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Capitolo XXXVII

1 gennaio 1924

Non cercare di seppellire il dolore: si spanderà sulla terra, sotto i tuoi piedi; si infiltrerà nell'acqua che devi bere e ti avvelenerà il sangue. Le ferite si rimarginano, ma restano sempre le cicatrici, più o meno visibili, che ti faranno male a ogni cambio di stagione, ricordandoti sulla pelle la loro esistenza e, con essa, il colpo che le ha prodotte. E il ricordo del colpo influirà sulle decisioni future, creerà paure inutili e tristezze trascinate, e tu crescerai come una persona spenta e codarda. Queste parole che Fabrice si ripeteva le aveva, più o meno, lette sui libri. Alcuni erano stati scritti nei secoli passati, altri pubblicati un paio di anni prima. Perché in definitiva, tutto quanto viene scritto finisce per essere una nota a piè pagina di qualcosa che è stato scritto in precedenza. Esiste un solo tema, la vita, e la vita è sempre uguale: la stessa irradiazione che impregna l'intero universo e non è associata ad alcun oggetto in particolare. Tutte le nostre azioni, tutti i nostri amori, sono già accaduti; per questo troveremo sempre nei libri le risposte a certe domande. Il problema è che non capiremo nulla di quanto è scritto finché non l'avremmo vissuto, in un modo o nell'altro, sulla nostra pelle. La mia sofferenza alla fin fine non ha nulla di originale.

Gli ubriachi che festeggiavano il nuovo anno per strada lo costrinsero a rallentare. Davanti una nuova casa da gioco, sorta in un vecchio magazzino ristrutturato, con grandi vetrate oscurate, era radunata una piccola folla: gli uomini eleganti e le donne con abiti aderenti e sfrangiati. Aveva riconosciuto qualche cliente abituale del Louisiana che, finito di ascoltare musica e di ballare, aveva deciso di tentare la fortuna al tavolo da gioco, con la speranza che il nuovo anno gliela concedesse a piene mani. Ignorò i cenni di saluto di chi lo aveva riconosciuto e continuò a camminare a testa bassa.

Si infilò nel vicolo che portava alla maison, la poca illuminazione gli conferiva un'atmosfera sinistra. I passi rimbombavano e, più s'inoltrava, più i rumori della strada principale scomparivano in un brusio. Verso la fine apparve la porta azzurro slavato della maison. Prima che avesse il tempo di ripensarci, Fabrice la raggiunse, poi si bloccò di colpo. Si chiese cosa stesse facendo lì. Evelyn e il calore che poteva offrire però gli sembravano così allettanti dopo l'ultimo mese di gelo. Se fosse arrivato a lei in un altro modo, come un foglio bianco, come una tela ancora da dipingere, se non si fosse trascinato dietro ventotto anni pieni di sgorbi e cancellature, forse in lei avrebbe potuto trovare più di un'amica, di un conforto. Se gli fosse andato incontro a occhi bendati dal punto di partenza, lei avrebbe potuto aprirgli le labbra e sanare le ferite. Ma Louise aveva ormai smesso di essere una ferita, era diventata una cicatrice e, proprio per questo, incancellabile, non poteva più rimuoverla.

Aveva trascorso molte sere negli ultimi anni a proteggersi dal freddo nel seno di angora di Evelyn che, avvinta a lui davanti al camino della stanza, sospirava e si stirava vicino al fuoco, oziosa, da quella gatta che era; e non era mai riuscito a godere nulla fino in fondo perché inevitabilmente finiva per confrontarla con le altre, la tranquillità di Evelyn con l'effervescenza di Monique (la sua prima donna, quella che per prima aveva avuto l'onore di spezzargli il cuore), la dolcezza di Evelyn con l'audacia di Amanda, la sensibilità della rossa con l'ardore di Louise.

Il fatto è che dall'amore, proprio come dalla vita, ci si aspetta sempre di più e non ci si accontenta mai. La soddisfazione di Fabrice si limitava a momenti circoscritti, probabilmente amplificati dalla memoria, e quasi sempre, nel ricordo, vissuti al buio. I giorni si susseguiranno e io continuerò a sprofondare a poco a poco in quest'ansia d'infinito, in questa inappagabile sete d'assoluto che fa sentire insufficiente qualsiasi cosa.

Se fosse dipeso da lui avrebbe passato le sue giornate a fare l'amore, e non solo perché gli piaceva, ma perché era in quell'istante che le cose sembravano arrivare al loro culmine; si riempiva di luce e si rischiarava, felice e senza memoria, aggrappato a labbra capaci di inventare splendidi inganni. E allora, si disse, si deve cercare comunque andare avanti, nonostante la certezza di essere sempre solo.

