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Capitolo 6: Notti insonni.

LE VICENDE DI QUESTO CAPITOLO SONO AMBIENTATE NEL PRESENTE

EMANUELE

La mia prima notte in terra albanese non sta andando come speravo. Pensavo che lo stress del viaggio inducesse il mio organismo a una necessità  di riposo, e invece la botta di adrenalina che mi ha dato l'incontro con Eleonora non ha fatto altro che acuire la mia già scarsa propensione al sonno.

Neppure l'alcol del fornitissimo minibar della suite è riuscito a fare effetto.

Dopo un breve e agitata parentesi di  torpore, durata appena un'ora, ho deciso di trascorrere il resto della notte in veranda. Il posacenere pieno di cicche e le bottigliette in miniatura di porto, gin, whisky e vodka, vuote e disposte in ordine di gradazione, sono lì a testimoniarlo. Il solo risultato ottenuto è un mal di testa lancinante.

Se la mia psichiatra potesse vedermi ora, avrebbe per me solo parole di biasimo. Si convincerebbe che gli anni di terapia non sono serviti a nulla e che con me ha solo sprecato  tempo.

Il mio rapporto con l'alcol, nell'ultimo decennio, ha vissuto fasi alterne. 

Due volte ha toccato l'apice:  i primi tempi del matrimonio con Tiziana, e poi tre anni fa, quando Sole se n'è andata.

Tre anni, e quella cazzo di parola non riesco a pronunciarla. Uso sinonimi, come se potessero ferire di meno, perché accettarlo è impossibile. 

È morta. Mia figlia è morta.

Bere fino a stordirmi, fino a star male,  è stata l'unica soluzione, che il fallito che c'è in me, è riuscito a trovare per fuggire a una realtà che non mi piaceva,  e che continua a non piacermi.

Mi sono aggrappato alla bottiglia quando sono stato così debole da accettare un matrimonio che non volevo, a cui mi sono piegato solo con la speranza di poter regalare a mia figlia una vita serena. 

Lei è stata la mia ancora di salvezza. Dopo la sua nascita, quando l'ho vista per la prima volta, ho capito che dovevo piantarla di ubriacarmi. Dovevo essere vigile e attento per lei, così piccola e fragile, perché aveva bisogno della mia protezione e del mio aiuto. Il mio ruolo di padre non poteva conciliarsi con quello di beone strafatto.  

Non è stato semplice, ma ci sono riuscito. Per molto tempo ho rigato dritto, soprattutto per amore della mia Sole. 

Ho scelto io il suo nome. Tiziana voleva chiamarla Jasmine. Che scempio.  Anche oggi, a distanza di anni,  il solo pensiero mi fa inorridire.

Sole, perché  ha illuminato la mia vita dal primo istante in cui l'ho tenuta tra le braccia. Lei è stata il raggio di luce che ha spazzato via l'oscurità che si era fatta strada dentro di me e che cercavo di soffocare con il bere. 

L'unica cosa che ancora non riesco a perdonarmi è di non essere stato presente al momento del parto. Da perfetto immaturo quale ero, ho preferito uscire a bere con gli amici. È stato un gesto da coglione, e il solo errore che non riesco a lasciarmi alle spalle.

Ogni notte rivivo i pochi anni della vita di mia figlia. 

I primi periodi sono stati i più belli, quando ancora eravamo ignari del futuro che ci aspettava. I suoi sorrisi, le sue prime parole... Io e lei vivevamo quasi in simbiosi. Mi dedicavo a lei totalmente, escludendo intenzionalmente Tiziana. Era il mio tacito modo per punirla, per avermi imposto un matrimonio che non volevo. 

Ho persino imparato a cucinare per la mia piccola luce. Finite le lezioni in Conservatorio, correvo a casa e le preparavo non  semplici pappine, ma piatti gustosi, sempre adatti alla sua età. Mangiare era per lei un momento difficile, così cercavo di renderlo più piacevole, più divertente.

Ma la vedevo sempre più pallida e stanca, una cosa troppo strana per una bambina di due anni. Tiziana continuava a dirmi che ero paranoico, ossessivo, asfissiante. Ripeteva che Sole stava benissimo, che il pallore era solo il suo colore naturale, ereditato da lei, così come i capelli biondi e gli occhi verdi. In effetti, erano due gocce d'acqua. Ma tra loro, per me, c'era una differenza sostanziale: una, la amavo di un amore totalizzante; l'altra, la tolleravo a fatica. 

