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Epilogo


New Orleans, 1932

Cheryl osservava Fabrice camminare avanti e indietro di fronte al suo banchetto mentre effettuava una lettura per una cliente.
Nonostante con i suoi trentasette anni fosse un uomo maturo, la sua andatura catturava ancora l'occhio. Qualche donna un po' più sfrontata infatti si era avvicinata, ma lui l'aveva ignorata. Era divertente osservarle camminare attorno impettite mentre lui rimaneva impassibile.
Cheryl non l'avrebbe mai ritenuto possibile solo qualche anno prima. D'altro canto, anche lei poteva giungere a detestare il cioccolato se ne mangiava troppo.
Sorrise tra sé prima di tornare alle carte. Fabrice sembrava terribilmente agitato. Scuotendo la testa, Cheryl notò che ignorava l'ennesima occhiata di un'attraente bionda. Quell'uomo continuava a essere una calamita per estrogeni.

Terminò la lettura e la cliente andò via un po' più rinfrancata di come era arrivata.
Fabrice attese qualche minuto prima di tornare al suo tavolino.
«Credi abbia finito le prove?»
Cheryl avvolse le carte nella sua sciarpa di seta nera. «Ma perché non vai ad aspettarla all'Orpheum Theater?» sbottò, «invece di fare il solco qui.»
«Magari è meglio» replicò lui, a voce tanto bassa che Cheryl non fu sicura di aver sentito bene.

Fabrice l'aiutò a rinchiudere il banchetto e spinse il carrello fino al piccolo capanno che aveva affittato per ospitarlo. Non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe potuto permetterselo. Dalla crisi del '29 la gente non si era ancora ripresa e i clienti erano sempre meno.
«Vai, su! Tabby sarà più emozionata di rivederti dopo tanto tempo, piuttosto che esibirsi per la prima volta nella sua città. Stasera saremo tutti lì per lei.»
Gli occhi scuri le brillavano di soddisfazione. La sua piccolina era diventata una concertista di fama.

In quel momento arrivarono un paio di pittori con cui Cheryl era ai ferri corti. Avevano tentato di farla sloggiare dalla piazza per accaparrarsela loro. Erano ricorsi anche alla forza pubblica. Senza successo. Aveva dunque il dente avvelenato contro di loro, così prima di andare via esclamò a gran voce: «Questo è il mio posto dal 1920! Che ci provino questi qui a mandarmi via perché sono gelosi. A chi è che interessano i loro squallidi ritratti del Quarter, poi? Sono stupidi! Cosa sarebbe New Orleans senza i suoi sensitivi? Sarebbe solo un'altra noiosa e fatiscente città per turisti, ecco cosa!»
Fabrice la abbracciò con comprensione.
«I tempi cambiano, Cheryl!», poi la spostò in modo che potesse guardare il palazzo dall'altra parte della strada.
«Sai, il piano terra di quel palazzo è in vendita. 'Madame Selene - Lettura tarocchi e boutique del mistico'. Riesci a immaginarlo?»
Cheryl sbuffò. «Sì, come no... Come se potessi permettermelo.»
Fabrice scrollò le spalle. «I soldi non sono un problema. Vendiamo il mio appartamento. Io ormai non ci abito più. Sono spesso in viaggio per la Victor e ho la villa che Lee mi ha lasciato in eredità. Una parola ed è tuo.»

Cheryl lo guardò sbattendo le palpebre, come se non riuscisse a credere a ciò che le stava offrendo. «Davvero?»
Lui annuì. «Puoi mettere un cartellone proprio qui che indirizzi la gente al tuo negozio nuovo di zecca, dove potrai leggere le carte fino a scoppiare di gioia.»
Lei si schiarì la gola mentre considerava l'idea. «Sarebbe bello! Ma non posso accettare...»
«Io guadagno bene con il lavoro alla Victor e ho ancora buona parte del patrimonio che Lee mi ha lasciato. Jim gestisce i due locali qui e Joseph si è sistemato a Chicago... »
«A proposito, come sta Joseph? Mi manca tanto.»
Fabrice fece un sorriso malinconico. «Sta bene. Suona con i migliori artisti jazz e vive con la persona che ama... anche se non può farlo alla luce del sole.»
Alzò gli occhi per un attimo e guardò il cielo terso. Pensò a chi non c'era più e che tanta generosità aveva riversato su di lui e i suoi amici. Grazie Lee. Ovunque tu sia!

«D'inverno non moriresti di freddo e d'estate non prenderesti insolazioni. Pensaci.»
Cheryl annuì con entusiasmo.
«Più tardi passo a prendere le ultime cose rimaste nell'appartamento. Ora vado o rischio di non poter vedere Tabby prima del concerto.»
Cheryl gli sorrise. «Grazie» disse solo.
Fabrice non la sentì perché si era già incamminato verso Decatur Street.