Dopo aver fatto un bel respiro, bussò tre volte a intervalli regolari al portone. Non aveva idea di come l'avrebbe accolto Evelyn, erano mesi che non andava a cercarla lì. Forse era già impegnata e allora gli avrebbe assegnato una delle sue ragazze, lui però voleva un'amica, voleva Evelyn, non un corpo qualsiasi in cui cercare un po' di oblio. La porta si aprì di scatto. Dall'altra parte c'era lei.

«Evelyn...»
«Fabrice, che strano rivederti qui, dopo tutto questo tempo» rispose, lasciandosi sfuggire quel commento che aveva il sapore del rimprovero. A lui parve inquieta, un'Evelyn diversa. Aveva l'aria sofferente, quasi quanto immaginava fosse la sua. Si appoggiò allo stipite. «Ho bisogno di un'amica» sospirò. «Scusami se ti ho disturbato» terminò in imbarazzo. Si sentiva uno stupido.
Lei increspò le labbra. «Cosa dici? Entra.»

Si fece da parte e lui passò lanciandole un'occhiata incerta. Si passò una mano sulla nuca e aspettò che lei chiudesse la porta. Evelyn si voltò verso di lui e aprì la bocca per parlare, ma Fabrice abbassò il viso e la baciò. Non fu un bacetto di saluto, ma uno di quelli dolci e prolungati. Evelyn schiuse le labbra, il sapore familiare sulla lingua la fece sorridere, in quell'istante lui le cinse la vita, attirandola a sé. D'istinto gli butto le braccia al collo. Lui spostò la bocca di lato e la baciò all'angolo delle labbra. Quando la rimise coi piedi per terra, era senza fiato.
«Sembrava ne avessi bisogno» sussurrò affannata.
«Anche tu.» Le fece scivolare una mano tra la massa di ricci rossi. «Cosa ti succede, Evelyn?»
Lei chiuse gli occhi e appoggiò la fronte sul suo petto. «Dovrei essere io a farti questa domanda...»
Lui abbassò la testa e lei gli mise le mani sui fianchi. «Quello che mi succede sempre.» Le lacrime tornarono a pungere dietro gli occhi. «Continuo a ripetermi che andrà meglio.»
«Ed è così?»
«Non direi.»
«Non è confortante» mormorò.
Lui si ritrasse. «Cosa sta succedendo a te? Sono emotivamente distrutto e brillo, ma non tanto da non accorgermi che hai l'aria distrutta forse più di me.»
«Niente di che. Il lavoro e le ragazze e...» Aveva la verità sulla punta della lingua. Diglielo, la esortava una parte di lei. Hai bisogno di dirlo a qualcuno. Tieni la bocca chiusa, gli ordinava una voce che sembrava quella del ragazzo dai capelli rossi, il suo bambino perduto.
«Cosa?» la incalzò lui.
Distolse lo sguardo. «È una storia assurda...»

Tre colpi battuti con energia fecero trasalire entrambi. Si staccarono. «Vedo chi è e poi chiamo Dora ché se ne occupi.»
Aprì la porta, mettendo sul viso uno dei suoi sorrisi cordiali, che morì nell'istante in cui vide Arturo Bosco. Questi tentò di entrare senza invito, Evelyn si frappose tra lui e la porta. «Non era atteso, signor Bosco.»
A sentire il nome Fabrice spalancò gli occhi e si fece più vicino alla rossa. Arturo si accorse della presenza di un altro uomo e lo osservò con le sopracciglia scure inarcate. «Interrompo qualcosa?» chiese con aria di sfida.
«Ti incazzi se dico di sì?» fece Fabrice, prima che Evelyn potesse rispondere. Quel nome gli aveva fatto ribollire il sangue, e la voglia di menare le mani era diventata incontenibile.
Arturo digrignò i denti. Ignorò Fabrice e si rivolse a Evelyn. «Sbarazzati di questo perdente, dobbiamo parlare.»

La guardò dritta in faccia e notò che era più pallida del solito, come se fosse spossata dalla fatica, e sembrava sul punto di svenire. Per poco, invece, non fu lui a svenire quando si sentì per l'ennesima volta attratto da lei come da un canto di sirene e, quasi avanzò sonnambulo, guidato da un pilota automatico si sporse verso di lei senza neanche rendersene conto, senza sapere quale scusa inventarsi per costringerla a dargli ascolto. Proprio quando ce l'aveva a pochi centimetri, quando credeva di poter allungare una mano, un braccio muscoloso la tirò lontana da lui. Fu come se Evelyn gli fosse sparita da sotto gli occhi e, ne era sicuro, lei aveva goduto nel vedere come il suo vecchio amore aveva claudicato, come aveva morso la polvere sconfitto, come era tornato sfinito dal campo di battaglia e aveva gettato ai suoi piedi allori; ci godeva nel constatare che lui desiderava ardentemente riconquistare i territori di un tempo e che non aveva ottenuto nulla da quest'ultima e brevissima battaglia, solo un'impressione confusa di una rossa nervosa e carnale fasciata in un abito verde che ovviamente le risultava quasi stretto, un'immagine che lo aveva rigettato di colpo nel passato come un pallone rimpallato in modo rude.

