Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Capitolo 2: Rewind

LE VICENDE DI QUESTO CAPITOLO SONO AMBIENTATE NEL PRESENTE

EMANUELE

Alzarmi di scatto, facendo spostare rumorosamente la sedia, è stato un riflesso spontaneo che non sono riuscito a trattenere quando l'ho vista. Così come non riesco a trattenere questo tremolio che sento in tutto il corpo.

Senza neanche rendermene conto, avanzo di un passo verso di lei. Mi supera indifferente, come se fossi invisibile, e va a stringere la mano al rettore.

Spero che non mi coinvolgano in questa conversazione, perchè non so se sarò in grado di interloquire tranquillamente. Ho bisogno di qualche minuto per riprendermi dallo shock.

Qui, a due passi da me, c'è Ele, la mia piccoletta. Mi sembra di vivere un sogno.

Non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Cazzo, ci sto provando, ma non ci riesco.

Più la guardo, più mi rendo conto di quanto sia meravigliosa. So che sembrerò il solito maniaco, ma i miei occhi non riescono a guardare altrove. Devo provare a darmi un contegno. Ma come faccio? Lei è il mio magnete, e io non riesco a opporre resistenza alla forza di attrazione che esercita su di me.

Se sapesse che ho ancora le sue foto salvate nella galleria del telefono, probabilmente mi riderebbe in faccia. Eppure è vero. Non so quanti cellulari ho cambiato, ma l'album con le sue fotografie l'ho sempre trasferito. Inutile dire che quelle foto le ho guardate più volte in questi anni. Non volevo dimenticarla; volevo ricordare ogni dettaglio di lei: ogni morbida curva, ogni sfumatura della sua pelle chiarissima. E ogni volta che lo facevo, maledicevo me stesso e la mia immaturità di allora. Ero un fottuto burattino delle mani di mio padre, che è riuscito abilmente a manipolarmi.

Al contrario, lei ha distolto immediatamente lo sguardo. Solo per un breve, impercettibile attimo, le sue iridi scure si sono riflesse nelle mie e ciò che ho intravisto in quel buio profondo mi ha fatto rabbrividire.

Nei suoi occhi non c'è più nessuna traccia di quello sguardo triste che solo lei aveva, quella sua strana forma di malinconia che mi faceva desiderare di stringerla a me, per proteggerla da tutte le brutture della vita.

Cristo santo quanto tempo è passato?

Tanto, troppo.

Nove anni? No, ma che dico. Sono esattamente quasi dieci anni.

Dieci lunghi e fottutissimi anni che ci siamo persi di vista.

Beh, persi di vista è un eufemismo. Sarebbe più corretto dire che dieci anni fa lei è sparita nel nulla, dopo che io le ho straziato il cuore, portandosi via una buona parte della mia voglia di vivere.

Dieci anni in cui mi sarò chiesto chissà quante volte dove fosse, cosa stesse facendo e se, per caso, mi stesse pensando anche lei. E invece, il destino ha voluto che oggi arrivassi qui, a Tirana, in Albania, a non so quante migliaia di chilometri dall'Italia, per ritrovarmela davanti così, per caso.

Che coglione sono stato, a quei tempi, a non immaginare che fosse venuta qui. Se non ricordo male, aveva i nonni albanesi. Me ne aveva parlato con disprezzo, perché non avevano voluto prendersi cura di lei dopo la morte della madre. L'avevano abbandonata a se stessa.

Quante volte, nei primi periodi dopo che mi ha lasciato, ho fantasticato su una scena del genere? Non si contano. Sognavo di incontrarla per le strade di città sconosciute, in qualche aeroporto, in un bar di chissà quale angolo del mondo.

Io che le correvo dietro per fermarla, lei che mi sorrideva imbarazzata, e finivamo poi a prendere un caffè insieme, parlando delle nostre nuove vite.

Avevo immaginato nei minimi dettagli cosa le avrei detto, ogni mia singola mossa, tutto quello che avrei fatto per chiederle scusa e ottenere il suo perdono. E invece, ora sono, qui impacciato come un ragazzino che non sa cosa fare.