Quando la vide uscire dal teatro, quasi stentò a riconoscerla. Era diventata alta, ma continuava a essere gracile anche se il corpo era ben definito, come quello di una ballerina. I lunghi capelli castani ramati erano raccolti in una coda di cavallo. Non aveva mai ceduto alle mode susseguitesi negli anni. Con l'immancabile custodia di violino in mano, Tabitha Baker camminava come se fosse su un altro pianeta, ignorando gli sguardi ammirati dei colleghi che la salutavano. Quando Fabrice si mosse per andarle incontro, lei girò la testa nella sua direzione e lo vide. Un sorriso radioso la illuminò tutta.
«Da quanto tempo...» sussurrò appena lo ebbe vicino, resistendo all'impulso di saltargli addosso come faceva quando era bambina.
Fabrice avrebbe risposto, ma lei scelse quello stesso istante per avvicinarsi e baciarlo sulla guancia. Il sincero affetto di lei lo travolse.

Tabitha si staccò e lo prese sottobraccio. «Andiamo, ho fame! Se non ne approfitto ora, non avrò più tempo di farlo prima del concerto.»
La bocca di Fabrice si allargò in un sorriso. Certe cose non cambiavano mai.
«Non ci vediamo da quattro anni e la prima cosa a cui pensi appena mi vedi e riempirti la pancia?» disse canzonatorio.
«Sono abitudinaria, dovresti saperlo» rispose lei a tono.

Quando arrivarono in Bourbon Street, la via brulicava della folla della domenica pomeriggio. Tabitha si sventolò la faccia per combattere la calura opprimente. Alzò gli occhi verso Fabrice, che riusciva persino a sudare in modo attraente. I capelli umidi si arricciavano attorno al viso, e gli occhi avevano assunto una tonalità smeraldina più intensa. Al suo aspetto affascinante contribuiva la camicia bianca, che gli enfatizzava le spalle ampie. Non le sarebbe mai passata, ammise dentro di sé.
«Che c'è? Non ti ricordavo così silenziosa» constatò lui, scuotendo il capo senza rallentare il passo.
Tabitha si staccò dal braccio, gli prese la mano e lo fece fermare. «Sono emozionata...» confessò.
Lui sorrise e le rivolse un'occhiata beffarda. «Non è mica il tuo primo concerto!»
«Non è per quello.»
Proseguirono lungo la strada. Fabrice esibì il suo sorriso con le fossette. «Per cosa allora?»
Lei scosse il capo. «Questa è New Orleans, la città in cui sono nata... e qui ci sei tu.»
Tabitha osservò la sua espressione mutare. Stava ricordando qualcosa di poco piacevole, ne era certa.
«Non appartengo più a questa città.»

Camminarono in silenzio mentre lei cercava di pensare a qualche modo per tirarlo su di morale, dopo che aveva così bruscamente cambiato umore. Davanti alla Casa del Voodoo di Marie Laveau, Tabitha si fermò e lo trascinò dentro. Fecero il giro di quella specie di museo.
«Ooh» esclamò lei, prendendo una bambola voodoo maschile da un espositore. «Vuoi vestirlo come il tuo capo alla Victor e infilargli un bel po' di spilli?»
Nonostante in tutti quegli anni non erano riusciti a vedersi, si erano scritti molte lettere. Ognuno conosceva morte e miracoli dell'altro.
Fabrice rise. «Be', non sarebbe molto professionale da parte mia, no? Mi ha dato pure un aumento cospicuo. Ma è un'idea allettante. E tu, vuoi far finta che si tratti di Julian Carmichael?»
«Stupido!»
Julian Carmichael era un violinista che gareggiava con Tabitha in quanto a bravura. Avevano studiato insieme e raggiunto entrambi traguardi prestigiosi. Il loro era un rapporto fatto di ammirazione e, soprattutto, rivalità. Fabrice sosteneva che sotto il continuo sfidarsi ci fosse dell'attrazione, ma Tabitha gli rispondeva sempre che aveva altro a cui pensare.
«Quel cretino borioso se lo meriterebbe proprio.»

