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Capitolo 11

Per tutti i diavoli! pensai, appena aprii gli occhi. È buio pesto.
Che diavolo sta succedendo?
Questo fu il mio primo risveglio nello sgabuzzino abitabile.
Provai una bruttissima sensazione. Murata e sepolta viva!

Feci abituare la vista, ma i miei occhi videro solamente nero. Da sotto la porta si intravedeva uno spiraglio di luce, ma non era abbastanza per illuminare quel loculo.
Allungai il braccio verso l'abat-jour e a tentoni trovai l'interruttore.

Presi il cellulare e lessi l'ora: 10.45.
C'era anche un messaggio di Carlo su Whatsapp:
-Ciao, oggi non venire a scuola. Ho sentito dire in giro che Moro vuole fartela pagare. Passa da me per i compiti.-

Un sorriso beffardo mi si dipinse in volto. Ci sarei andata a scuola. Eccome!
Non avevo paura di quel bulletto, anzi, avevo in mente molte cose per lui. L'avrei messo al suo posto. L'avrei fatto diventare un agnellino.

Decisi di andare a fare la doccia.
Cercai di aprire la porta ma non si aprì. Qualcosa all'esterno dello sgabuzzino la bloccava.
Pensai subito a uno stupido scherzo di mio padre. Quello svitato si credeva Peter Pan.
Sentii dei rumori provenire da fuori e urlai: «Papà, apri la porta!»
Silenzio assoluto. E i rumori continuavano. Capii che qualcuno stava spostando qualcosa di pesante. Riprovai: «Qualcuno mi sente?»
Il niente assoluto.
Dio, che vita infame hai scelto per me.

Spinsi la porta, appoggiandomi con la spalla. Spinsi più che potei. Si aprì di qualche centimetro. Quel poco che bastò a farmi capire cosa diavolo stava succedendo.
Un mobile era appoggiato alla porta. Introdussi il viso in quel piccolo spazio tra il muro e la porta e chiamai: «C'è qualcuno?»
Apparve Sofia.
«Ci sono io.»
«Ciao, bambolina. Che sta succedendo?» «Papà sta portando mobili nuovi in camera di Giovanni.»
«Ok. Ma loro dove sono ora?»
«In camera.»
«Puoi dire a papà di venire qui un attimo?»
Sofia se ne andò.
Speravo in lei, non tanto in mio padre.
Ritornò quasi subito.
«Papà vuole sapere cosa vuoi?»
Santo Cielo, che nervi.
Provai una tale rabbia che mi diede la forza per spostare ancora di qualche centimetro la porta, e alla fine riuscii a uscire da quella miserabile situazione, senza l'aiuto di quello stupido di mio padre.

Scoprii che il mobile era il vecchio fasciatoio in cui eravamo stati tutti noi membri della famiglia Chiantini. Mancavano poco più di due mesi all'evento dei nuovi nascituri.
Non gli diedi molto peso.
Baciai Sofia e mi chiusi in bagno.

Finii di fare la doccia, andai nel loculo e mi vestii. Poi mi diressi in cucina. Scaldai il latte e caffè, mi sedetti al tavolo e mentre inzuppavo i biscotti osservavo i movimenti che c'erano in quella casa.
Gli uomini della famiglia stavano ancora trafficando con i mobili e le donne attendevano sedute sul divano. E io, ogni volta che li guardavo, avevo un unico pensiero: ero stata
scambiata con qualche altra bambina nella culla appena nata. Sì, ne ero certa.

Non avevo nessuna intenzione di incontrare Giovanni, così finii di fare colazione e uscii di casa.
L'invisibile Chiantini esce di scena.

Partii con il motorino e mi diressi verso la scuola. Desideravo capire che cosa voleva fare il bulletto.

Arrivai in anticipo e mi fermai al solito posto, vicino al motorino di Carlo.
Guardai un po' in giro, giusto per stemperare l'ansia che si stava impossessando di me.
E dall'altra parte della via, attraverso la vetrata di un bar, notai lo sconosciuto. Era in compagnia di una ragazza. La studiai. Sedeva composta e ogni tanto si spostava i capelli dal viso. Lui le parlava e sorrideva.
Chi diavolo era?
Una strana gelosia s'impossessò di me.

Continuai a osservare quella ragazza fortunata. Sorseggiava il suo drink e sorrideva. Allungò il braccio e gli accarezzò la mano e continuava maledettamente a sorridere.
Sarei andata lì e le avrei strappato via quella sua chioma mora tanto fashion.

Ma la visione svanì appena sentii alle mie spalle la voce del bulletto.
Mi voltai e vidi Moro contornato dal suo seguito. Persone inutili, vestite uguali, tutti con la stessa pettinatura, senza personalità. Ognuno era il riflesso dell'altro.
Anche le cretine, Federica, Martina e Carolina, erano tutte quante simili; alla moda, sorriso finto, atteggiamenti costruiti come un rolex fabbricato in Cina.

«Ehi, guardate un po' chi c'è? La cagna!» disse, indicando verso la mia direzione.
D'istinto mi guardai in giro. Cercavo quella poverina derisa dallo stronzo. Ma nelle vicinanze c'erano solo Carlo e Ciccio.
E l'insulto era rivolto a me.

Mostrai un'espressione interrogativa.
«Ce l'ho con te, CAGNA!» urlò.
Questa mi era nuova.
Per quale motivo mi chiamava cagna. A me!