Inizio a pensare che forse non mi abbia riconosciuto. Eppure non sono cambiato. Certo, il tempo ha lasciato qualche segno: qualche piccola ruga di espressione più marcata, i capelli più corti... insomma, non sono più il ragazzo che dieci anni fa cazzeggiava a destra e a manca.

Per lei, invece, il tempo sembra essersi fermato.

Vestiti neri, anfibi... A prima vista sembra sempre lei, la mia piccoletta.

I capelli, però, sono diversi. Lisci, perfetti, si vede che sono freschi di parrucchiere. Sta benissimo con la frangia che le copre la fronte. Chissà se li porta ancora rasati da un lato, ma così, come li ha ora, non riesco a vedere. Non vedo neanche se ha ancora l'elix e la mano di Fatima all'orecchio sinistro, se non ricordo male. Sono persino tentato di sporgermi un po' in avanti per sbirciare se la corta camicetta che indossa le lascia l'ombelico scoperto. Adoravo il suo navel.

Dopo il primo attimo di esitazione, è entrata con passo sicuro nella stanza e sta parlando in albanese con il rettore. Vorrei tanto poter capire il senso di questo loro discorso, ma purtroppo è una lingua a me totalmente sconosciuta. Dalle loro espressioni facciali, mi sembra di dedurre che ci sia stato qualche disguido. La vedo estrarre il cellulare dalla tasca, cliccare sull'icona della posta elettronica, soffermarsi un attimo a leggere, aggrottare le sopracciglia e poi portarsi una mano alla fronte, come se all'improvviso qualcosa le fosse più chiaro. Sorride, sembra interdetta, si pizzica il labbro inferiore con gli incisivi e si gira verso di me, allungando la mano in un gesto formale di saluto.

«Buongiorno, signor Maestri, molto lieta di conoscerla. L'Università delle Arti di Tirana le dà il suo benvenuto! Sono Elona Gashi e per le prossime otto settimane sarò la sua collaboratrice, nonché interprete e, già che ci siamo, anche autista personale.»

Nell'ultima parte della frase noto una certa sfumatura ironica nel suo tono.

Sta palesemente fingendo di non conoscermi, o almeno credo.

Come un automa, le stringo la mano e solo ora noto i tatuaggi che le ricoprono le mani e risalgono sulle braccia, fino a perdersi sotto le maniche della camicetta.

«Elo... cosa? Scusami, ma temo di non aver capito bene il tuo nome?»

Il mio sguardo stupito vaga dalla faccia sorridente del rettore, che assiste inconsapevole a questa bella scenetta, a quella decisamente scocciata di Eleonora.

Sì, proprio così. In questo non è cambiata per niente: quello che pensa le si legge in faccia, e in questo momento, quello che io leggo, con mia immensa delusione, è fastidio, noia o, come direbbe sicuramente lei, una vera rottura di coglioni.

«No, non mi chiamo Elo-cosa. Mi chiamo E.L.O.N.A. Gashi!» scandisce lentamente, come se stesse parlando a un bambino di tre anni. «È abbastanza semplice, crede di riuscire a memorizzarlo?» sottolinea, evidenziando che mi sta dando del lei mentre io le ho dato del tu.

Cristo santo, sta facendo la stronza. Ma, cazzo, quanto mi piace quel cipiglio nervoso che le leggo sul viso. Ora non mi trattengo più dal guardarla con discrezione, anzi. I miei occhi curiosi frugano il suo corpo, alla ricerca di altre differenze che annoto mentalmente: il septum al naso, altro inchiostro che le colora la pelle scoperta dalla scollatura della camicia, e chissà cos'altro sarà nascosto sotto quei cargo neri.

Ingoio a vuoto e, porca puttana, mi ritrovo a immaginarla nuda, sotto le mie mani che in questo momento fremono di vita propria. Vogliono toccare, sfiorare, stringere, e per tenerle a freno le infilo nervosamente nelle tasche dei pantaloni.

Le elargisco uno dei miei sorrisi più perfidi mentre fisso sfrontatamente per un'ultima volta l'attaccatura del seno. Voglio metterla a disagio, giusto per vedere come reagisce.

«Tranquilla, cercherò di memorizzarlo. Anzi, se preferisce, potrei chiamarla... signorina o signora Gashi?» Quando voglio, so essere stronzo anch'io.