Rimise giù la bambola e il suo sguardo cadde sulla vetrinetta in cui erano esposti amuleti e gioielli. Al centro della teca c'era una collana con i fili color nero, blu e verde militare intrecciati in modo tanto intricato da sembrare quasi un sottile cavo nero.
«Porta fortuna a chi lo indossa» disse la negoziante, notando il suo interesse. «Le piacerebbe vederla?»
Tabitha annuì. «Funziona?»
«Sì, certo. L'intreccio dei fili è imbevuto di una forte magia.»
Negli anni il rapporto di Tabitha con la magia non era affatto cambiato, però la collana le piaceva. Pagò la donna, poi si rivolse a Fabrice. «Abbassati» gli disse. Lui parve scettico. «Andiamo,» lo canzonò «accontentami.»
La negoziante si mise a ridere mentre Tabitha gliel'allacciava attorno al collo.
«Al signore non serve un portafortuna, chère, piuttosto avrebbe bisogno di un incantesimo per distogliere l'attenzione di quelle due che gli fissano il sedere mentre è chinato.»
Tabitha guardò alle spalle di Fabrice e vide due ragazze che lo stavano rimirando da capo a piedi. Per la prima volta nella sua vita, non provò una fitta di gelosia. Sto maturando, pensò. Gli sguardi delle due donne li seguirono finché non furono di nuovo in strada.

Mangiarono al Mike Anderson's.
Fabrice aveva poco appetito, rigirava il cucchiaio nel piatto. La luce del giorno morente gli colpiva i capelli mettendone in evidenza i riflessi. Stava perfettamente dritto sulla sedia. Lo sguardo assorto.
«Come stai, Fabrice?»
«Me la cavo» rispose, esitante. «Sono molto impegnato con il lavoro e mi tengo lontano dai... guai.»
Tabitha si schiarì la gola. Rifletté sull'opportunità di chiedergli se fosse felice. Non ne ebbe il coraggio. C'era una sorta di tristezza nel suo sguardo che le faceva male al cuore. Cambiò discorso.
«Ed Evelyn, l'hai vista?»
Fabrice abbozzò un sorriso che non arrivava agli occhi. «Sono andato da lei appena tornato dal mio ultimo viaggio. È tutta presa dall'orfanotrofio. Ancora non mi sono abituato a vederla in quelle vesti.»
«Da dirigere un bordello a una casa per bambini orfani è un bel salto. Spero che ciò le faccia pensare di meno a...» Il nodo alla gola le impedì di continuare.
Fabrice la guardò negli occhi. «Non si è rassegnata, Tabby. Crede che suo figlio sia ancora vivo.»
«Mi dispiace così tanto. Anche io per tanto tempo ho rifiutato l'idea che Antony fosse morto. Ma sono passati otto anni, se fosse stato vivo...» Non riuscì a continuare a causa delle lacrime.
Fabrice le afferrò le mani attraverso il tavolo. Stettero così in silenzio per diversi minuti.

Usciti dal locale, Tabitha si rese conto di essere in ritardo. «Devo scappare. Ci vediamo più tardi, vero?» chiese.
Fabrice fece di sì con la testa. «Non posso perdermi il tuo concerto. Partirò domani mattina. Mi aspettano a Buenos Aires.»
Lei strabuzzò gli occhi. «Devi andare laggiù con la situazione politica che c'è?»
«Già... Pare sia di vitale importanza per la Victor mettere sotto contratto un promettente quartetto.»
«Non potevano venire loro...»
«Pare che io debba convincere il loro manager, una ricca vedova, Vivienne Michaels. Un tipo tosto mi dicono...»
Tabitha scoppiò a ridere. «Vedi di non metterti nei guai con la vedovella.»
Lui la guardò in cagnesco. «Ma ti pare! E poi sarà un'attempata signora immune al mio fascino di uomo del Sud» obiettò.
«Tra qualche settimana dovrò partire anche io per la tournée in Europa. Roma. Parigi. Vienna.» Emise un lungo sospiro. Poi gli sorrise e lo abbracciò. Chiudendo gli occhi, lo tenne stretto a sé. Chissà quando l'avrebbe rivisto. «A stasera, Fabrice» mormorò.

Dopo aver fatto a ritroso la strada, Fabrice si ritrovò davanti al suo vecchio appartamento. Aveva ancora un po' di tempo prima dell'inizio del concerto e voleva dare un'occhiata alle cose rimaste lì per decidere cosa farne. Salì le scale. A casa Baker c'era un gran fermento a giudicare dalle voci elettrizzate che arrivarono al suo orecchio.
Entrò nella sua vecchia dimora e chiuse la porta dietro di sé. I ricordi lo investirono come un treno. Ecco perché tornava di rado in quel posto.
Osservò in modo svogliato i pochi oggetti rimasti. Il suo sguardo fu attratto da una vecchia scatola di cartone appoggiata accanto al divano. Lì dentro c'era una parte del suo passato. Vi si accostò con una certa riluttanza. Aprì la scatola con le mani che tremavano e tirò fuori bigliettini e lettere mai spedite. Non aveva mai creduto alla storia che Louise avesse ucciso Arturo Bosco con la complicità di un fantomatico amante. Avrebbe tanto voluto parlarle, ma era sparita nel nulla. Così aveva scritto decine di lettere. Ora tutte quelle parole gli sembrarono superflue. Inutili.

