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Capitolo XXXVIII

«Sai, Tabitha, andarsene in giro il primo dell'anno aggrappata al tuo cazzo di violino è una roba da... fuori di testa.»
Seduta a un tavolo d'angolo del Cafè du Monde, in attesa che il cameriere tornasse col suo caffè nero di cicoria con frittelle, Tabitha grugnì alle parole di Antony. Passò la mano destra sulla custodia del violino, che aveva poggiato sulla sedia accanto, mentre guardava la strada di fronte a sé e osservava passare gente del luogo e facce nuove.
Seduto alla sua sinistra, Antony aspettava sornione la sua risposta piccata. Ma lei aveva deciso di non dargli soddisfazione, almeno per il momento.

Si era svegliata tardi appena dopo le undici solo per trovarsi pateticamente a corto di caffeina. Cheryl era occupata a trafficare in cucina con le sorelle schierate ai suoi ordini, non sembrava aver bisogno di altro aiuto. Si era allora concessa a malapena il tempo di mettersi un vestito viola, che aveva visto tempi migliori, e il cappotto prima di andare in cerca della dea Caffeina. Preso il violino era scesa in strada.

La fredda tarda mattina di New Orleans era a stento illuminata da un sole velato dalle nuvole. Non c'era molta gente per strada, fatto inconsueto in un giorno di festa. Nonostante il clima e la desolazione, Tabitha era euforica e non per i bagordi del Capodanno, ma perché qualche giorno prima aveva ricevuto la lettera dal College-Conservatory of Music che la informava di essere stata accettata come allieva.
La famiglia era al settimo cielo, specie mamma Cheryl; Fabrice era contento per lei, nonostante il brutto periodo che stava attraversando; Lee addirittura voleva organizzare una festa. Non restava che comunicarlo ad Antony. Non si erano dati appuntamento, ma era sicura di trovarlo a bighellonare per il Quartiere Francese. Infatti, giunta in Decatur Street, era apparso come un fantasma e, notato il violino, aveva alzato gli occhi al cielo. Tabitha, ignorando le continue battute sarcastiche, lo aveva trascinato al Café du Monde.

La ragazza sospirò e riportò i pensieri alla conversazione. «Se fossi meno pungente, ti spiegherei il perché vado in giro con il violino.»
Antony sbuffò. «Hai deciso di accaparrarti un angolo in Decatur Street e suonare per i passanti? Di certo ne caveresti qualche spicciolo che però non ti ripagherebbe delle ore che sprechi con quell'aggeggio in mano e sotto il mento. A proposito, non hai paura che prima o poi ti venga il gozzo?!»
«Stronzo!»
Antony lasciò andare un respiro lungo e stanco. «Sì, lo sono.»

Tabitha lo guardò interrogativamente. C'era qualcosa che non andava in lui, cioè che non andava più del solito. «Mi dispiace, qualunque cosa ti stia succedendo » gli disse, cauta.
Lui sembrò non averla nemmeno sentita. Cambiò posizione sulla sedia. «Allora, sputa il rospo, ti sento fremere dalla voglia di dirmi qualcosa da quando ci siamo incontrati. Sta diventando fastidioso...»

Il cameriere portò il caffè e un piattino con tre frittelle abbondantemente ricoperte di zucchero a velo. Tabitha sospirò in segno di approvazione.
«Quanto ti piace quella robaccia!», constatò il rosso con l'aria disgustata.
«Oh, sì!» La ragazza annusò l'aroma del caffè, lo mise da parte e allungò la mano verso una frittella. L'aveva a malapena toccata quando vide qualcosa dall'altro lato della strada, sul lato destro di Jackson Square, lungo Pedestrian Mall.
«Che succede?»
«Cosa?» Antony seguì la direzione del suo sguardo. «Sbirri» sussurrò.

Si aggiravano fermando i passanti e facendo domande. Antony strinse gli occhi. «Hai commesso qualche reato Tabitha Baker?»
«Non sono io quella che va in giro con un coltello nei calzoni» rispose, indispettita.
Intanto i poliziotti avevano imboccato la strada che portava ai locali 'nascosti'.
«Qualche accoltellamento di fine anno» sentenziò il rosso.
Tabitha lanciò un'occhiata bramosa alla tazza mentre ponderava cosa dovesse avere la priorità. «Caffè... Frittelle... Caffè... Frittelle...»
Antony schioccò la lingua. «Smettila di fare la cretina e dimmi la novità.»
Dopo un rapido sorso di caffè che le scottò la lingua, disse tutto d'un fiato. «Mi hanno presa al College!»
Gli occhi scuri sembrarono illuminarsi della luce residua del sole che stentava a farsi spazio tra le nuvole.