È inutile che fingi di non conoscermi, piccoletta. Qui, davanti al rettore, starò al tuo gioco e fingerò anch'io che è la prima volta che ci incontriamo nella nostra vita.

Però questa cosa del nome diverso mi lascia perplesso. Soprattutto il cognome mi incuriosisce. Si sarà sposata, per caso?

Irrigidisce la postura e dilata leggermente le narici. La sto facendo incazzare e non lo nasconde affatto, ma non mi degna comunque di alcuna risposta. Anzi, alza gli occhi al cielo e cambia discorso.

«Come sicuramente le ha già spiegato il rettore durante l'attesa, la masterclass si terrà a Durazzo, nella sede distaccata dell'università, dove ci recheremo a breve. Alloggerà all'hotel Movenpick, e avrò il piacere di accompagnarla personalmente. Se vuole seguirmi?»

Fosse per me, ti seguirei anche in capo al mondo. Ora che ti ho ritrovata, chi ti lascia scappare di nuovo? Sono stato coglione una volta, non lo sarò anche la seconda. Se questa cazzo di vita di merda ha deciso di darmi una nuova opportunità, di certo non me la lascio sfuggire. Ora sono a tutti gli effetti un uomo libero, non c'è nessun legame, affettivo o altro, che mi tiene vincolato a qualcuno.

Il rettore, questa volta in inglese e quindi a beneficio di entrambi, si dilunga in un discorso in cui ci illustra come dovrà svolgersi il corso, fornendoci una serie di dispense illustrative da distribuire agli iscritti, con l'elenco relativo. Sono quindici in tutto, tra cui solo due donne. Mi spiega anche che in Albania suonare le percussioni è prerogativa soprattutto maschile. Le donne sono una rarità, e quelle brave sono davvero pochissime.

A queste parole, sento la mia collaboratrice sbuffare sommessamente e mugugnare qualcosa tra i denti in italiano, a mio esclusivo beneficio: «Maschilista del cazzo!», per poi increspare le labbra in un sorriso di circostanza rivolto al rettore, che sicuramente non ha capito di essere stato appena insultato e, anzi, ricambia con un sorriso sincero.

Dopo qualche altro minuto di convenevoli, il rettore ci congeda, fissando un nuovo incontro tra due settimane, in cui dovremo aggiornarlo sull'andamento del corso.

Faccio appena in tempo a recuperare la valigia per correre dietro a Ele, che sta già scendendo velocemente le scale, noncurante del fatto che forse avrei preferito prendere l'ascensore.

Il disagio è notevolmente alleviato dal fatto che starle dietro mi permette di ammirare il suo culo.

Cazzo, saranno anche passati dieci anni, ma la situazione non è cambiata affatto.

Il suo è uno dei culi più belli che io abbia mai visto, e mi sto trattenendo dal toccarlo, come facevo anni fa. Invece, stringo nervosamente la maniglia della valigia, ben consapevole che quelle a cui sto andando incontro potrebbero essere le otto settimane più belle o più tristi della mia vita.

ELEONORA

Ecco cos'era tutta quell'ansia che mi stava divorando lo stomaco! Lo sapevo, lo sentivo che quest'incontro con il rettore non poteva essere una questione semplice, risolvibile velocemente.

Col cazzo che era una cosa semplice! Sì, esattamente: col cazzo!

Da quando ho aperto quella porta e ho sentito la sua voce, sto vivendo un tumulto interiore che cerco in ogni modo di non far trasparire dalle mie azioni.

Sono andata via dall'Italia dieci anni fa proprio perché sapevo che non sarei stata capace di vivere in un luogo dove avrei potuto incontrarlo. Ho deciso di dare una svolta alla mia vita, per concedermi la possibilità di ricominciare, dopo che lui mi aveva distrutta.

È stato difficile, complicato, ma alla fine ce l'ho fatta, anche se, dentro di me, ho sempre saputo che non sarei mai riuscita a cancellarlo dalla mia esistenza.

Abbiamo qualcosa in comune che non potrà mai separarci. Un legame così forte che, anni fa, ci ha riavvicinati a sua insaputa. Non ho potuto sottrarmi al richiamo di ciò che ci aveva uniti indissolubilmente, anche se solo per un breve periodo. È stato allora, rivedendolo per pochi istanti, che ho capito che non avrei mai smesso di amarlo, nonostante avessimo scelto percorsi di vita diversi.