Alla fine, fregandomene del parere di Tiziana e dei suoi genitori, decisi di portare Sole dal pediatra. 

Leucemia linfoblatisca acuta. 

Questa fu la diagnosi, dopo una serie di prelievi ed esami diagnostici,  sempre più approfonditi e invasivi. Tre parole per me incomprensibili, che però presto imparai a conoscere a mie spese. 

Fu un periodo tremendo. Stavo preparando gli ultimi esami e la tesi per laurearmi, finalmente, al Conservatorio. Dividevo le mie giornate tra le aule del Santa Cecilia e le corsie del reparto di Onco ematologia del Policlinico Gemelli. 

Le cure erano devastanti per il mio piccolo scricciolo, ma lei le affrontava con il sorriso e l'incoscienza della sua giovanissima età. Quando ero vicino a lei, mi sembrava che i suoi occhi brillassero di  una luce diversa. Giocavamo a dare nomi di piante e animali ai dottori e alle infermiere, e,  durante le lunghe ore notturne, quando la nausea della chemioterapia la teneva sveglia, la distraevo raccontandole fiabe fantasiose su mondi lontani e inesplorati, abitati dai suoi supereroi preferiti. 

Poi l'inaspettato miracolo. 

Il giorno della mia laurea in strumenti a percussione arrivò anche la notizia che la malattia era in remissione. 

La mia piccola Sole, con le sue esili manine, aveva riacciuffato la vita, sconfiggendo la morte. 

Eravamo impazziti dalla gioia. Tutti, nessuno escluso. Persino mio padre – che già non era mai stato un gran genitore e fino ad allora era stato anche un pessimo nonno – si scomodò per raggiungerci a Roma, portando con sé un enorme orso di peluche che Sole ribattezzò, in suo onore, "Ovso Ninni."

Sento ancora la sua vocina sottile, con quella caratteristica erre moscia,  mentre, sbatacchiando il pupazzo a destra e sinistra, lo rimproverava imitando il tono petulante che Tiziana usava con lei. 

La guarigione di Sole era stata un toccasana anche per la mia vita. Dopo la laurea triennale mi decisi a iscrivermi alla specialistica, scegliendo il corso Jazz in batteria e percussioni. Mi ero anche convinto a provare a far funzionare il matrimonio con Tiziana. L'avevo considerato come un pegno da pagare per la guarigione di Sole, un sacrificio necessario per far scorrere le nostre vite sui binari della serenità.  Speravo, nel mio intimo, che quella stabilità tenesse lontana la mia cucciola da ogni possibilità di ricaduta.

Dalla notte del fortunoso concepimento di mia figlia, fra me e Tiziana non c'erano più stai contatti fisici di alcun tipo, a parte quei baci a stampo immortalati nelle fotografie che la mia consorte adorava esibire sui social. 

Per lei, l'apparenza contava più della realtà.

Agli occhi degli altri, dovevamo sembrare la coppia perfetta: due giovani ragazzi, che avevano affrettato i tempi, mettendo su famiglia precocemente, che però si amavano molto. Poco contava se io sistematicamente la tradivo ogni tre per due e dormivo nella cameretta di Sole. Lei aveva accettato questo stato di cose senza soffrirne visibilmente, al punto che ero arrivato anche a chiederle se avesse altre relazioni. Lei aveva negato, quasi stizzita dalla mia domanda.  

Per uno come me, che aveva sempre fatto del sesso una ragione di vita, era inconcepibile che lei ne facesse così facilmente a meno. 

Riavvicinarmi a mia moglie era stato come immergermi in apnea negli abissi.

Non che fisicamente non la trovassi attraente, anzi, l'avevo sempre considerata una bella ragazza. Ma nella mia mente riaffiorava costantemente quella subdola,  malevola sensazione di essere stato manipolato e, complice la mia coglionaggine, indotto a fare, da ubriaco, qualcosa che da sobrio non avrei mai accettato. Scoparla.

Eppure ci ero riuscito. Adempivo ai miei doveri di buon marito, almeno una volta alla settimana. Le nostre liti erano diminuite, le sue recriminazioni si erano fatte meno frequenti, e perfino le battute pungenti del padre si erano attenuate. In casa, ora,  si respirava un clima di calma apparente. 