Una fetta di torta fatta di vaniglia e acquiescenza, con le briciole che corrono leggere dal labbro al bordo del piatto e poi in terra.
Un breve viaggio intorno al mondo, una molecola piroettante in uno spettacolo di fuochi d'artificio, che vive il ciclo suo necessario, che secca la pianta sul mezzanino, che offre alla freccia il petto, e tutto questo senza misura.
Parole volanti, e la remissione a farne ghirlanda, all'aurora.
Meno di un metro al prossimo anno, e la perla d'amarezza scivola dal lobo fin dentro la borsa, nel buio di una sala d'aspetto a treni fermi.
Come un ricamo, come un fiume che avanza nei pressi, come nota incostante la resa dell'argine, è la traiettoria del pensiero deragliato, che non si può prevedere, che lascia l'azione che segue all'ordine del caso, segreto e presente, nemico ma unico.
Ora nella festa delle scale, nel biscotto del rimorso, fuori da ogni cornice e stesa sopra ciò che per alcuni non è moquette, si colora gli occhi di scuro azzurro un'altra mattina improbabile, che se fosse un fiore sarebbe di sbiadita plastica, l'effluvio al petrolio, stelo finto e corolla artificiale che, per non vedere, si ritarda sempre il risveglio, negando al sonno il suo senso e all'alba la sua fresca notizia.
Noi arriveremo stanchi al Tempio del Tempo, forse scalzi e dopo un lungo cammino, per riascoltare il rumore della caffettiera fumante, dell'acqua calda che corre nei tubi e i primi soffici e ottusi rumori della strada, e saremo sfiorati dall'aria di un sogno notturno, soffiataci al viso da chi ci abbraccia dormendo.
È sarà l'alba quando ai piedi delle colonne, alzandoci il bavero, sentiremo gli anni chiuderci gli occhi, magari a non riaprirli, così come certe donne delle pulizie sembrano chiudere certe finestre, a noi che le guardiamo da fuori, per sempre.

***

Buenos Aires

«Signora Michaels!»
La donna mora continuò a guardare fuori dalla finestra, dando segno di non averla sentita.
«Signora Michaels...» insistette.
Finalmente l'interpellata si girò. Dopo otto anni non si era ancora abituata al suo nuovo nome. Vivienne Michaels! Che strana scelta aveva fatto Frank Bosco quando le aveva procurato quella nuova identità. «Dimmi, Clara.»
«Ho appena ricevuto comunicazione dalla Victor. Sta arrivando uno dei loro uomini per discutere della band. Si chiama...»
La ragazza bionda lesse il bigliettino che aveva in mano. «Fabrice Gautier.»
«Grazie, Clara. Puoi andare» rispose, cercando di mantenere un tono di voce quanto più neutro possibile. Che strani scherzi fa il destino!

Uscita Clara, andò dritta alla sua scrivania e tirò fuori un foglio usurato dal tempo. Quando aveva lasciato New Orleans aveva portato via solo qualche vestito e tutte le lettere che Fabrice le aveva scritto durante il periodo della loro relazione. Quella che aveva in mano era datata 22 luglio 1923. Chiuse gli occhi, non aveva bisogno di leggere, conosceva il contenuto a memoria.

Luglio, vetrina del Sole, nome azzurro, tripudio di messi, sandali, sagre e balli in campagna.
Tutto si illumina e brilla, quel Sole ti guarda dritto negli occhi e c'è più sete e c'è più sudore.
Il caldo tra le spighe, secco e spietato, avvolge noi due, confusi dal nostro amore.
In cucina si preparano insalate di frutta e piatti freddi e si aspetta la sera per poter respirare.
Al mare la sabbia è granelli minuscoli di fuoco e l'acqua tiepida.
Ma questo cosa c'entra?
Toglimi la polvere dagli occhi, sì, così.
Anche se tenere gli occhi chiusi o aperti non fa la differenza, quando si è ciechi.
E cos'altro siamo, se non cecità?
Non c'è soluzione al di là dell'amore.
Lascia aperte porte e finestre per creare una piacevole corrente e riuscire a prendere sonno.
Ti costerà soffocare i gemiti dentro un cuscino, ma la corrente del fresco sul viso ti darà poi un vero sollievo.
Aspetteremo l'autunno per lavorare con ago e filo.
Sì, ricucire sentimenti ed emozioni.
Ma il punto è un altro.
Se il mare non entra in un bicchiere non è perché il bicchiere è già pieno.
Non si può generare un sentimento che non si possa poi contenere.
L'amore liquido si misura in capacità.
Così il dolore.
Dove sono le anime impavide?

Come sail your ship around me
and burn tour bridges down

Le sfuggì una lacrima. La lasciò scorrere sul viso. Aveva bruciato ogni ponte dietro di sé. Ora era pronta.

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