oltre il patio. Due giri di sciarpa intorno al collo e va già meglio.

Provo a chiamare Ergi: non ho voglia di stare da sola. 

Il telefono squilla a vuoto. Forse è impegnato o  in giro con qualche amico. 

Indecisa, fisso il cellulare per qualche secondo, poi cerco un numero che ho salvato in rubrica senza nome: quello di Stavros Niarkos. 

In tutta sincerità, non so ancora come definire la nostra situazione.

Ci vediamo quasi tutti i giorni. Quel localino sul mare, dove mi ha portato il giorno del nostro primo incontro, è diventato la nostra meta fissa. Davanti a un caffè o a una bella cioccolata calda ci lasciamo andare a lunghe chiacchierate, e sto imparando a conoscerlo meglio. 

Più lo conosco, più lo apprezzo. Più lo apprezzo, più mi sento attratta. 

Più di una volta, tra noi l'aria si è fatta elettrica e carica di emozioni. E più di una volta mi sono ritrovata a immaginare le mie labbra sulle sue, le sue mani a sfiorarmi la pelle. 

Conoscendomi, mi sto trattenendo anche troppo.

Finora non sono mai stata io a chiamarlo. Ho sempre aspettato che fosse lui a fare la prima mossa. Ricevere le sue attenzioni, sapere che è interessato a me, mi fa sentire desiderata.

Ma oggi ho deciso di farlo. Ho voglia di vederlo,  di sentirmi rassicurata e importante accanto a lui.

«Elona? Tutto bene?» È evidentemente sorpreso dalla mia chiamata, lo percepisco dal tono della sua  voce, che mi sembra leggermente ansioso.

«Tranquillo, Stavros, tutto bene. Avevo solo voglia di sentirti... Sei impegnato?» Le parole mi sfuggono, dico più di quanto avrei voluto.

«Dammi mezz'ora e sono da te! Puoi aspettarmi? Devo ultimare un incontro di lavoro...» 

«Fa con calma, chiamo un taxi e ti aspetto al solito posto.»  Gli rispondo d'un fiato, è come se avessi urgenza di vederlo. 

Il nostro bar è sulla strada che porta al suo albergo, così potrà arrivare prima. 

Rimetto il telefono nella tasca del cappotto e, rapida, mi avvia verso la stazione dei taxi più vicina.

***************************************

Il mare, al tramonto, sembra trattenere il respiro insieme a me. Il sole si nasconde piano, lasciando una scia di colori che si riflette nell'acqua immobile. Mi siedo al nostro solito tavolo, quello vicino alla ringhiera, dove le onde sembrano voler entrare nella conversazione.

L'ho chiamato io, per la prima volta. Il pensiero mi fa sentire diversa, quasi adulta, eppure un leggero tremore mi scorre nelle dita mentre giocherello con il bordo del mio bicchiere d'acqua. Non so bene perché l'ho fatto, perché sentivo questo bisogno di vederlo. Forse è per quell'aria rassicurante che emana, o per il modo in cui mi fa sentire: importante.

L'ansia si mescola a una strana euforia. Fisso il mare, cercando di calmare i miei pensieri, ma i minuti sembrano allungarsi. 

Porto una sigaretta spenta alle labbra. Non la fumerò, gli ho promesso che non lo faro più. Sentirne il gusto però mi da come l'illusione di poterla accendere da un momento all'altro. Mi tranquillizza. 

Quando lo vedo arrivare, il respiro mi si blocca. Stavros cammina con il suo passo sicuro, elegante, come se non avesse mai fretta, anche quando la ha. Indossa una giacca scura e ha i capelli leggermente spettinati, segno che è venuto di corsa.

Si ferma davanti a me e mi guarda. È un attimo, un istante brevissimo, ma mi sento come se quel suo sguardo volesse leggere ogni mia intenzione. 

«Ti ho fatto aspettare?» Chiede, con quel tono basso e profondo che riesce sempre a farmi sentire piccola.

«No, sei arrivato subito.» Mento, quasi sorridendo.

Si siede di fronte a me, ma l'aria tra noi oggi è diversa, più pesante, come se ci fosse qualcosa che entrambi sappiamo ma non vogliamo dire. La sua presenza, sempre così calma e solida, oggi sembra fragile. O forse sono io a vederlo diverso, a causa di quello che sento.

«Non pensavo che mi avresti chiamato.» Dice, rompendo il silenzio.