«Quando andrai via?» La voce del ragazzo era appesantita, stanca.
«Tra qualche mese, non subito...» Era stata talmente felice della notizia che non aveva pensato alle persone che avrebbe dovuto lasciare. L'idea di abbandonare Antony a se stesso le provocò un senso di oppressione al petto. Fu sul punto di dirgli che in ogni caso sarebbe tornata di tanto in tanto a New Orleans, non si sarebbero persi di vista. Ma che senso aveva? Si chiese. Antony prima o poi sarebbe tornato a New York con suo padre.
«Stai bene?», le domandò all'improvviso. «Eri tutta felice e ora sembra che ti sia morto il gatto» aggiunse Antony, prima di sbadigliare.
«Sì», Tabitha fece un bel respiro. «Mi dispiace solo che sarà difficile poi vederti. Io in Ohio e tu a New York...»
«Non tornerò a New York.»
«Cosa?» chiese la ragazza, alzando il tono della voce.
Il rosso inclinò la testa. «Delusa?»

Tabitha contò fino a dieci e poi gli gettò le braccia al collo, rischiando di cadergli addosso con tutta la sedia. Lui rimase immobile, sorpreso dal gesto. Non rispose all'abbraccio ma lei non parve dispiacersene. Si staccò da lui e afferrò la custodia, armeggiò per togliere il violino. Si alzò in piedi e si mise in posizione. Prima di abbassare il mento sullo strumento, lanciò un'occhiata al ragazzo che sembrava non respirare tanto era immobile e rigido.

Quando le note della Allegro di Haydn invasero il Cafè du Monde e la strada, il brusio dei clienti e dei passanti cessò e tutti si girarono verso la fonte del suono. Ascoltarono rapiti la gracile ragazzina che riusciva a estorcere al violino tanta bellezza. Restarono immobili, come Antony al suo fianco, ad ascoltare fino all'ultima nota, poi applaudirono con calore e a lungo.
Lei bevve tutta l'ammirazione degli astanti e si riempì di una luce tutta sua che irradiava calore, un calore che avvolse anche il ragazzo dai capelli rossi, seduto accanto a lei. Infine, dopo qualche "brava", "magnifica" e "splendida" gridate al suo indirizzo, la gente tornò a occuparsi delle proprie faccende.
Tabitha rimise il violino nella custodia, mormorando timidi "grazie" ai clienti del Cafè che si erano attardati intorno a lei per complimentarsi.

Si sedette e divorò le frittelle in silenzio, mentre Antony la guardava perplesso. «Ti rendi conto che non me ne hai offerta neanche una?» chiese dopo un po'.
«A te non piacciono le cose dolci » ribatté lei e si passò la lingua sulle labbra per pulirle da eventuali residui di zucchero a velo.
«Be' che era quello show improvvisato?»
«Una dedica, testone!»
Antony si ammutolì, parve aver perso del tutto la voglia di rifilarle una delle sue battute taglienti.
«Tabitha trasse un bel respiro. «Devo tornare a casa. Mi accompagni?» chiese. Gli occhi scuri di Antony incontrarono i suoi. «Sì.»
«Allora andiamo» Si alzò e gli diede le spalle, precedendolo.

Antony la raggiunse e le si affiancò. Lei lo guardò di sottecchi. Sulla guancia sinistra gli era spuntata una fossetta. Sembrava sereno ora. La mascella era marmorea, gli zigomi alti e scolpiti; il naso dritto, ma a uno sguardo più attento si notava che il setto era appena deviato, come se se lo fosse rotto, cosa probabilissima considerato il suo caratteraccio.
«Hai smesso?» chiese.
Tabitha si accigliò. «Non ti consumo, stai tranquillo. Mi chiedevo dove ti fossi rotto il naso.»
Lui sospirò. «Cercavo di sopravvivere. Oggi però non ho voglia di rinvangare il passato.»
Lei aveva tante domande sulla punta della lingua ma preferì tacere per evitare di guastare il momentaneo stato di grazia dell'altro.

Mentre attraversavano Canal Street Antony esclamò: «Da queste parti so che c'è un posto dove fanno l'alligatore fritto!».
Lei storse il naso. «Bleah.»
«Non l'ho mai assaggiato.» Lo sguardo di lui si animò. «Prima di morire voglio provarlo.»
«Senza di me.»
«Avranno sicuramente anche le crocchette di patate.»
«Mmm.»
«Crocchette di patate con pancetta e formaggio fuso» aggiunse.
Tabitha sgranò gli occhi. «Aggiudicato.»

Antony respirò a pieni polmoni l'aria fredda, perfino col vento gelido che spirava dal fiume, c'era un clima diverso, meno freddo, di quello a cui era abituato a New York. Chiuse gli occhi e respirò l'aria densa di vita. Annusò il miscuglio formato dai cibi e dal fiume. Udì il suono delle risate e gli echi della notte di baldoria passata. Gli piaceva davvero quella città. Desiderava rimanerci. C'era nato e Tabitha ci sarebbe comunque tornata spesso. Ma era abituato a volere cose che non poteva avere.