Rimase lì paralizzato, in piedi sul marciapiede, senza sapere cosa fare. Pensò per un attimo che ritirarsi fosse la cosa migliore, avvicinarsi a lei era come giocare con il fuoco, in tutti i sensi, un fuoco contagioso e che se l'avesse toccata di nuovo avrebbe cominciato a bruciare ancor prima di accorgersene; non poteva rischiare di compromettere tutto ciò per cui aveva lavorato negli anni, la gloria dei Bosco. Fu il suo cognome a rintronargli nella testa e a ricordargli che un Bosco non avrebbe permesso a niente e a nessuno di annichilire il suo orgoglio, che lui era un vincente e avrebbe avuto sempre l'ultima parola.

Sul volto di Arturo apparve un'ombra malevola. «Nostro figlio sarà contento di sapere come sua madre, dopo averlo abbandonato, ha continuato a comportarsi da cagna qual è sempre stata.»
Ghignò, convinto che la rivelazione di avere un figlio l'avrebbe confusa e paralizzata e allora lui avrebbe sferrato l'affondo finale. Ma non c'era sorpresa nei suoi occhi da gatta, solo odio.

Evelyn con uno strattone si liberò dalle braccia di Fabrice. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie con le mani, come se fosse stata una bambina piccola, ma un borbottio le si insinuava in testa, un rosario di mezze verità inframmezzate a verità e menzogne, tutte ingarbugliate e confuse, a formare un groviglio inestricabile in cui non si poteva distinguere il vero dal falso. Le era entrato in testa e le faceva male, male, male, e la paura di non potere avere indietro il suo bambino perduto, per le menzogne ignobili che lui gli aveva raccontato in tutti quegli anni divenne così forte, così viva, che Evelyn credette di vederla, come se avesse preso forma e consistenza e adesso svolazzasse nell'aria, sbattesse contro le pareti e il soffitto come un pipistrello stordito, finché le entrò in corpo e partorì un'altra Evelyn, evocata dalla miserabile menzogna che aveva rovinato la sua vita e quella del figlio. Sorse dalla profondità del suo dolore. Allora uscì dalla maison e scese sul marciapiede. E Arturo era lì, il volto rigido, le mandibole contratte dall'ira, gli occhi infiammati, a dipanare la menzogna più bieca, che si conficcava come un pugnale incandescente e con la stessa voce uniforme, impassibile.

«Me lo hai portato via facendomi credere che fosse morto e poi gli hai riempito la testa di bugie affinché mi odiasse» urlò. Si avvicinò ancora di più ad Arturo che indietreggiava, e gli graffiò la faccia e lui, che era un po' più alto e molto più forte di lei, si limitò a torcerle il braccio e a girarglielo dietro alla schiena mentre le sussurrava all'orecchio: ti ho battuta io alla fine.

Fabrice era rimasto fermo, anche quando Evelyn si era staccata dalle sue braccia per scagliarsi contro l'uomo; era troppo confuso dalle parole che aveva sentito. Arturo Bosco era stato l'amante di Evelyn? Avevano un figlio?
Si riscosse dallo stupore solo quando vide Arturo torcerle il braccio; allora gli andò addosso, allontanando prima la rossa da lui. L'altro tentò di parlare ma lui non gli diede il tempo e, nonostante fosse brillo, gli sferrò un pugno alla mascella talmente forte che Arturo sibilò e barcollò all'indietro.
Fabrice non pago gliene diede un altro che lo spedì a terra.

Si voltò a guardare Evelyn. «Ti ha fatto male?»
«No... non fisicamente.»
Sollevata, lei tremava così forte che non riusciva a capire come facessero le sue gambe a continuare a sorreggerla. Desiderava tendersi verso di lui per toccarlo, colma di gratitudine, ma i mugolii e le imprecazioni di Arturo la fermarono. Era andato al tappeto ma non era ancora domo. Si rimise in piedi a fatica mentre gli occhi si facevano cupi per la collera vedendoli vicini. Si passò una mano tra i capelli scompigliati e sorrise malevolo. «Hai firmato la tua condanna, pezzente!»
Fabrice lo guardò con aria di sfida. «Credimi, se non sparisci all'istante non sarai più in grado di mangiare neanche con la cannuccia, figurarsi farmi paura, coglione! E ora vattene, prima che ti accompagni a casa a calci.»
«Tu e questa puttana rimpiangerete di essere nati!»