Abbasso lo sguardo, cercando qualcosa da dire, ma le parole mi tradiscono. Alla fine alzo le spalle. «Mi andava di vederti.»

Stavros sorride, un sorriso che illumina il suo viso per un momento, prima di svanire. La differenza di età tra noi è qualcosa che non nominiamo mai, ma in questo momento sembra presente, tangibile. Lui è così sicuro di sé, così maturo. Io, invece, mi sento una bambina che gioca a fare la grande.

Ma quando mi guarda in quel modo, tutto sembra possibile.

«Elona» Inizia, come se volesse dirmi qualcosa di importante, ma poi si ferma. I suoi occhi, si posano sui miei e rimaniamo lì, immobili, come bloccati in un tempo tutto nostro.

La sua mano si muove, esitante, fino a sfiorare la mia sul tavolo. È un gesto piccolo, quasi impercettibile, ma manda una scossa attraverso tutto il mio corpo.

«Non so se dovrei.» Sussurra. La sua voce è carica di una tensione che non gli avevo mai sentito prima.

Io so cosa intende. Lo capisco senza bisogno di parole. Il cuore mi batte all'impazzata, ma non mi ritraggo. Anzi, mi sporgo verso di lui, senza neanche accorgermene.

«E se volessi?» Rispondo, con un filo di voce.

È lui a colmare la distanza. Lo fa lentamente, come se mi stesse dando tutto il tempo del mondo per tirarmi indietro. Ma io non mi muovo. Voglio questo. Voglio lui. È un gesto lento, quasi esitante, ma io lo accolgo. Il desiderio che mi ha tormentato per giorni, mi esplode dentro.

Quando le sue labbra incontrano le mie, il mondo sembra fermarsi. 

Il bacio è tutt'altro che timido: è intenso, travolgente, come una mareggiata che si infrange sulla riva. Sento la forza delle sue mani che mi cingono il viso, come se temesse che potessi sfuggirgli, e le mie dita trovano la strada verso i suoi capelli, ancorandomi a lui.

Non c'è esitazione, non c'è distanza, solo noi due, persi in un vortice che non vogliamo fermare. Il suo respiro si mescola al mio, il calore del suo corpo è come un fuoco che mi avvolge. Ogni tocco, ogni sfioramento, sembra gridare ciò che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di dire.

Quando finalmente ci stacchiamo, sono senza fiato. I suoi occhi, luminosi e profondi, mi scrutano con un'intensità che mi fa tremare. Una mano mi sfiora il viso, lieve, ma il suo tocco lascia una scia che mi brucia sulla pelle.

«Se è troppo, dimmelo...» Quasi sussurra.

«Non lo è.» Rispondo, senza esitazione.

Lui chiude gli occhi per un istante, come se volesse trattenere quel momento, poi sorride. Non il sorriso sicuro di sempre, ma uno diverso, più vulnerabile.

Il tramonto si spegne piano, e il mare continua a mormorare attorno a noi, ma nulla di tutto questo sembra reale. L'unica cosa che esiste è lui, Stavros, e quel bacio che ha cancellato ogni dubbio, ogni distanza. 

E io so, con assoluta certezza, mi accorgo che d'ora in poi niente sarà mai più lo stesso. E forse, per la prima volta in vita mia, non ne ho affatto paura.

Lui mi guarda con un'espressione complicata, quasi di conflitto, ma non dice nulla. Io sorrido, perché so che non c'è bisogno di spiegare.

Il mare, come un custode discreto, continua a mormorare i suoi segreti, mentre il tramonto si spegne lentamente alle nostre spalle. 

Il mio sguardo si perde verso l'orizzonte, dove il mare si stende infinito davanti a noi. I miei pensieri volano oltre le onde, sulla sponda opposta dell'Adriatico, dove ho lasciato frammenti di un passato che è ancora e sarà sempre parte di me.

Il rimpianto di ciò che non ho potuto trattenere mi punge il cuore, facendomi tremare le labbra. Le mordo nervosa, quasi a voler soffocare quel dolore che non riesco a ignorare.

Senza pensarci troppo, cerco la mano di Stavros. 

Le sue dita, forti e calde, si intrecciano alle mie. Lo stringo con tutta la forza che ho, come se questo gesto potesse ancorarmi al presente e allontanarmi dai ricordi che rischiano di sopraffarmi.

STAVROS

Ho ancora il sapore del suo bacio sulle labbra, un'impronta indelebile che non riesco a cancellare, ma che nemmeno voglio dimenticare. 