Non credo nel destino, sono sempre stata convinta che ciò che ci accade nella vita sia frutto delle nostre scelte e delle nostre azioni, ma quello che sto vivendo ora, rivederlo dopo tanti anni, nel mio mondo, nella mia quotidianità costruita a fatica giorno dopo giorno, cos'è, se non un amaro scherzo della vita?

Quando, mesi fa, il rettore mi chiese se mi sarebbe piaciuto collaborare con i colleghi di altre nazioni per dei seminari di approfondimento, mi sentii lusingata e accettai di buon grado.

Maledetta me e la mia testa di cazzo!

Se solo avessi riflettuto, ora non mi troverei in questa situazione. Ma si sa, io sono la regina delle cazzate. Anche quando sarò una vecchietta rincoglionita, resterò sempre la numero uno se si tratta di prendere decisioni avventate e deprecabili.

A questo punto, mentre cerco di arrampicarmi sugli specchi, per spiegare al rettore che le mail che mi hanno inviato nei giorni precedenti non le ho ricevute per un fantomatico bug nella mia casella di posta elettronica, e che quindi di questa master class del cazzo non so assolutamente nulla, non mi resta altro da fare, che fingere di avere ogni cosa sotto controllo e che andrà tutto per il meglio.

Peccato, però, che so benissimo che non sarà così. Ho troppi impegni, troppe cose da fare. L'inizio della stagione estiva è alle porte e non posso permettermi di deconcentrarmi. Dalla prossima settimana dovrò dedicarmi anima e corpo al mio lavoro, e il mio impegno sarà totalizzante.

Come farò a non impazzire? E come farò a fingere che quegli occhi predatori, che scrutano ogni centimetro della mia pelle, scoperta o meno, mi siano del tutto indifferenti?

Ancora non lo so, ma sicuramente troverò il modo di tenerlo a distanza.

Non devo permettergli di stravolgere tutto ciò che ho costruito qui.

Non deve assolutamente pensare che quel sorriso e quegli occhi mi abbiano turbata.

Sono solo otto settimane, passeranno in fretta. Cercherò di limitare la nostra interazione alle ore del corso e ridurrò la vicinanza fisica allo stretto necessario.

E poi, forse, mi sto solo preoccupando inutilmente. Magari lui neanche si ricorda di noi due.

Camilla, all'inizio, mi teneva sempre aggiornata su tutto ciò che gli succedeva. Mi tempestava di screenshot rubati dai social di Tiziana, accompagnati dai suoi messaggi pieni di pettegolezzi sulla loro vita di coppia.

Nel mio cuore ho continuato a sperare per un po' che il tradimento di Lele fosse solo una sbandata momentanea, ma le foto che ricevevo da Camilla erano inequivocabili.

Quella in cui erano abbracciati, con lei che mostrava sorridente l'anello di fidanzamento, l'ho fissata per ore, incredula, studiando scrupolosamente il volto di Lele per capire se quel sorriso stentato fosse sincero o semplicemente dettato dalla circostanza.

Poi ho detto basta, non aveva senso continuare a sperare in qualcosa che non si sarebbe mai realizzato. Stavo solo facendomi del male.

Ho imposto al mio cuore e alla mia mente di andare avanti, e ora non posso mandare all'aria tutti gli sforzi fatti.

È sposato e ha una figlia, e ho visto con i miei occhi quanto si amano. Ho visto le loro mani intrecciate, e ricordo bene quanto mi sia costato assistere a quella scena. È stato allora che ho deciso di non voler sapere più nulla di lui.

Ho la mia vita, i miei affetti. Devo solo concentrarmi su questo!

Ma non c'è niente di male, però, se per un attimo mi fermo a guardare quelle labbra piene e immagino di sfiorarle delicatamente con la lingua, fino a sentirne il sapore.

Non devo sentirmi in colpa se ho voglia di sfilargli la cravatta, sbottonare lentamente la camicia e accarezzare piano quel tatuaggio che so perfettamente dove arriva.

Ricordo ogni centimetro del suo corpo a memoria: la forza e la delicatezza delle sue mani, il suono della sua voce quando mi parlava mentre facevamo l'amore.