Per me contava solo il benessere di mia figlia, e per questo valeva la pena sacrificare la mia vita affettiva. Fuori dalle mura di casa trovavo tutte le distrazioni di cui avevo bisogno, ma l'amore, quello, lo avevo messo da parte. Era rimasto solo un ricordo, legato al passato. A quella breve e intensa estate di qualche anno prima. 

Per me l'amore aveva ancora un solo un nome e un solo volto: quello di Eleonora. 

L'amore era rimasto in quegli occhi di cui non avevo mai imparato a riconoscere il colore e in quelle labbra di cui sognavo ancora il sapore. E sapevo che sarebbe stato così per sempre.

Ma nonostante tutto il mio impegno, nonostante ogni sforzo,  era stato tutto vano.

Dopo appena un anno, la malattia si era ripresentata, più aggressiva che mai. Solo un miracolo avrebbe potuto salvare la mia piccola Sole. 

I medici ci comunicarono che le cure tradizionali non sarebbero servite a nulla; c'era bisogno di una terapia diversa: un trapianto di midollo osseo. 

Furono valutati tutti i profili genetici di noi familiari, ma nessuno risultò compatibile e, nemmeno la richiesta al centro trapianti portò buone notizie. Ci dissero solo che avrebbero avviato la  ricerca di un donatore anonimo.   

Sprofondai nel baratro della disperazione. 

Il tempo passava, e la mia piccola luce diventava sempre più fioca.

Trascorrevo tutte le mie giornate con lei. 

Fanculo la specialistica, fanculo le mie ambizioni nel mondo della musica. Fanculo tutto. 

L'unica cosa che contava era darle una speranza di vita. Ma, per come andavano le cose, mi sentivo impotente. Non potevo fare altro che aspettare e sperare. Non mi restava altro.

Poi, un giorno, il medico ci chiamò. Le mie preghiere, rivolte a un Dio in cui non avevo mai riposto grandi aspettative, erano state esaudite. Avevano trovato un donatore compatibile, un gemello genetico. Un'eventualità rarissima, eppure era successo. Si poteva finalmente procedere con il trapianto. Grazie al gesto d'amore e altruismo di uno sconosciuto, mia figlia avrebbe avuto una possibilità di continuare a vivere. 

L'ansia e la paura che provai in quei momenti le sento ancora vive dentro di me. L'immagine delle porte della sala operatoria che si chiudono dietro di lei è un ricordo che rimarrà per sempre impresso nella mia memoria. 

Io e Tiziana, mano nella mano, avevamo atteso con trepidazione il suo risveglio. Come una vera famiglia. E quel sorriso flebile, quando riaprì gli occhi, fu per noi un incoraggiamento a ricominciare a credere nel futuro.

Sole era rinata, e io insieme a lei. 

Festeggiamo ad aprile, il suo quinto compleanno a Disneyland Paris. 

La sua espressione di stupore e meraviglia, quando varcò la soglia del Castello della Bella addormentata è per me indimenticabile. 

«Papi, tu sei il mio principe azzurro! Quando sarò grande, ci sposiamo?» 

In quelle parole, sussurrate mentre, stretta a me, affondava il viso nell'incavo del mio collo, c'era tutta la voglia di vivere di una bambina che aveva trascorso la maggior parte della sua infanzia tra le mura di un ospedale. 

Quando sarò grande...

Un desiderio semplice, legittimo. Parole che tutti abbiamo pronunciato,  che tutti diamo per scontate. 

Per lei,però,  non è stato così.

La mia Sole non è mai diventata grande. La malattia non le ha dato scampo. Nonostante il trapianto, era tornata, più forte e implacabile portando via ogni speranza, ogni possibilità di futuro. 

Se n'è andata per sempre una mattina di inizio estate, qualche mese dopo aver compiuto sette anni.

E con lei, quel giorno, è morto anche qualcosa dentro di me.

Cristo santo, mi manca l'aria. 

Se non mi distraggo, la cosa si mette davvero male. 

È ancora buio, e quella che accendo sarà almeno la decima sigaretta da quando sono seduto qui fuori. Il silenzio intorno a me è interrotto solo dal fruscio delle fronde dei pini che ondeggiano lievi sotto la brezza che soffia dal mare. In lontananza, appena udibile,  lo sciabordio delle onde che si infrangono sulla spiaggia di fronte all'hotel.