Dovevo riaccompagnarla a casa, e invece, con un colpo di testa, ho deciso di portarla a Tirana. Hanno allestito i mercatini di Natale in centro, e ho pensato che le avrebbe fatto piacere vederli.

Appena è salita in macchina si è assopita. Forse è la gravidanza a renderla così stanca. Ora dorme accanto a me, rannicchiata sul sedile del passeggero, la testa appoggiata al finestrino, i capelli in disordine, una mano posata lieve sulla pancia. È così giovane. Così piena di vita, di speranza. 

Elona ha solo diciassette anni, appena una ragazza, mentre io ne ho trentacinque.

La differenza d'età pesa su di me più di quanto vorrei ammettere, come un macigno che non riesco a ignorare. Ed è proprio questo che mi spaventa. Cosa possiamo essere, io e lei?

Non so nemmeno cosa mi stia succedendo. Lei è incinta. Non del mio bambino, ma questo non mi importa. O forse sì, un po'. Ci penso da giorni. Mi tormento chiedendomi cosa direbbe se le proponessi di crescere questo figlio come se fosse mio. Ma ho paura. Non del bambino, no. Ho paura che lei resti per sempre innamorata del padre.

Non lo dice mai apertamente, ma lo sento. Lo sento quando si perde nei suoi pensieri, quando i suoi occhi si velano per un istante prima di tornare alla realtà. Non ho mai avuto il coraggio di chiederle se lo ama ancora, se una parte del suo cuore è rimasta con lui. Forse non voglio nemmeno sapere la risposta.

Accendo la radio per spezzare il silenzio, ma la spengo subito. Non fa altro che amplificare il caos dentro di me. Cosa sto facendo davvero? Lei è così giovane, e io... io sono così diverso. Diciotto anni sono un abisso. E quel bambino che cresce dentro di lei è un legame con un'altra vita, con un'altra storia. Una storia che non mi appartiene, ma che temo resterà sempre tra noi.

Eppure, non riesco a staccarmi da lei. C'è qualcosa in Elona che mi disarma completamente. È il suo modo di guardare il mondo, di aggrapparsi a ogni piccola gioia come se fosse un dono. O forse è qualcos'altro, qualcosa che non riesco a spiegare. Mi chiedo se, in fondo, non mi stia illudendo. Se mi sto innamorando di lei per lei, o se vedo in lei l'ombra di sua madre e dell'amore immenso che ho provato.

Mentre guido, cerco risposte che non arrivano.

«Dove siamo?» Mormora all'improvviso, la voce impastata dal sonno. Si stira piano, come se volesse liberarsi di un peso invisibile.

Sorrido e indico il cartello che segna l'ingresso a Tirana. «Ho pensato che potremmo vedere i mercatini di Natale. Che ne dici?»

I suoi occhi si illuminano, piena di entusiasmo. Si passa una mano tra i capelli nel tentativo di sistemarli, finendo solo per arruffarli di più. Sembra ancora più piccola dei suoi già pochi anni di età.

La guardo, inebetito.

Sembra davvero una bambina, eppure c'è qualcosa nei suoi movimenti, nella sua gestualità sensualissima, che mi provoca un brivido lungo la schiena. 

Distolgo lo sguardo e mi concentro sul traffico.

Il bacio che c'è stato tra noi è stato l'inizio della mia perdizione. So che ora non potrò mai più ritornare sui miei passi. Nei giorni scorsi mi sono trattenuto in tutti i modi, cercando di non mostrarle quanto la desiderassi. Ma oggi non ce l'ho fatta. Anche ora mi trattengo a fatica dall'attirarla a me. Perché so che anche lei lo sente. È consapevole dell'ascendente che ha su di me.

«Davvero? È fantastico! Ci saranno le luci, le bancarelle, il vin brulé? Oh, dimmi che c'è il vin brulé!» Le sue parole mi riportano alla realtà.

Scoppio a ridere. «Non puoi bere vin brulé, Elona. Sei incinta, ricordi?»

«Oh, giusto...» Si porta una mano al ventre con un gesto istintivo e ride a sua volta. «Va bene, ma almeno possiamo prendere qualcosa di caldo. Tipo cioccolata. Quella posso, no?»

Annuisco, e lei sorride come se le avessi promesso il mondo. Quando parcheggio, è già fuori dall'auto prima ancora che io possa spegnere il motore. Si avvia veloce verso il viale illuminato, e io rimango indietro per un attimo, guardandola.