Se solo fosse cambiato, che ne so, ingrassato o diventato calvo, forse lo guarderei con occhi diversi. Invece, lui sembra sempre lo stesso. Anzi, quelle rughe quasi impercettibili vicino agli occhi, che si formano quando sorride, lo rendono ancora più affascinante. Quasi come se fosse diventato più maturo.

Mi manca l'aria, non vedo l'ora di uscire da questa stanza, accompagnarlo in albergo e poi, finalmente, tornare a respirare tranquilla.

Merda, mi sto distraendo troppo e non ho capito un cazzo di quello che il rettore sta dicendo. Per fortuna parla in inglese, quindi almeno Lele lo starà ascoltando. Peccato che, appena mi volto verso di lui, lo trovo a fissarmi sfacciatamente. Ma che cazzo ha da guardare? E poi, con quella sicurezza e sfrontatezza che mi fanno letteralmente girare le scatole.

Sto per esplodere, quando finalmente il rettore ci accomiata. Lo saluto in fretta e quasi scappo dalla stanza. Ho decisamente bisogno di aria. Senza neanche controllare se Lele mi sta seguendo, imbocco la scalinata che porta ai piani inferiori e quindi all'uscita. Tra l'altro, mi è appena venuto in mente che ho parcheggiato in sosta vietata, e una multa in questo momento è proprio l'ultima cosa che vorrei trovare.

Lo sento dietro di me mentre cerca di tenere il passo, trascinando quell'enorme valigia. Sono stata perfida a scegliere le scale invece dell'ascensore. Ma perché dovrei rendergli le cose facili? Poteva evitare di sovraccaricarsi di bagagli inutili. Che cazzo ci avrà messo dentro? Probabilmente tutto il suo guardaroba. Non è cambiato per niente, sempre perfetto e impeccabile come lo ricordavo.

Un precisino del cazzo era, e lo è ancora.

Rilassati, Ele, stai pensando troppe parolacce. Non lo facevi da tempo!

Cara coscienza, oggi non è proprio giornata, quindi per favore, non ti ci mettere anche tu!

Trattengo un vaffanculo a fior di labbra quando vedo, sul parabrezza della mia Tesla, un foglietto giallo incastrato sotto il tergicristalli. Lo sapevo, la solita sfiga! Con uno scatto felino afferro la multa e la infilo in tasca.

Spero che sia rimasto un po' indietro alle prese con la valigia e non abbia visto la scena.

Invece, lo sento sogghignare alle mie spalle: «Beh, signora Gashi, se si parcheggia nelle zone riservate, cosa ci si aspetta se non una bella multa per divieto di sosta?»

Lo fulmino con lo sguardo e vorrei rispondergli per le rime, ma mi trattengo. Fingo di non recepire il suo tono canzonatorio. Mi appresto a salire in auto, indicandogli il bagagliaio: «Signor Maestri, se cortesemente sistema la sua valigia con una certa velocità, perché avrei fretta.»

Mi guarda interdetto e mi regala uno dei suoi sorrisi più belli, che mi lascia quasi senza fiato. Cerco di restare impassibile, o almeno ci provo, anche quando lo vedo passarsi la mano dietro la nuca, un po' imbarazzato. «Ele, deve durare ancora molto questa cosa che fingiamo di non conoscerci?»

«Sono passati dieci anni, Emanuele. Un bel po' di tempo. Direi che possiamo considerarci due estranei, non credi?»

EMANUELE

Quindi, lei mi vede come un estraneo. Me l'ha detto chiaramente, con un tono così secco e tagliente da non lasciare spazio a dubbi o fraintendimenti. Questa sua esternazione mi ha ferito, non lo nego, ma di certo non mi rassegno.

Per me, la nostra relazione, anche se breve, è stata la più importante della mia vita.

L'amore che ho provato per Eleonora è secondo solo a quello che sento per mia figlia.

La mia Sole. Gli occhi corrono al tatuaggio. Ogni volta è così, e sarà così per sempre.

L'arrivo di una telefonata per Eleonora mi permette di riprendermi da questo momento di sconforto.

