Capitolo 5: Emozioni e nuove consapevolezze.
LE VICENDE DI QUESTO CAPITOLO SONO AMBIENTATE NEL PASSATO
EMANUELE
La pioggia cade lenta, mentre, al riparo del colonnato della corte interna del Conservatorio di Santa Cecilia, fumo l'ennesima sigaretta della mattina.
Il colloquio con il direttore è andato peggio di quanto immaginassi. Non si è nemmeno sforzato di nascondere quello che è, a tutti gli effetti, un ricatto. La felicità di sua figlia a scapito della mia. Questo, in sostanza, è ciò che ci siamo detti nel suo ufficio.
Non gli basta che io riconosca il figlio che Tiziana aspetta. No, lui vuole le cosa fatte per bene. Così la pensano lui e mio padre, che lo sta aiutando a mettere in scena il mio futuro.
Fidanzamento e matrimonio. Questo è ciò che hanno deciso per me. E ovviamente Tiziana è d'accordo.
Hanno già inoltrato la richiesta al giudice del Tribunale dei Minori per ottenere l'autorizzazione, dato che la mia futura moglie è minorenne. Lui e mio padre hanno già comprato un appartamento dove la "famigliola felice" dovrà vivere, ovviamente a Roma. L'unica scelta che mi è rimasta è quella della data del matrimonio. Dovrà avvenire prima che inizi il quarto mese di gravidanza, perché si sa, le foto con il pancione non si addicono alla reputazione di una figlia di buona famiglia. Reputazione che io ho infangato, deflorandola e approfittando della sua ingenuità.
Al solo ricordo di tutte le cazzate che ho dovuto ascoltare, la bile mi sale in gola, rendendo il fumo della Camel amaro più del veleno. Mi sembra di vivere un incubo senza fine.
Ho provato a difendermi, a spiegare a quel padre premuroso e gentile che la figlia di ingenuo ha ben poco. Gli ho rinfrescato la memoria sull'episodio della fellatio all'inizio dell'estate. Certo, non sembrava affatto inesperta quando si è inginocchiata davanti al mio uccello. Ma lui è rimasto impassibile, e puntandomi un dito contro, ha alzato la voce, urlandomi che non ci sono alternative: le porte di tutti i Conservatori italiani mi saranno precluse.
Ho un nodo alla gola. Mi sento impotente, come chiuso in una gabbia, senza via d'uscita. Se solo riuscissi a trovare la forza di reagire. Dovrei prendere esempio da Eleonora. Lei sì che ha avuto coraggio. Ha mollato tutto ed è andata via, lontana da me e dalla merda che le ho gettato addosso.
Io, invece, resto qui, a compatirmi, aspettando che Tiziana arrivi. Oggi è il giorno della prima ecografia e voglio esserci. Sono teso, emozionato, ma non certo per lei. Di quella biondina non me ne può fregare di meno.
Penso solo a mia figlia, o mio figlio, non so ancora cosa sarà. So solo che è mio, e per lui, sono pronto ad affrontare tutto quello che mi sta accadendo.
Nel mio cuore sento già di amarlo incondizionatamente.
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«Nel secondo mese di gravidanza iniziano a formarsi gli arti del feto. Guardi, queste sono le gambine, ecco i piedini...»
La voce del ginecologo mi arriva ovattata. Sono troppo concentrato a fissare il monitor dell'ecografo per cercare di riconoscere mio figlio in quel guazzabuglio di forme indistinte che vedo. Poi, all'improvviso, l'immagine si mette a fuoco. E lo vedo. Quasi nitido. Riconosco la testolina, le piccole braccia, poi tutto il resto.
Cazzo, mi viene da piangere.
Quella creatura minuscola e indifesa che si muove debolmente è mio figlio.
Ho fatto un mucchio di cazzate nelle mia vita, e la più grande di tutte è stato scopare con Tiziana, ma quell'esserino che vedo fluttuare nello schermo non ha colpa. Lui avrà il meglio di quello che posso offrirgli, a costo di qualunque sacrificio.
Mi passo una mano tra i capelli, cercando di nascondere la commozione che mi invade.
