Capitolo 8
Il risveglio fu traumatico: mio padre aprì la porta di scatto e urlò di alzarmi.
Mi spaventai a morte.
Il mio primo istinto fu quello di balzare in piedi e scagliargli una raffica di parolacce, prenderlo a pugni e scappare via da quella casa di pazzi.
Invece mi trattenni e dissi: «Papà, piantala di fare lo spiritoso.»
«Ma bambina mia, la cena è pronta» mi schernì.
«Piantala! Stai diventando pesante.»
«Mi trovi ingrassato?» chiese toccandosi la pancia.
Oltre a essere spiritoso era pure stupido. Quell'ironia mi dava sui nervi, tanto quanto la sua ignoranza.
«Ti sembra il modo giusto per svegliarmi?» chiesi quasi in lacrime.
Mandai giù l'amarezza.
Io ero più forte.
Io valevo molto di più.
Io non meritavo tutto questo.
«Papà?»
«Sì?»
«Ho detto, ti sembra il modo giusto per svegliarmi?»
Non rispose alla domanda. Lasciai perdere.
Uscii e mi diressi in cucina.
Erano le sette e trenta di sera e la mia cara famigliola era già pronta per cenare serenamente con amore.
«Dormito bene?» chiese mia madre mostrando un'espressione divertita.
Era una donna di trentanove anni e di una bellezza esagerata. I suoi riccioli castani le contornavano quel viso da bambina matura. Fissai quegli occhi verdi che mi scrutavano nel profondo.
Non risposi.
Francesca, ormai complice, scoppiò in una risata e mia madre la imitò.
Ero talmente abituata alle stronzaggini della mia famiglia che anche in quel caso lasciai perdere.
In quella casa vigeva un senso dell'ironia che non capivo e che non m'interessava capire.
Di pari passo, la mia voglia di indagare e scoprire se fossi realmente figlia loro, aumentava.
Per un periodo mi girò per la testa di essere stata adottata. Con loro non avevo nulla da condividere. L'unica cosa che mi trasmettevano era una fottuta solitudine. Ma a lungo andare mi ci ero abituata, per cui quando ero in loro compagnia preferivo rimanere in silenzio.
Mangiai.
Mio fratello stava discutendo con nostro padre del loro rispettivo futuro. Sofia, seduta sul seggiolone di fianco a me, giocava, facendo bolle con una cannuccia infilata nel bicchiere. E io cominciai a pensare a quel ragazzo sconosciuto che mi aveva aiutato nel pomeriggio con il motorino.
Entrai così a fondo in quei pensieri che le parole della mia famiglia, si fecero lontane, indistinte.
Rivissi la scena: seduta sul motorino guardai verso lo sconosciuto e i suoi occhi mi fissarono intensamente.
Mi persi in quelle cavità verdi-marroni.
Sentii una vibrazione nella tasca della felpa che mi fece sussultare. Tirai fuori il cellulare.
Avevo parecchi messaggi. Due erano da parte di Carlo, l'altro di Camilla, una cara amica più grande di me che frequentava l'università.
Mi informava su una festa che davano al campus, al ritrovo degli universitari.
Carlo, invece, mi scriveva di dare un'occhiata su Youtube, sul canale di Mirkosar.
Il video tra me e il bulletto aveva avuto tremila visualizzazioni nel giro di poche ore.
Dovevo assolutamente vederlo.
«Tu che ne pensi, Viola?» chiese tutto d'un tratto mio fratello.
Mi ero persa tutta la conversazione.
«Cosa?» risposi distrattamente.
«Come cosa? Non ti frega mai un cazzo di niente. Vivi sempre in un'altra dimensione. Te e quel cazzo di telefono.»
Mio fratello non aveva l'ironia dei nostri genitori, lui era sempre invaso da una certa incazzatura.
Era suscettibile all'ennesima potenza.
«D'accordo, non stavo ascoltando. E quindi?»
«Quindi un cazzo!»
Sbuffai scocciata.
Gli occhi di Giovanni si dilatarono parecchio. Era furioso. Sbatté la forchetta sul piatto e buttò il tovagliolo sulla tavola. Si stava per alzare, ma Francesca gli prese il braccio e gli intimò di restare seduto.
«È così importante, questa cosa, da voler menare tua sorella? Non ti facevo così banale»dissi, sfidandolo.
Il tovagliolo di carta scomparve nella sua mano. Il mio caro fratellone era furioso. «Sparisci dalla mia vista» ringhiò.
Il resto dell'amorevole famiglia osservava la scena senza fiatare, abituati com'erano all'imprevedibilità dei loro figli. Del loro prediletto e dell'innocua bambina.
«Spiegami perché dovrei sparire. Questa è pur sempre casa mia.»
Fissai Giovanni, il despota.
«Ti do cinque secondi.»
Era paonazzo e le vene del suo collo sembravano sul punto di esplodere da un momento all'altro.
«Altrimenti che fai?»
Silenzio tombale.
Mi ero scavata la fossa da sola.
Osservai tutti quanti. Uno alla volta.
Mio padre mangiava il suo spezzatino come se intorno a lui non stesse succedendo nulla. Mia madre, con l'aria da passerotto indifeso, quasi tremava sulla sua sedia. Non sapeva se piangere o cacciarmi, così da evitare di andare contro al suo caro primogenito. Mia cognata stringeva la mano sinistra del suo amato. Sofia non si accorgeva di nulla. E io attendevo la risposta di Giovanni.
«Sparisci. Subito.»
Non m'interessava sapere cosa stessero dicendo. Non m'interessavano i loro stupidi discorsi.
Così, andai in bagno, mi lavai i denti e mandai un messaggio a Carlo, dicendogli che sarei passata da lui l'indomani. Infilai le scarpe da ginnastica, presi il giubbotto dall'attaccapanni e salutai la mia dolce famiglia, uscendo di casa.
Non fecero una piega.
Potevo benissimo fuggire ovunque: a loro non sarebbe interessato.
Spazio autrice:
Ehila, Wattpadiani, come state?
Avete mai avuto la voglia di fuggire da qualche parte?
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