Prologo
31 Dicembre 1923, New Orleans
L'uomo si guardò intorno, lanciando occhiate ai turisti che anche in quella grigia giornata di fine dicembre affollavano il centro storico di New Orleans.
Dal Cafè du Monde, dall'altra parte della strada, arrivava l'odore di caffè di cicoria caldo e di bignè, mentre le auto passavano rombando poco più in là. Le nubi e il cielo erano di un grigio lugubre che ben si addiceva all'umore cupo di lui.
La maggior parte dei venditori ambulanti di Jackson Square non montava bancarelle durante l'inverno, ma la Signora Cheryl, la vicina di casa, considerava il suo trespolo da cartomante come una delle attrazioni della città, al pari della cattedrale di St Louis alle loro spalle.
Il tavolino da carte da quattro soldi era nascosto da uno spesso panno viola, ricamato invocando formule 'speciali' che solo la famiglia di Cheryl conosceva. Madame Selene - era così che si faceva chiamare - era seduta lì dietro con indosso un'ampia gonna verde scamosciata, un maglione di lana viola fatto a mano e un ampio soprabito nero e argento. L'accozzaglia di colori colpiva il senso estetico di lui.
«Cosa c'è, Fabrice? Hai il volto scuro.»
Lui si passò una mano tra i capelli chiari e sul viso dai lineamenti regolari passò un'ombra di fastidio, constatando che avevano bisogno di una sistemata. Ma era stato troppo occupato a star male per la fine della turbolenta relazione con Louise per preoccuparsene.
Era finito il tempo dei lunedì trascorsi insieme. Liberi. Lui dagli impegni lavorativi al locale, dove suonava il piano, e lei dal marito.
Il suo odore. I suoi ricci. La sua schiena perfetta e i sogni stesi tra i loro corpi nudi. E lui che mentre la guardava le sussurrava piano, per non essere sentito: resta così, dove ho tutto. Non voltarti potrebbe essere pericoloso.
Potrei chiederti di pugnalarmi forte, con questa scheggia di felicità che è nostra e non è mia e che non so davvero come contenere.
Non sanguinerò. Sarà il mio ultimo atto d'amore.
Cheryl, leggendogli negli occhi color foglia, interruppe la direzione dei suoi pensieri.
«Stai ancora pensando a quella donnaccia!»
Sospirò e scosse la testa. «Finirà male, te l'ho detto, e non c'è neanche bisogno di leggerlo nelle carte» disse, indicando lo sdrucito mazzo di tarocchi.
***
Il locale in cui Fabrice lavorava era situato nel quartiere di Storyville, era il tipico speakeasy, quei locali (non troppo) segreti che con il Proibizionismo erano fioriti a New Orleans. Si trattava di un seminterrato allestito a bar con volte in mattoni, pietra a vista e arredi essenziali. Ciò che illuminava posti come quello era la musica, il cui volume doveva essere tenuto basso per non destare sospetti.
La musica era rauca, spezzata, distorta. Come la sua anima in quel preciso istante. Nessuno dei musicisti che lavoravano al Louisiana aveva un'educazione musicale, eccetto Fabrice, che aveva imparato le meraviglie del pianoforte da sua madre, un'ex cantante lirica italiana, passata a miglior vita quando lui aveva solo dodici anni. Il pianoforte era l'unico ricordo ancora vivido di un'infanzia trascorsa in strada, dove viveva di espedienti, per sopravvivere a un padre assente e violento.
Quello che rendeva speciale la musica che si faceva in quei posti nascosti erano le 'sporcature', le imprecisioni. Non c'era neanche bisogno di provare, perché tutto era basato sull'improvvisazione.
Jim al bar gli fece un sorriso tirato appena i loro occhi si incrociarono. Fabrice salutò i ragazzi agli ottoni, ignorando volutamente il barista. Sapeva già cosa voleva chiedergli, ma lui non aveva voglia di dare risposte.
C'erano ancora poche persone, ma entro poco il locale si sarebbe riempito di fumo e di gente.
Sentendosi ignorato, il barista di colore richiamò la sua attenzione alzando un bicchiere Old fashioned di quel nuovo cocktail, originario di Firenze, sbarcato da poco a New Orleans. Si chiamava l'Americano alla moda del Conte Negroni perché in fondo era un Americano con l'aggiunta di gin. Per comodità ormai lo chiamavano Negroni. Era diventato il suo drink preferito, più o meno da una settimana.
Si alzò dallo sgabello del pianoforte per prenderlo.
«Come va, amico?» chiese Jim con lo sguardo corrucciato. Non doveva essergli sfuggito lo stato pietoso in cui versava. Erano giorni che non dormiva decentemente. Un'ansia animale gli scavava voragini nel petto; da quando, la settimana prima, mentre faceva l'amore con Louise, lei gli aveva messo le mani sul petto - come ad allontanarlo - e, guardandolo con gli occhi neri come l'Inferno, tra le cui fiamme lui soleva bruciare vivo, e il viso ancora arrossato per l'ultimo orgasmo, gli aveva detto: «Non ti amo più!»