Mi chiedo cosa stia facendo Eleonora in questo momento.

Dormirà tranquilla accanto al suo uomo, o si sentirà anche lei in ansia per domani? Avrà anche lei qualche demone che le tormenta ancora l'anima, o i suoi sonni saranno finalmente tranquilli e sereni? 

Vorrei tanto averla qui accanto a me, ora,  per cercare tra le sue braccia quella pace a cui anelo da così tanto. Quante volte, in questi anni, il suo ricordo è venuto in mio aiuto nei miei sonni agitati, regalandomi attimi di serenità.

Ancora non riesco a credere a quello che è successo stamattina. Rivederla dopo così tanto tempo, quando ormai non ci speravo più... Era uno di quei desideri irrealizzabili, come quelli che esprimi al passaggio di una stella cadente. Uno di quei sogni che dentro di te speri sempre possano avverarsi, pur sapendo che probabilmente non accadrà mai. 

Eppure, eccoci qui. Se è successo davvero, se il destino ci ha fatti incontrare di nuovo, ci dev'essere un motivo, una spiegazione che sfugge a qualsiasi logica.

Peccato, però, che ci sia un dettaglio impossibile da ignorare: lei è sposata con un altro uomo.

ELEONORA

Piede destro, due colpi alla cassa. Piede sinistro, pedale del charleston giù e poi su. Le braccia si muovono veloci, come se fossero percorse da una vita propria. Le bacchette colpiscono, una, due, tre volte rullante e tom. La schiena si rilassa, la mente si svuota, e scivolo in uno stato di benessere assoluto. 

Lo so, sono le due di notte e forse non è proprio l'ora ideale per suonare. Ma ho bisogno di scaricare tutta l'adrenalina che ho in corpo. Qui, rintanata nel mio studio insonorizzato, posso finalmente sfogarmi. Al piano superiore non arriva alcun suono e Stavros  starà già dormendo. Quando lavoro, raramente mi aspetta sveglio, anche perché, di solito torno a casa che è già quasi mattina. 

L'altro uomo della mia vita è al mare con Erdita. Non che qui manchi il mare, ma mia nonna - parole sue - è troppo vip per bagnare i suoi curatissimi i piedi nell'acqua di Durazzo. Per lei, il vero mare albanese è solo quello di Ksamil. 

Sta per iniziare un periodo intenso per me, carico di ansia, lavoro e poco sonno. Tanto vale abituarmi fin da ora a dormire poco. Avrò tutto l'inverno per recuperare. 

Domani comincia quella fottutissima master class, e tra due settimane ho la serata di apertura della stagione estiva. 

Oggi ho praticamente obbligato tutto il personale a fare le prove generali. Deve essere tutto perfetto. 

Il Wrong Life Summer Club è la mia creatura, la discoteca all'aperto più grande di Durazzo.

È la realizzazione di un progetto nato da impegno, sacrifici personali e tanta passione. L'ho creato due anni fa, subito dopo aver conseguito la  laurea triennale come DJ Producer. 

Mi occupo della parte musicale: sono la DJ. 

Dalla mia console mixo la musica che fa ballare centinaia di persone e mi prendo cura personalmente di tutto ciò che riguarda luci ed effetti sonori.

Per la gestione della sicurezza e del bar ho due collaboratori eccezionali e fidatissimi: Samuel e il suo eterno amore, Saverio. 

Non ci hanno messo molto a trasferirsi definitivamente qui a Durazzo, specialmente dopo che il locale di Saverio, una notte d'inverno di qualche anno fa, è andato misteriosamente a fuoco, riducendosi a un mucchietto di cenere. La sua unica "colpa" era stata quella di non voler cedere alle estorsioni della mafia locale.

Qui, almeno, questo rischio non lo corriamo. Nessuno oserebbe ostacolare  un membro della famiglia Gashi. Non per paura di me, io mi sono sempre tenuta ben lontana da certe situazioni. Chi ora gestisce i traffici è mio zio Samyr,  padre di Ergi. E, nonostante tra noi non corra buon sangue,  vengo comunque rispettata di riflesso.