Giunti alla palazzina dove lei abitava, sentirono gridare "Tabby!". La voce era così profonda che l'interpellata sentì un brivido correrle lungo la schiena. Fabrice. Si voltò e lo vide. Si muoveva con un'andatura elegante e vigile che le suscitò la solita emozione. Aveva i vestiti spiegazzati come se ci avesse dormito dentro. Non si meravigliò che non tornasse a dormire a casa, visto il periodo che stava attraversando. Sentì Antony accanto a lei sbuffare.
Fabrice le si fermò davanti. Era così alto. «Tua madre ti sta cercando. Dov'eri finita?» le chiese.
La ragazza fece spallucce con indifferenza. «Ero in giro con Antony.»

Fabrice guardò il ragazzo. Il volto era familiare. Poi si ricordò il nome. Il figlio di Bosco, quello che seguiva Louise. Il figlio di Evelyn. Sì, era decisamente suo figlio. Continuò a scrutarlo come ipnotizzato.
«Smettila di fissarmi come un cretino!» sibilò Antony. Detestava il pianista da strapazzo! Cosa ci trovavano sua zia, Tabitha e pure... pure lei per pendere dalle sue labbra ogni volta che apriva bocca. Non gli piantava un coltello nella pancia solo perché Tabitha non glielo avrebbe mai perdonato e, soprattutto, perché aveva dato una lezione a quel pezzo di merda di suo padre; per questo meritava un po' di rispetto.

«Fabrice Gautier?»
Tabitha alzò gli occhi oltre le spalle di Fabrice e vide un gruppo di poliziotti avvicinarsi. Inspirò profondamente. Cosa volevano da Fabrice?
«Sono io» rispose il biondo con un certo impeto. «Cosa volete?»
I poliziotti non risposero.
Tabitha pensò ci fosse qualcosa di sbagliato in quella scena. Fece per parlare, ma Antony se la tirò vicino e le fece cenno di stare zitta.
«Devi seguirci in centrale» disse uno di loro con il distintivo ben in vista.
«Perché?» ringhiò Fabrice
«Gautier non rendere le cose più difficili. Devi seguirci con le buone o con le cattive.»
La reazione del biondo fu rapida e violenta. Gli sbatté un pugno dritto in faccia. L'uomo cadde a terra, gli altri poliziotti si scagliarono su Fabrice. Uno di loro estrasse il manganello e lo usò per colpirlo alle spalle. Lui gridò e lo spinse via. «Prendete questo bastardo! Risponderà anche per aggressione» grugnì quello che aveva colpito, pulendosi il sangue dal viso. Il suo naso era un disastro.
«Non preoccuparti», disse l'agente che era riuscito ad ammanettare Fabrice, mentre gli altri lo tenevano fermo,«sconterà con gli interessi quello che ha fatto. Lo portiamo in centrale intanto.»

Il viso di Fabrice era diventato di pietra, non provò neanche a protestare.
Tabitha al contrario era sempre più furiosa. «Non ha fatto niente di male!» urlava.
«Non ti impicciare ragazzina!» L'agente che Fabrice aveva picchiato strinse le manette così forte che lei riuscì a vederle affondare distintamente nei polsi. Ma lui continuava a non dire nulla. Non vacillò un attimo né tradì una qualche emozione. Si voltò solo verso Antony. «Portala a casa» gli disse indicandola con il mento.
«Io vado a chiamare Lee. Lui saprà cosa fare» disse Tabitha ostinata.
Fabrice scosse la testa.
L'agente si stava irritando ogni minuto di più e strattonò le mani ammanettate del biondo. «Andiamo.»
Un auto della polizia accostò al marciapiede. Tabitha si sentiva del tutto impotente e rimase a guardare mentre prendevano Fabrice e lo infilavano senza troppi riguardi nell'auto.

Quando questa sparì dalla sua vista, si voltò verso Antony con l'aria spersa. «Cosa sta succedendo?»
«Non lo so, ma vai da questo Lee se può essergli d'aiuto. Penso ne avrà bisogno.»
Tabitha lo guardò speranzosa. «Vieni con me?»
«No. Devo tornare... a casa. Mi faccio vivo io.»
La lasciò lì e si dileguò dentro un vicolo.

Appena fu sicuro di non essere più visibile da Tabitha, Antony rallentò l'andatura fino a fermarsi. Una parte di lui voleva andare alla maison, da lei. Non sapeva bene perché. Cosa le avrebbe detto? E lei come l'avrebbe accolto? La verità era che non aveva proprio idea sul come comportarsi. L'aveva odiata per troppo tempo. Non era ancora pronto ad affrontarla e forse non lo sarebbe mai stato. Meglio tornarsene a casa e capire cosa stava succedendo. L'arresto del pianista era di sicuro opera di suo padre. Doveva scoprire cosa aveva architettato questa volta. Se avesse potuto, gli avrebbe messo i bastoni tra le ruote. Non aveva voglia però di tornare neanche alla casa dei Bosco, la casa dell'uomo che gli aveva rovinato la vita.