Si può rivivere un attimo mille volte al secondo? Evidentemente, sì. E quell'attimo scartavetrava le viscere come un mostro ormai familiare. Tirava e dilaniava per poi ricominciare. Un'agonia infinita. I pochi momenti in cui chiudeva gli occhi, sabbia e asfodeli popolavano i suoi sogni. Piovevano violenti. Pioveva di violenza e non era certo Settembre, il mese in cui era nato.
«Hai Venere in Scorpione» gli aveva detto una volta Madame Selene. «Vivi l'amore con violenza, ragazzo. Stai attento, potresti bruciare all'Inferno!» aveva aggiunto, guardandolo preoccupata.
Come darle torto? I suoi risvegli erano sempre tra sabbia e asfodeli, a raggranellare quattrini mescolando quattro note, fuori da ogni concretezza, da ogni funerale empireo, abbassando la sordina per non sentirsi forte e coinvolgersi ancora, tra le sue gambe appena dischiuse, su quel vimini, il nero folto, tra l'eburneo.
C'è chi disprezza i fautori del senso assoluto, forzato, e chi li irride.
Tracannò il bicchiere tutto d'un fiato, non aveva mangiato nulla e quasi non sentì il bruciore che gli straziò lo stomaco. Incastrato tra il costato c'era qualcosa che bruciava di più.
«Un altro, Jim!»
Il barista scosse desolato il cranio pelato, per poi imprecare quando i suoi occhi di onice si soffermarono su qualcuno che era entrato nel locale in quel momento. Lui non aveva bisogno di girarsi a guardare chi fosse. Vedeva ogni singolo infinitesimale dettaglio. Le iridi nere come il peccato e la bocca rossa come il furore. Le ciglia lunghe che creavano ombre sottili sul viso quando socchiudeva gli occhi in preda al piacere. I capelli corti e neri, come usavano portarli le 'ragazze perdute'. Flappers le chiamavano. L'inseparabile bocchino d'argento, regalo di quel marito troppo distratto per vedere gli amanti che si susseguivano tra Pasqua e Natale. Il vestito scintillante e bianco, come la purezza che non aveva mai avuto, che disegnava curve delicate: i seni piccoli, la vita stretta a cui le sue mani grandi si avviluppavano come tralci di vite. Così piccola tra le sue mani tanto grande l'ombra che gli aveva lasciato sul cuore. Percepiva ancora il suo odore, frammenti del suo corpo che correvano nelle sue vene guaste, trasportava messaggi indecifrabili e sorrisi disciolti nel suono di passi sensuali. Il suo odore era la sua fame e il suo bisogno che parlava attraverso le distanze più remote. Si muoveva e il suo odore - forte e delicato - lo aggrediva usando la sua voce.
Arrivò il secondo Negroni. Anche questo andò giù senza che ne sentisse il sapore. Jim sospirò. «Amico, suvvia, la vita continua.»
Fabrice sorrise triste mentre posava il bicchiere e tornava al pianoforte. Le mani cominciarono a correre sui tasti. Come cosa estranea al suo corpo.
Certo, la vita continua, pensò. In fondo quello che è successo a me, è successo a tanti altri. Ci saranno ancora le schiere delle illusioni, delusioni, collusioni e i fatti della vita tutta. Ci saranno a morderci i talloni, a spillarci le labbra; a cucirci le palpebre ci sarà il ricordo del ricordo della felicità. E ci saranno le stelle, i nostri stessi corpi. E le nenie dei gatti che diventano buongiorno dell'allodola, prima che canti il gallo. E gli abbandoni, e lo sprezzo, e la parte peggiore di un'umanità già a brandelli che sottoscrive fiera ogni crudele sua azione. E un cervello pulsante in una gabbia toracica ci sarà; e un cuore-diamante abbandonato con circospezione in una discarica, di notte. E le frequentazioni senza scopo, e tanti attribuiti significati trovati tra le pieghe di una giornata, da non poter condividere; e solo l'eco del nome che rimbalza da tempio a tempio, come prologo accecante quanto, appunto, fatuo e derisorio. E le promesse dorate che danzano in aria come se fosse in autunno agosto. E il crepitio della paglia, e il calore dimenticato ci sarà; e il momento in cui si sente di dover chiedere scusa.
E i denti da latte incastonati in piccoli cimeli di poco valore ci saranno. E un neo all'angolo della bocca. Ci saranno i sorrisi e gli invisibili passi di danza al suono dell'Andante cantabile e del secondo movimento della Quinta Sinfonia; ci saranno da ricordare alcuni tramonti, così rossoarancio in cielo e bianchi di vesti al ballo di campagna.
Ci sarà il nuovo anno, ma per i nati, come lui, con Venere in Scorpione ci saranno alla fine sempre risvegli tra sabbia e asfodeli.
Partecipante come OS al Contest "Bollicine" di CasadelleCivette
Premio: Miglior Trama
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