Tiziana, sdraiata sul lettino, mi rivolge uno sguardo pieno di speranza e allunga una mano verso di me, che sono seduto accanto a lei. Si aspetta che gliela stringa, che condivida con lei questo momento emozionante che stiamo vivendo insieme. Esito. Ma non riesco a farlo. Mi blocco.
«Ora possiamo ascoltare anche il battito del cuore.» Il medico ci riporta entrambi alla realtà.
Tum tum, tum tum, tum tum.
Nel silenzio della stanza, riecheggia nitido il suono del piccolo cuore del mio bambino.
Il mio cuore, invece, è in gola e batte all'impazzata. La testa è un caos, attraversata da mille pensieri. È come un mare in tempesta, e io mi sento una piccola barca alla deriva.
Per un attimo, immagino Eleonora al mio fianco, stesa su questo lettino.
Se ci fosse stata lei, sarebbe stato tutto diverso. Al posto dell'angoscia che provo ora, avrei sentito solo gioia immensa.
Sorrido al pensiero e, senza rendermene conto, stringo la mano di Tiziana.
E come quella notte di settembre, commetto lo stesso errore.
Le dimostro un amore che non le appartiene.
ELEONORA
«Ma nelle tue condizioni ti fa bene respirare quest'aria piena di polvere?»
Ergi armeggia, con la vecchia serratura della porta che separa il garage, dalla stanza. Quella stanza dove, a detta di mia nonna, è conservata la mia infanzia. Finalmente si è decisa a dirmi dove sono custodite tutte le nostre cose, portate via dall'Italia dopo la morte di mamma.
«Quali condizioni? Dai, smettila! Al massimo ti vomito sui piedi, cosa sarà mai!»
Rido nel vedere l'espressione disgustata di mio cugino, ma il sorriso mi muore in faccia appena la porta si apre.
Trattengo il fiato.
La luce al neon, quando Ergi pigia l'interruttore, balugina per un istante, come se esitasse prima di illuminare la stanza. Le pareti di cemento grigio sembrano ancora più fredde di quanto non siano in realtà, o forse sono io a rabbrividire, stretta nella felpa. L'odore di polvere è pesante, denso. Forse Ergi non aveva tutti i torti prima. Lo stomaco si contrae in uno spasmo, ma non è nausea quella che avverto, è ansia.
Al centro della stanza ci sono quattro casse di legno, chiuse con grossi lucchetti. Su ciascuna di esse c'è scritto il nome di due porti: Livorno (Italia) e Durazzo (Albania).
Le mani mi tremano mentre cerco di infilare la chiave nel primo lucchetto. Lo sblocco con lentezza, come se aprire quella cassa fosse l'ultimo passo di un cammino che non sono ancora pronta a fare. Quando sollevo il coperchio, i ricordi mi investono come un fiume in piena, e non riesco più a trattenere le lacrime.
Le ore passano in un misto di risa e pianti.
I miei giocattoli, i vestiti di una piccola Eleonora, quelli di mamma e di papo, le foto, i primi quaderni di scuola. Ogni cosa che vedo e tocco risveglia in me emozioni e sensazioni che fatico a dominare. Quando poi Ergi apre l'ultimo contenitore e inizia a tirare fuori i pezzi della batteria del mio papo, mi crolla tutto addosso. Le lacrime mi sfuggono senza controllo, e mi rifugio nell'abbraccio di mio cugino, cercando nel suo calore un sollievo a quel vortice di emozioni che non riesco più a tenere dentro.
«E ora perché piangi? Ele, dai, se sapevo che reagivi così non l'avrei montata, questa batteria!»
«No, Ergi, hai fatto bene. È che... non lo so, sarà la gravidanza, mi sento vulnerabile. Vedere le foto, le mie cose di bambina... Troppi ricordi sono tornati a galla!»
Mi libero dal suo abbraccio e mi avvicino allo strumento. Sfioro delicatamente i rullanti, la cassa, i tom. Sono ancora in buone condizioni, ma le pelli sono segnate da macchie di umidità.
Chiudo gli occhi e mi appare il volto di papà, le sue braccia che danzano nell'aria, scandendo il ritmo con la stessa naturalezza con cui respirava. Rivedo il suo sorriso, mi vedo seduta sulle sue ginocchia, le bacchette rubate dalle sue mani, mentre cerco di imitare i suoi gesti maldestramente.