Indeciso sulla strada da imboccare, alla fine optò per una terza direzione e cominciò a contare i passi moltiplicandoli per la gente che incontrava vestita di scuro, dividendoli per quelli vestiti di chiaro, aggiungendo le automobili che passavano, sottraendo gli animali randagi che scorgeva nascosti tra i vicoli. Era confortante sapere che in un'esistenza costantemente mutevole, in un mondo in cui suo padre poteva decidere di togliergli sua madre dalla mattina alla sera per un capriccio, e sua madre ignorare la sua esistenza per sedici anni, esisteva un universo retto da leggi invariabili. Un universo in cui due più due farà sempre quattro, con o senza suo padre, e la somma dei due cateti sarebbe stata uguale al quadrato dell'ipotenusa, con o senza sua madre. E niente di quello che Arturo Bosco facesse o non facesse avrebbe potuto cambiare questo dato di fatto. Gli piaceva la matematica e, se non si fosse messo sempre nei guai e ad Arturo non fosse venuto in mente di riprenderselo, avrebbe studiato contabilità. Chiuso in se stesso e nei suoi numeri, indifferente del tutto al fatto che oltre le pareti di casa e dello studio ci fosse un mondo fatto di emozioni e sentimenti, forse sarebbe stato sereno, non si sarebbe fatto guastare dalla rabbia.

Era questo anche il motivo che lo spingeva a nascondersi dietro il portone di casa di quel vecchio rincoglionito di Diallo per ascoltare Tabitha suonare. Gli piaceva la musica così come la matematica perché aveva un ordine interno e una ragion d'essere. Le note si dividevano in semibrevi, minime, semiminime, crome, semicrome, biscrome, semibiscrome. Una semibreve corrispondeva a due tempi di minima, una minima a due tempi di semiminima e così via. Il pentagramma si divideva in battute che potevano accogliere un numero esatto di tempi ed era presieduto da una chiave, di sol o di fa, che determinava la modalità delle note. Tutto aveva un ordine rigoroso, una precisa ragion d'essere, una logica. A Tabitha non lo aveva detto, così come si era sforzato di nasconderle che l'idea di perdere lei e la sua musica lo riempiva di angoscia.

Con la testa piena di pensieri non si era accorto di attraversare il cimitero numero 1 della cattedrale di Saint Louis. Come cazzo ci era arrivato? I nativi di New Orleans chiamavano quegli impressionanti cimiteri di pietra le Città dei Morti, un nomignolo appropriato. Poiché la città si trovava al di sotto del livello del mare, non si poteva seppellire qualcuno senza che facesse un ritorno tutt'altro che gradito.

Le nuvole sempre più minacciose e scure proiettavano le ombre distorte dei monumenti funebri sui mattoni, sulle pietre tombali e sui marmi delle cripte. Alcuni erano alti più di due metri.
Anche se in alcuni punti erano messe alla rinfusa, la maggior parte delle tombe era organizzata a blocchi, in modo da rispecchiare la disposizione e la pianta della città.
Ogni cripta era un monumento. C'erano tre classificazioni per ogni tomba: tombe a muro, cappelle di famiglia e cappelle societarie riservate a gruppi specifici. La maggior parte delle tombe mostrava i segni del tempo, con parti di muratura mancanti o crepate, tetti sfondati o muffa nera a ricoprirle. Molti avevano cancelli e recinzioni di ferro battuto scardinati. Era bellissimo lì. Pacifico. Nonostante i buchi nei muri e sterni, piazzati strategicamente per permettere ai tombaroli di andare e venire a piacimento, fossero un costante monito di come alcuni degli occupanti fossero arrivati lì. Chissà se c'è una tomba con il mio nome? Chissà che nome mi ha dato lei?

Antony allungò una mano e toccò la tomba di Marie Laveaux, la famosa regina voodoo della città. La sua tomba era segnata dalle X lasciate da coloro che le avevano reso omaggio. Era stata una donna potente e, se fosse stata ancora in vita, sarebbe ricorso a lei per sbarazzarsi di quell'anima dannata che era suo padre.

Il suono delle automobili della polizia echeggiò in lontananza; gli sbirri erano molto impegnati quel giorno. Voltandosi, sentì un fremito assalirlo, come un colpo debilitante. Si appoggiò a una delle vecchie cripte, cercando di domare il dolore che stava provando per tutto ciò che aveva perso e non avrebbe più riavuto indietro.

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