Osservarla mi riempie di emozioni contrastanti. È radiosa. Credo sia la gravidanza a donarle questo aspetto, ma voglio pensare che sia anche la mia presenza accanto a lei a renderla così serena.

La raggiungo mentre si ferma davanti a uno stand di decorazioni natalizie. Prende in mano una pallina rossa, la osserva con un sorriso che non riesco a decifrare.

«Se penso che fino a oggi ho sempre odiato il Natale...» Dice, rigirandola tra le mani. Per un attimo, un velo di tristezza le offusca lo sguardo.

Le compro la pallina, ovviamente. Le compro anche altre mille sciocchezze che catturano la sua attenzione. Ogni volta che sorride, che ride, che mi guarda con quegli occhi pieni di luce, sento il nodo nel mio petto allentarsi. Mi sento un po' meno idiota nel rendermi conto che mi sto fottendo il cervello e la reputazione dietro questa ragazzina.

Camminiamo tra la folla, avvolti dal profumo delle caldarroste e dal suono delle voci che si intrecciano nell'aria frizzante. Lei parla di tutto, saltando da un argomento all'altro con la leggerezza di chi vuole afferrare ogni istante. Mi racconta di una vigilia di Natale di qualche anno fa, quando scappò dai genitori affidatari per andare in treno da Livorno a Napoli, finendo a fumare uno spinello in compagnia di un ragazzo appena conosciuto.

La sua voce è un mix di ironia e malinconia, come se quel ricordo fosse insieme un rimprovero e una sfida a se stessa. Io la ascolto, divertito dal tono con cui lo racconta, ma una parte di me non smette di riflettere.

C'è un mondo dietro ogni sua parola, un passato pieno di ombre e scelte impulsive. Mi chiedo quanto di quel mondo porti ancora con sé, quanto di quel passato la trattenga o la spinga avanti.

Eppure, mentre cammina accanto a me, con il viso illuminato dalle luci natalizie e l'entusiasmo di chi sta scoprendo una nuova magia, sembra distante anni luce da quella ragazzina sperduta. Forse è questo che mi attrae di lei: la sua capacità di portare dentro di sé contrasti così profondi, di essere al tempo stesso fragile e indomita.  

Sto davvero innamorandomi di lei? Di Elona, per quella che è? O c'è ancora qualcosa di sua madre che mi tiene legato?

Non so se lei resterà innamorata del padre del bambino. Non so se io riuscirò mai a sentirmi adeguato. Ma so che voglio provarci.

«Stavros!» Urla improvvisamente, tirandomi per il braccio. «Guarda quel pupazzo di neve gigante! Devo farmi una foto!»

Mi lascio trascinare, perché con lei è impossibile resistere. La guardo posare accanto a quel pupazzo, le guance rosse per il freddo, il sorriso che illumina tutto. 

In quel momento decido di mettere da parte le paure.

Non so cosa ci aspetta domani, ma so che oggi voglio stare con lei. Con lei e con quel bambino che già amo come se fosse mio. Forse è rischioso, forse mi sto illudendo.

Ma quando sono accanto a lei, tutto il resto scompare.

E per ora, questo mi basta.

Rieccomi con un nuovo capitolo, ancora una volta immerso nel passato.

Finalmente nella vita di Ele c'è spazio per la serenità, una serenità che porta un nome: Stavros.

Sarà amore tra i due? Oppure stanno semplicemente cercando l'uno nell'altro il ricordo di qualcosa che hanno perso per sempre? È ancora presto per dirlo, ma una cosa è certa: questo nuovo capitolo delle loro vite profuma di cambiamento e speranza.

Intanto, godiamoci insieme l'atmosfera natalizia, che inizia a conquistare persino Ele, nonostante il suo passato da "Grinch".

Colgo l'occasione per augurarvi delle festività serene e luminose.

Buon Natale e felice anno nuovo!

Un abbraccio e un bacetto a tutte voi, che siete la mia forza e la mia ispirazione! 💖

Maria 💖

P.S. : Niijika ti è piaciuo il riferimento a "Una notte (di Natale), a Napoli" ?

Per chi volesse sapere più dettagli sulla fuga che Ele racconta a Stavros basta andare sul 

profilo di Niijika e leggere la storia che abbiamo scritto in collaborazione: "Una notte (di 

Natale), a Napoli.  Grazie di cuore a chi lo farà e a chi lo ha già fatto! 

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