Prima che Evelyn potesse fermarlo, Fabrice si gettò di nuovo su Arturo. Tutt'a un tratto degli uomini, richiamati dalle grida di aiuto di Evelyn, uscirono dalla maison e lo fermarono. La donna rimase a guardare mentre in tre facevano di tutto per trattenerlo.
Arturo era furibondo. «Non finisce qui!» ringhiò. Voltò le spalle e si incamminò fuori dal vicolo, confondendosi con le ombre della notte.

Oltre ai clienti della maison lo scontro aveva richiamato l'attenzione di un altro gruppo di persone, probabilmente clienti della casa da gioco. Evelyn con un cenno della mano li invitò ad andarsene, lo spettacolo era finito.
Si rivolse poi agli uomini che ancora trattenevano Fabrice. «Lasciatelo ora.» Quelli fecero come gli era stato detto.

La rossa si rivolse a Fabrice. «Sei ferito?»
Lui fece cenno di no con la testa. «Non è riuscito nemmeno a sfiorarmi.»
«Hai l'aria distrutta, devi farti proprio una dormita.»
«Appena arrivo a casa.»
«Sempre che riesci ad arrivarci. C'è la camera, accanto alla mia, libera. Pauline ci ha lasciato la scorsa settimana e ancora non ho trovato un rimpiazzo. Nessuno ti disturberà» concluse Evelyn, pratica.
«Non voglio darti troppo incomodo» disse lui a voce bassa.
«Vieni» rispose lei, lo prese per mano e sparirono dentro la maison.

***

La gente si disperse, rimase solo un ragazzo i cui capelli fulvi, colpiti dal lucore del lampione sotto cui stava, brillavano nel buio della notte. I suoi occhi sembravano smorti. Era stato lì dall' inizio, ancora prima che la lite degenerasse, molto prima di vedere suo padre messo al tappeto. Che strano effetto gli faceva la parola 'padre' riferita ad Arturo Bosco. Aveva smesso di fare male da quando aveva capito che qualunque cosa avesse fatto per accontentarlo, non sarebbe mai bastato per riuscire ad avere la sua stima.

'Madre' restava invece una parola dolorosa; per tanto tempo era stata legata a un altra di nome 'rifiuto'. Il rifiuto con cui aveva dovuto convivere per tutta la vita, aveva acceso, come un interruttore, il peggio di lui, aveva messo in moto un meccanismo distruttivo e autodistruttivo.
Spesso si era detto che se il rifiuto gli aveva fatto tanto male si doveva al fatto che dava troppa importanza all'opinione altrui. Ecco perché faceva di tutto per mostrare alle persone il peggio di sé. No, non era questo, no non esattamente.
La sua infanzia si innalzava, allora, da un remoto paesaggio alla memoria. Un padre assente, dei genitori surrogati sempre impegnati con altri figli, quelli veri, e occupati a lamentarsi di lui; due fratelli finti che non gli permettevano di giocare con loro, due fratelli di sangue che non volevano che lui entrasse nella casa di famiglia e respirasse la loro stessa aria. Nessuno gli diceva niente di carino. La madre che lo aveva partorito lo aveva rifiutato gli aveva ribadito più volte Arturo. Il rifiuto dei rifiuti, quello definitivo che faceva sì che la parola madre grondasse sangue e dolore, un dolore impossibile da alleviare.

Per tutta la vita dunque aveva saputo vedersi solo attraverso il proprio riflesso negli occhi degli altri e, non gli costava ammetterlo, quello che vedeva era uno strano albero contorto, uscito da chissà dove, senza radici, un albero fluttuante, incapace di ancorarsi al terreno.
E ora le frasi che aveva ascoltato durante il litigio avevano polverizzato anche quello. Cos'era rimasto dell'albero? Cenere, ombra, fumo, nulla. Avrebbe dovuto sentirsi meglio, e forse nel riflesso degli occhi verdissimi di Evelyn avrebbe potuto ritrovarsi, scoprire le radici necessarie ad ancorarsi al terreno. Ma ormai era tardi, pensò. Perché era diventato nulla. E nel nulla non ci può essere amore, il nulla si può solo riempire con il suo contrario, l'odio.

La parola 'madre' avrebbe continuato a fare male, grondare sangue. Gli restava una sola cosa l'odio verso chi la ferita gliela aveva inferta, verso chi gli aveva tolto tutto, compresa la speranza, verso l'uomo che chiamava 'padre'.

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