Ergi sembra leggermi nel pensiero. Quando mi porge le bacchette, sento un tuffo al cuore.
Le prendo con mani tremanti e, istintivamente, le avvicino al naso. Un gesto che non riesco a trattenere, perché lo sento. Non è suggestione, non sto impazzendo. Il profumo di mio padre è ancora qui, un mix inconfondibile di cuoio, legno e un vago sentore di fumo. È lui. E non lo dimenticherò mai.
Un'altra lacrima scivola silenziosa sulla mia guancia.
Stringo le bacchette e prometto a me stessa, e a loro, che questo strumento tornerà a risplendere. Imparerò a suonarlo così bene che, ovunque si trovino, mi sentiranno e applaudiranno forte.
EMANUELE
«Sì mà, l'ho fatto. E che cazzo un cuore ce l'ho anche io, no?»
Dall'altra parte della linea, mia madre sembra incredula. Faccio fatica anch'io a realizzare che sono riuscito ad accompagnare Tiziana alla prima ecografia.
«Credimi mà, mi tremano ancora le gambe. Si vedeva tutto. Oddio, all'inizio era tutto un po' confuso,non ci capivo un cazzo. Poi man mano, il cuore, le gambe... Oh mà, mi è venuto da piangere.»
Sento la voce che vibra ancora quando parlo di mio figlio.
«Emanuele, mi sorprendi. Scusami se te lo dico, ma non mi aspettavo una reazione simile da te!»
La franchezza della mia genitrice non mi stupisce. È fatta così, e io l'apprezzo anche per questo. Era certa che uno come me, non si sarebbe lasciato scalfire dall'idea di diventare padre.
«E quindi, alla luce di quello che mi stai dicendo, c'è qualche altra rivelazione che stai per farmi?
È chiaro che adesso vuole sapere cosa ho deciso riguardo a fidanzamento e matrimonio.
«Non mi sembra che tuo marito e il padre di Tiziana mi abbiano lasciato molta scelta. E, in tutta sincerità, non vedo altre alternative...»
Non mi lascia neanche finire la frase.
«Davvero, Ema, hai deciso di sposarti? Figlio mio, ti prego, pensaci bene. È davvero questo che vuoi? Sposare una persona che non ami? Non commettere questo errore, te ne prego.»
«E cosa dovrei fare, scusa? Quello mi ha minacciato: se non sposo sua figlia, con la musica e il conservatorio ho chiuso per sempre. E io? Io cosa faccio? La mia vita io l'ho sempre immaginata a suonare, non sono capace di fare altro.»
Mi ripeto questa tiritera da giorni, e ora la sto ripetendo a mia madre, cercando di convincere sia lei che me che questa è l'unica strada possibile. Mi sposo, divento padre, continuo a studiare musica. Tutto semplice, perfetto e lineare. Peccato solo che, più ci penso, più mi sento in trappola.
La sento sospirare. Poi dopo un attimo di silenzio, riprende.
«E a Eleonora... non ci pensi più?»
Silenzio. Non rispondo e anche lei tace.
«Ora ho lezione, mà. Ti devo lasciare, ci sentiamo dopo.»
Chiudo la conversazione lasciando la sua domanda sospesa, senza risposta.
A Eleonora ci penso, eccome se ci penso.
Ci penso la mattina, appena apro gli occhi.
Quando bevo il primo caffè della giornata.
Quando mi rado allo specchio e alla radio, che mi tiene compagnia, passa una canzone che sa di noi.
Quando incrocio per strada una ragazza che me la ricorda.
Quando mi sembra di sentire il suo profumo.
Insomma, ci penso sempre.
È nei miei pensieri. Ma a volte fanno così rumore che non li sopporto più, e allora ho bisogno di silenzio. E quel silenzio lo cerco provando a spegnere tutto, bevendo.
So che mi sto facendo del male, ma è l'unica consolazione che mi resta.
Ormai non vedo altra via.
La mia vita sta andando in una direzione che non mi piace, ma è come se fossi ormai rassegnato, come se mi mancassero la voglia e la forza di cambiare le cose.
Prima di entrare in aula digito velocemente un messaggio a Tiziana:
Scegli tu la data, per me un giorno vale l'altro.