IL WLSC ha aperto i battenti la scorsa estate,  ed è stato un vero e proprio boom a cielo aperto.

Nessuno si aspettava un successo del genere: la fila all'ingresso ogni sera, il tutto esaurito per l'intera stagione estiva, e il passa parola sui social che ci ha fatti conoscere persino in Italia. Quest'anno, però,  siamo tutti terrorizzati dall'idea di non riuscire a eguagliare la stagione passata. 

Per questo, quella maledetta master class proprio non ci voleva. Ma, soprattutto, non ci voleva l'arrivo di Lele.

Sospiro esausta e ripongo le bacchette sul rullante. Ho suonato con così tanta foga che sento il sudore scorrermi lungo la schiena. Eppure, la stanchezza e il sonno a cui aspiravo non si sono palesati. 

Mi sento così carica che potrei tranquillamente iniziare la giornata già adesso, senza neanche tentare di dormire.

Mi costringo comunque a una bella doccia calda, e sono le quattro quando finalmente mi distendo sul letto, accanto a Stavros che riposa serenamente. 

Mi soffermo a guardarlo. Anche mentre dorme, riesce a trasmettermi calma e tranquillità. I tratti del suo viso, rilassati dal sonno, forse rivelano un po' la sua età, ma rimane comunque bellissimo. 

Abbiamo esattamente diciotto anni di differenza. 

Potrei essere sua figlia, cosa che mia nonna Erdita  non ha mancato di sottolineare più volte quando decisi di trasferirmi qui con lui.

Ricordo quel periodo come uno dei più stressanti della mia vita, almeno sotto il piano emotivo. Ero consapevole della scelta azzardata che stavo compiendo:  con il cuore ancora ferito dalla fine della storia con Lele, in attesa di un bambino che, per mia scelta, non avrebbe mai conosciuto suo padre, decidevo di andare a convivere con un uomo molto più adulto di me. Ancora una volta,  mi esponevo al giudizio degli altri. 

Lo scapolo d'oro di una prestigiosa e ricca famiglia greca che sceglieva me: la zingarella metà italiana e metà albanese. 

Qualche giornale scandalistico ellenico aveva persino ricamato diversi articoli sulla mia vita prima del mio arrivo in Albania. E poi c'erano i profili social di Stavros, sotto le cui foto spuntavano commenti sprezzanti sul mio conto. Venivo dipinta come un'arrivista, un'arrampicatrice sociale. E quelli erano i più garbati; altri, invece, usavano parole molto meno gentili.

Le nostre rispettive famiglie avevano tirato fuori vecchi rancori,  facendo di tutto per opporsi a questa decisione avventata.

Insomma, eravamo soli contro tutti. Tutti pronti a scommettere che insieme  saremmo durati solo pochi mesi, che le corna sarebbero state il nostro pane quotidiano. 

Invece, dopo qualche anno di convivenza, ci siamo addirittura sposati. 

Come se sentisse il mio sguardo su di lui, Stavros allunga il braccio verso di me, cercando con la mano sul letto, fino a incontrare il mio corpo. Finalmente apre gli occhi.

«Agàpe (amore), sei tornata... Tutto bene?»  

Mi attira a sé e mi stringe tra le braccia. 

Ora, finalmente, sento arrivare la stanchezza, e quel  sonno, che prima tanto bramavo, mi avvolge. 

Senza neanche provare a rispondere, mi addormento serena. 

Rieccomi finalmente!

In questo capitolo sono messe a confronto la vita di Emanuele e quella di Eleonora dopo la fine della loro storia. 

Emanuele conosce in prima persona il dolore e la sofferenza. La morte della sua bambina è una ferita profonda che lo devasta e lo segnerà a vita. Lo avrà aiutato a maturare e a non essere il solito egoista di sempre?

Eleonora invece, nonostante le difficoltà è riuscita a realizzare i suoi sogni. In tutto questo c'è sempre la presenza costante di Stavros accanto a lei. 

L'inizio della master class sembra essere atteso con speranza da Emanuele, con fastidio da Eleonora. 

Ci sono segreti nelle loro vite che non saranno facili da svelare...

Voi cosa ne pensate? Sono troppo curiosa di conoscere le vostre opinioni. 

Un bacione affettuoso e un immenso grazie a  chi mi attende con pazienza

A presto

Maria 


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