Sul momento rimasi perplessa, mentre lui continuava a usare quella parola come se fosse una cantilena snervante.
«Cagna, cagna, cagna.»
E tutti quanti ridevano. Ridevano di me.

La rabbia mi assalì e partii all'attacco: «Ma la pianti? Sei solo uno sfigato che vuole farsi grande davanti a loro» dissi, indicando le cretine, che alla vista del mio dito puntato si strinsero tra loro come se fossero state tre cucciole impaurite in attesa di essere salvate. «Hai solo voglia di riempire quell'immenso buco della tua inutile vita.»
«Sentite come abbaia la cagna» insistette, facendomi incazzare di brutto.
Quel nomignolo non mi piaceva affatto.
Per di più, gratuito.
«Ma vedi di piantarla, altrimenti...» «Altrimenti che fai? Mordi?»
Avevo una gran voglia di scagliarmi contro di lui, buttarlo a terra e prenderlo a pugni.

Rimasi a guardarlo, respirai a fondo e mi trattenni. Lui, invece, non aveva nessuna intenzione di tacere. Continuò, dicendomi: «Se mi mordi, rischio di prendere la rabbia, oppure qualche strana malattia. La povertà è sinonimo di sporcizia.»
Quell'ultima frase fu un colpo basso. Come se mi avesse dato un pugno allo stomaco. Mi mancò l'aria e mi venne da piangere.
Mandai giù il groppo amaro e risposi: «L'ignoranza è sinonimo di inettitudine.» Avevo imparato questo termine grazie alla lista della parola del giorno. «E tu hai scarse capacità esistenziali, se non nel dimostrare di essere semplicemente un coglione.»

Li avevo ammutoliti tutti. Non ridevano più. E Moro non credeva a ciò che stava succedendo.
Guardava tutti con un'espressione stupita e io non ero poi così sicura di quello che avevo detto. Ma avevo fatto centro. Come se gli avessi restituito il pugno, in faccia però.

A modo mio cercavo di imparare più cose possibili, tramite i compiti che mi passava Carlo e i libri che leggevo. Bisognava cavarsela in qualche modo. E forse ce la stavo facendo anche senza frequentare una scuola.

Ma il bulletto aveva detto una verità: ero povera. Povera da far schifo! Ma non ero sporca. Se fosse stato a conoscenza della mania ossessiva compulsiva di mia madre per la pulizia e l'igiene personale si sarebbe ricreduto. Non ci stavo. Non desideravo farmi sminuire da un personaggio simile, da uno che non capiva nemmeno le mie parole. E mi accorsi che Mirko aveva registrato tutta la scena. E sapevo anche che fra pochi minuti il video sarebbe stato online e visibile a chiunque. Bullismo virale.

E visto che non sapevo più chi era il bullo e chi la vittima tra i due, chiesi: «Spiegami una volta per tutte. Che cazzo vuoi da me?»
Il bullo riemerse dallo stato di incredulità, sorrise e disse: «Abbiamo una cosa in sospeso.»
«Non ci conosciamo, come possiamo avere qualcosa in sospeso?»
«Mi stanno prendendo tutti per il culo, per colpa tua.»
«E per quale motivo?»

La folla di studenti si era riunita alle spalle di Moro mentre io avevo vicino Carlo e Ciccio. «Non te lo ricordi?» disse irritato.
«Vuoi ricordarmelo tu?»
«Senti, cagna, mi hai stufato.»
Venne verso di me e Mirko lo seguì puntandogli il cellulare addosso.

«Senti, bulletto da quattro soldi, dacci un taglio. Non vorrei smerdarti nuovamente.» «Allora te lo ricordi?»
Distava pochi metri da me.
«Chiaro.»
E diedi gas al motorino andandogli incontro.
«Cazzo vuoi fare?»
«Questa è matta.»
«Io mi sposto.»
«Aiuto, ci vuole uccidere tutti!»
Il bulletto indietreggiò velocemente, nascondendosi dietro la folla che lo aveva seguito.

Schivai due ragazzi fermi e impietriti dal mio gesto, altri tre caddero sopra una fila di biciclette alla loro sinistra, alcuni riuscirono a scostarsi in tempo. Io feci la gimcana verso le cretine ferme vicine al marciapiede della scuola e arrivai di fronte al bulletto. Allungai il braccio, afferrai il suo zaino e lo strattonai. Volevo farlo cadere. Ma lui si voltò di scatto e mi diede uno spintone. Persi l'equilibrio e caddi a terra.
«Adesso chi è dei due la sfigata? Tu, CAGNA! Sei solo una povera e inutile cagna. Cazzo volevi fare? Il Moro non perdona.»
E rise di gusto svanendo tra la folla.

Mi alzai e tirai su il Ciao.
Si erano dileguati tutti, tranne Carlo e Ciccio. Non dissero nulla, mostrarono solamente un'espressione carica di comprensione.

Guardai verso il bar e notai lo sconosciuto che mi fissava. Mi sentivo umiliata, triste, sfigata.
Che diavolo mi ero messa in testa?
Quel bulletto faceva sul serio.

Dovetti spostare lo sguardo dallo sconosciuto in compagnia di quella ragazza, per non fargli vedere le lacrime che mi inondavano gli occhi. A stento riuscii a trattenerle.

Spazio autrice:
Ehila, Wattpadiani, come state?
Moro ha iniziato a prendere di mira Viola, ed è solo l'inizio.
Ma quanto è brutto l'insulto che subisce?

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