ELEONORA
Il quadernetto che ho nascosto nello zaino l'ho scovato in fondo al baule, tra i vestiti della mamma.
Di tutti quelli che ho trovato, mi ha attirato proprio quello, con la copertina rigida e nera.
Mi è bastato un colpo d'occhio per capire che sicuramente non fosse mio.
Da piccola ero fissata con l'azzurro. L'ho scoperto oggi, rovistando tra le cose della mia infanzia. Dai vestiti ai giocattoli, tutto rigorosamente azzurro.
Sorrido tra me e me: prima azzurro, adesso nero. Un cambio di gusti niente male.
Teresa, ne sono sicura, se ne uscirebbe con una delle sue teorie psicologiche sui traumi della mia infanzia. E forse, in fondo, non avrebbe neanche tutti i torti.
L'ho aperto, e sulla prima pagina, con una bella grafia tonda e precisa, c'era scritto il nome di mia madre: Elona Gashi. Accanto, un piccolo cuoricino. Ho pensato subito a un diario segreto e, senza farmi vedere da Ergi, l'ho preso di soppiatto.
Ed eccomi qui, seduta sul davanzale della finestra della mia camera, in casa Gashi, a fumare l'ultima sigaretta della giornata con questo quaderno tra le mani. Lo rigiro, indecisa tra la voglia di aprirlo e quella di rispettare il ricordo di mia madre.
Ancora esitante, sfoglio le prima pagine, ma subito mi rendo conto che anche se provassi a leggere, non ci capirei un cazzo. È scritto tutto in albanese.
La delusione mi brucia dentro. Non sarò mai in grado di leggerlo per davvero, e ci vorranno mesi prima che possa padroneggiare la mia nuova lingua.
Sbuffo, nervosa. Odio quando non riesco a fare qualcosa a cui tengo.
Potrei chiamare Ergi e chiedergli di tradurlo per me. Ma no, non se ne parla nemmeno. Non voglio sbandierare ai quattro venti i segreti di mia madre. Devo trovare un'altra soluzione. Chiedere a Erdita sarebbe anche peggio.
Che nervoso, ho bisogno di un'altra sigaretta. La porto alle labbra, ma subito mi ricordo che io non posso fumare. Il mio coinquilino non ne sarebbe felice.
Per un attimo, lo immagino mentre tossisce nella mia pancia.
Va bene, piccolino. Per questa volta mi accontenterò di tenere la sigaretta spenta tra le labbra, giusto per sentirne il gusto. Ma non ti prometto che non fumerò mai più.
Merda, mi sto davvero rincoglionendo. Mi metto a dialogare con un bambino che non esiste nemmeno?
Sospiro, esasperata, e provo a riconcentrarmi sul quadernetto. E, all'improvviso, una scintilla mi illumina la mente.
Ho trovato la soluzione!
Recupero il cellulare dal comodino e apro Google traduttore. Fotografo le pagine, evidenzio il testo da tradurre, copio e selezioni l'italiano tra le lingue.
Con il cuore che batte forte, inizio a leggere, lasciandomi trasportare nella vita di mia madre.
**********
Fuori è quasi giorno; dalla finestra filtrano le prime luci dell'alba mentre termino l'ultima pagina di quello che si è rivelato proprio ciò che sospettavo: il diario di mia madre.
Ho gli occhi che bruciano, in parte perché ho letto quasi al buio, ma anche per tutte le lacrime che ho versato.
Parola dopo parola, pagina dopo pagina, ho sentito come se lei fosse qui, accanto a me, come se la sua voce fosse tornata a riempire la stanza. Ho immaginato le sue mani che accarezzano i miei capelli, la sua presenza, pronta a consolarmi.
Ho letto della sua adolescenza, del difficile rapporto con un padre troppo oppressivo. Un uomo all'antica che imponeva le sue volontà a suon di urla e ricatti.
Ho scoperto anche che mio padre non è stato l'unico amore della sua vita. Che erano due i ragazzi che le avevano rubato il cuore e i pensieri.