La osservo mentre, prima di rispondere, indossa gli auricolari. È evidente che non vuole farmi capire chi c'è dall'altra parte della linea.

Mi incanto a guardarla mentre, presa dal dialogo e dalla guida, non mi degna neanche di un'occhiata. Vorrei che usasse con me quel tono dolce che ha ora, vorrei che fossero per me i sorrisi che le vedo fare. Vorrei che fosse per me quel bacio che sento schioccare prima di chiudere la chiamata. Poi si volta verso di me, con aria interrogativa, e mi becca di nuovo a fissarla.

Colto in fallo, dico la prima cazzata che mi passa per la testa: «Bella quest'auto! A che velocità arriva?»

Lei sorride, dondola la testa per sistemarsi i capelli dietro le spalle e mi indica il tachimetro digitale al centro del cruscotto.

«Questo modello può arrivare fino a duecentocinquanta all'ora, è una sensazione divina!»

Sento il motore salire di giri e l'auto fare uno scatto in avanti.

È bellissima, con gli occhi che le brillano per l'eccitazione che le dà l'alta velocità, e io lascio libera la memoria, che mi riporta a quella corsa sul mio T-Max. Lei guidava per la prima volta e io le davo piacere con le mie mani.

«Ne hai fatta di strada, piccoletta. Dal mio scooter sei arrivata a guidare una Tesla. Parlami un po' di te, Ele. Cosa hai fatto in tutti questi anni?» Mentre pronuncio l'ultima parola, mi pento subito di aver formulato questa richiesta.

Non mi risponde, ma è evidente che la domanda l'ha turbata.

L'auto decelera mentre imbocchiamo l'uscita verso Durazzo, per poi immetterci su una strada che ha tutte le sembianze di un lungomare: alberghi, ristoranti, lidi balneari, gente che passeggia. Ho subito la sensazione che questo posto mi piacerà. Mi ricorda tanto Manfredonia, ma in una versione più moderna e affollata.

«Questa è Durazzo, o meglio Durrësi, come la chiamiamo noi albanesi. In estate è piena di turisti, di gente che si diverte. Un bel posto, insomma.» Spegne l'aria condizionata e abbassa i finestrini, lasciando entrare l'aria salmastra che le scompiglia i capelli.

Il traffico è allucinante, si procede a passo d'uomo. Sto ancora aspettando che risponda alla mia domanda, rimasta nel vuoto.

«A quest'ora è sempre così! Purtroppo, però, per arrivare a Lalez Bay, dove si trova il tuo albergo, questa è l'unica strada che posso percorrere.» Lo dice con tono di scusa, come se il traffico fosse colpa sua.

Apre il vano portaoggetti, fruga con la mano e poi lo richiude con forza, sbuffando.

«Che sfiga del cazzo. Non ho sigarette! Ero convinta di averle prese, ma nella fretta forse le ho lasciate chissà dove. Tu ne hai una delle tue fatte a mano?» Lo dice con una spontaneità che mi fa trasalire. Ricorda ancora che le rollavo le sigarette anche per lei.

Le porgo il mio pacchetto di Camel e la vedo restare un po' perplessa, mentre con la bocca ne pesca una. Le avvicino l'accendino e lei aspira avida. Poi si rilassa e mi sorride. Ma sono solo le labbra ad accennare il sorriso; negli occhi vedo riaffiorare quella sua tristezza che prima mi era mancata.

«Sono cambiata Emanuele. Cazzo se sono cambiata. Non lo vedi? Di quella ragazzina insicura e debole che ricordi tu non è rimasto nulla!» Sussurra, soffiandomi una nuvola di fumo addosso.

Finalmente ho avuto la risposta alla mia domanda.

ELEONORA

Guidare mi rilassa. Di solito.

Guidare con Emanuele seduto al mio fianco è un'altra storia.

Sono tesa come una corda di violino. Da un momento all'altro mi spezzerò, lo sento.

Sento anche i suoi occhi addosso, costantemente. Mi sta studiando, attento, osserva ogni mio movimento. Anche adesso, convinto che io sia distratta dalla telefonata appena arrivata, mi scruta con attenzione.

Quando ho visto chi stava chiamando, ho indossato subito gli auricolari prima di rispondere. So che non avrebbe capito nulla, visto che parlo in albanese, ma mai gli avrei permesso di sentire la sua voce.