Fino alle ultime pagine, fitte fitte di parole che il traduttore fatica a rendere con precisione, il suo cuore era combattuto tra il bello e tenebroso Shandor, che mio nonno disprezzava per le sue origini rom, e un altro ragazzo, il cui nome, sbiadito o mal trascritto, non sono riuscita proprio a decifrare.
Poi ho notato un salto temporale nelle date che lei annotava sopra ogni pagina. Per tre mesi interi ha smesso di scrivere. Come se la sua vita fosse diventata così frenetica da non lasciarle il tempo per annotare i suoi pensieri.
Riprende solo per scrivere solo un'ultima postilla:
« Shandor è felice, dice che andremo in Italia, io e lui, a ricominciare insieme, lontano da tutti i giudizi cattivi e dalle malelingue. Lontano da mio padre e dai suoi traffici disonesti. Ho paura, non so se sia la decisione giusta quella che ho preso, ma io questo bambino lo voglio, e so che se restiamo qui, per noi non ci sarà futuro.»
Leggo e rileggo quest'ultima frase, quasi a volerla incidere nella memoria. Lei, da mio padre, ha trovato il coraggio per lasciare tutto e mettermi al mondo. Io invece questa forza non so se ce l'ho, e devo affrontare tutto questo da sola.
Richiudo il quaderno e lo poggio sul comodino accanto al letto. Sul display del telefono leggo l'orario: sono le cinque e quindici. Avverto all'improvviso la stanchezza che mi appesantisce le palpebre e, senza neanche accorgermene, mi addormento.
Sono in riva al mare, l'acqua tiepida lambisce i miei piedi.
Ma quelli che vedo, immersi nell'acqua fino alle caviglie, sono i piedi di una bambina, non di un'adulta. Indosso un costume intero, azzurro, con un pesciolino bianco ricamato sul davanti.
Ora lo ricordo, era il mio preferito.
Intorno a me non c'è nessuno, la spiaggia è deserta. Alle mie spalle c'è solo un ombrellone piantato nella sabbia. Sotto, due sedie sdraio, ma sono vuote. Poco più in là un pallone di plastica rotola spinto dalla leggera brezza marina.
Che ci faccio qui? Ho come l'impressione di essere in attesa di qualcosa o di qualcuno. Forse dovrei avere paura, ansia. Invece sono assolutamente tranquilla, quasi sorrido.
Continuo a fissare il mare finché, in lontananza, mi giunge l'eco di una risata femminile. Curiosa, volgo lo sguardo nella direzione di quel suono squillante che mi mette allegria. E li vedo, venire verso di me, mano nella mano: mio padre e mia madre, giovanissimi come non li ricordavo. Lui porta a cavalcioni sulle spalle un bimbetto piccolo, avrà forse un paio di anni, con una folta zazzera di capelli neri come la notte che risplendono sotto il sole. Sgambetta felice e con le manine paffute gli cinge il collo. Mia madre fa un cenno verso di me. Mi ha vista. Mi saluta con la mano e mi indica al piccoletto.
Un moto di gelosia mi fa imbronciare le labbra.
Da dove arriva questo "invasore" che sta catalizzando l'attenzione dei miei genitori?
Quasi stizzita, mi avvio, pronta a reclamare i miei diritti di figlia unica.
Un passo, due passi, tre passi, ma la distanza tra noi non sembra mai diminuire. Inizio a correre verso di loro, ma nulla cambia. È come se corressi sul posto, senza avanzare mai.
Esausta mi fermo e sbuffo.
«Mami, papi!» Li chiamo per attirare la loro attenzione e invitarli ad avvicinarsi a me.
Mio padre sorride e nello stesso tempo si china per permettere al bimbetto di scendere dalle sue spalle.
Il piccolo poggia i piedini a terra e compie qualche passetto traballante.
I miei lo sospingono leggermente verso di me. Lui, incerto, continua a camminare.
«Eleonora!» La voce di mia madre mi giunge ora lontana, ma non le presto attenzione perché, ho ripreso a muovermi e sono quasi vicina al piccolo, che mi guarda e sorride.
Protendo il braccio per toccarlo, e lui fa lo stesso. Le nostre dita si sfiorano e si intrecciano. Ora siamo mano nella mano. Lui, però, vuole continuare a camminare, in direzione opposta rispetto ai miei. Io non voglio.
All'improvviso, ho paura: voglio andare dai miei genitori, che sono ancora fermi e mi stanno guardando.
«Mami, venite anche voi. Non voglio proseguire da sola con lui. Chi è? Cosa vuole?» Urlo, ma il suono della mia voce si disperde nel silenzio.
Il piccoletto si aggrappa alla mia mano e mi strattona; vuole a tutti i costi continuare la sua passeggiata con me.
Ma io sono troppo indecisa sul da farsi.
Lo guardo e gli accarezzo i morbidi capelli neri che incorniciano il suo bel visetto tondo. Mi sorride contento e io mi perdo nel suo sguardo. Ha un taglio di occhi bellissimo, a mandorla, come quelli del mio papo. Il colore, simile al cioccolato fuso, è di una tonalità unica, mai vista prima. Sono occhi che mi trasmettono serenità e dolcezza.
Mi accorgo, che senza volerlo, abbiamo ripreso a camminare, sempre mano nella mano.
Mi fermo e con lo sguardo cerco ancora i miei genitori.
Ma alle mie spalle non c'è più nessuno.
Ora, su questa spiaggia, ci siamo solo io e questo bimbetto che mi stringe la mano.
Mi sveglio di soprassalto e subito il mio sguardo si posa sul comodino, dove è poggiato il diario di mia madre. Lo prendo e lo stringo al petto.
Il ricordo del sogno che ho fatto è talmente vivido che mi sembra di averlo vissuto davvero. Sento ancora sulla pelle il calore dei raggi del sole; ho ancora davanti agli occhi i volti dei miei genitori, giovani e sorridenti. E nella mia mano, ho la sensazione di percepire ancora la manina del piccolo invasore.
Lo so chi sei, piccolino. Ora lo capisco bene. Sei apparso nei miei sogni per tendermi una trappola. Perché vuoi nascere e hai paura che io possa impedirlo. Sai bene che quegli occhietti vispi, di quel colore unico che solo lui possiede, quei capelli neri, lucenti e morbidi come i suoi, avrebbero fatto breccia nel mio animo.
Ma tu lo sai, piccolo marmocchietto, cosa sento nel profondo del mio cuore.
Dove c'era un solco profondo, là dove lui mi ha trafitta, tu, dal primo istante, hai iniziato un lento lavoro di ricostruzione.
Da quando sono consapevole della tua esistenza, hai ricucito i lembi strappati della ferita, hai lenito il dolore che portavo, hai alleggerito la fatica dei miei respiri.
Sai anche che ho lottato, che ho opposto resistenza. Il cervello ha tante volte fronteggiato il cuore. È stata una lotta aspra, dura. Ma tu, piccoletto, sapevi già come sarebbe andata a finire.
E ora sono qui, vinta, arresa a quel tuo bel faccino, a quelle tue manine paffute, a quel sorriso che, ne sono certa, sarà inequivocabilmente uguale al suo.
Perché so bene che, se non potrò avere mai più lui, avrò per sempre te.
Forse non sarò la mamma che ti aspetti. Sono imperfetta, piena di insicurezze, impulsiva. Sempre pronta a seguire l'istinto più che la ragione. Ma ce la metterò tutta, proverò a essere la mamma giusta per te. E non importa se lui non ci sarà, se non sa neanche che esisti.
Ti prometto che io, per te, ci sarò sempre!
Benvenuto nella mia vita... anzi, benvenuto alla vita, piccolo!
Rieccomi qui con un nuovo capitolo ambientato nel passato.
Eleonora ed Emanuele affrontato entrambi, ignari l'uno del destino dell'altra, una importante scelta di vita.
Emanuele passivamente accetta un matrimonio che non vuole. Una scelta dettata solo dal desiderio di garantire a suo figlio/a una famiglia.
Eleonora decide di far nascere il suo bambino, consapevole delle difficoltà che dovrà affrontare e facendosi guidare, come al solito, dal suo istinto.
Sono entrambi spaventati da quello che sarà il loro futuro. Stanno facendo la scelta giusta?
Grazie di cuore a chi mi legge e scusate se, con le lunghe attese tra una pubblicazione e l'altra, metto a dura prova la vostra pazienza.
Vi abbraccio tutte. A presto!
Maria
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