Mi sono divertita un mondo a sgamarlo mentre mi fissava assorto. Ho trattenuto a stento una fragorosa risata per la cazzata che ha tirato fuori quando l'ho colto in flagrante. E ne ho approfittato per lanciare la Tesla a una velocità folle.

Tutta colpa sua, sì. La mia ossessione per le auto e le moto potenti è solo una sua responsabilità. Le emozioni che ho provato alla guida del suo T Max non le ho più dimenticate, e appena ho potuto, ho voluto riviverle. Anche se, senza la sua presenza e senza le sue mani addosso, non è stata esattamente la stessa cosa.

Dio, quanto sto diventando patetica.

Possibile che sia ancora legata a vecchi ricordi di episodi che non si ripeteranno mai più?

Sospiro, esausta. Questa situazione sta mettendo a dura prova il mio sistema nervoso, proprio come il traffico di Durazzo all'ora di punta.

Ho bisogno di nicotina. Ora. Subito.

Spalanco i finestrini e l'odore del mare, insieme a un bel venticello tiepido, entrano prepotenti. Frugo nel vano portaoggetti in cerca delle mie Camel. La sfiga oggi mi perseguita: nessuna traccia di sigarette. Il mio cervello perfido sblocca un altro ricordo: Lele che rolla le sue tabacchelle per me. E senza riuscire a frenarmi, gliene chiedo una.

Ottimo, Eleonora! Non eri tu quella che gli ha appena detto che siete due estranei? E ora, invece, gli dimostri che i tuoi ricordi sono ancora impressi nella memoria?

Coscienza del cavolo, ti ho detto che oggi non è giornata. Non angosciarmi anche tu, per favore!

Alla mia richiesta, lui trasale, e l'espressione compiaciuta che gli leggo in volto dà ragione al mio alter ego.

Che faccia da stronzo arrogante.

Sono miseramente crollata dopo solo due ore. Tutti i miei propositi di resistere all'evidenza dei fatti sono andati a fanculo.

Sei uno stronzo, Lele Maestri!

E lo sei per tanti motivi.

Per essere riapparso dal nulla dopo dieci anni.

Perché più ti guardo e più capisco che, anche questa volta, mi rovinerai la vita e io non riuscirò a oppormi. Mi strazierai il cuore e lo calpesterai di nuovo, come hai fatto tanto tempo fa, quando ti sei preso tutta me stessa: i miei sogni, le mie debolezze. E mi hai lasciata da sola ad affrontare una delle scelte più difficili di sempre.

Perché, da quando ti ho visto questa mattina, so di non aver mai smesso di amarti.

Perché non rolli più le tue tabacchelle e mi offri invece una Camel, e io mi illudo che tu abbia cambiato gusti per ricordarti di me.

La nicotina arriva rapida al cervello e mette un freno alle mie farneticazioni.

Riacquisto la lucidità che, per qualche attimo, era andata a farsi fottere.

A fatica, il cervello riesce a prevalere sul cuore.

Devo farcela. Devo resistere e non lasciarmi andare a romanticherie del cazzo. Non è proprio il momento.

Ora ho un altro serio problema da affrontare, che si presenterà a breve, perché mentre imbocco il viale d'accesso dell'hotel Movenpick Lalez, vedo nel parcheggio riservato al personale un'auto fin troppo familiare.

Rieccomi con un capitolo fiume: più di quattromilacinquecento parole per farmi perdonare il ritardo.

Come ho scritto all'inizio, questa volta ci troviamo nel presente.

Spero che questi salti temporali non siano fastidiosi per chi legge. Se così fosse, fatemelo sapere nei commenti.

Ci sono chiari riferimenti a situazioni vissute da entrambi i personaggi, che verranno approfondite nei prossimi capitoli, ambientati nel passato.

Secondo voi, riusciranno questi due a essere dei buoni colleghi di lavoro?

È evidente che provano ancora qualcosa l'uno per l'altra...

Grazie per essere sempre con me! Non vedo l'ora di leggere i vostri commenti!

Come sempre, se vi va, potete seguirmi sia su Instagram che su TikTok. Il nome del profilo su entrambi i social è emmeffebooks.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro