Capitolo XXXVI
Fabrice aveva preso atto che Louise lo aveva lasciato e che non sarebbe tornata. Per trenta giorni aveva cercato un contatto, per trenta giorni aveva dissacrato tutte le fedi in cui credeva. Il primo a cadere era stato il suo orgoglio. Inutilmente. Cadendo aveva fatto lo stesso tonfo della porta sbattuta del suo appartamento quando lei se ne era andata. Quel tonfo ancora rimbombava dentro, amplificato da mille echi. Nel tentativo di soffocare il frastuono ne aveva creato uno più forte: i mobili, le stoviglie, i piatti, perfino il grammofono; tutto era deflagrato nell'appartamento; tutto era stato distrutto con certosina applicazione. Nel mezzo delle macerie restava intatto, inviolabile dalla distruzione, solo il vecchio pianoforte di sua madre.
Dopo aver devastato tutto ciò che aveva potuto e nel tentativo di soffocare il frastuono che ancora gli riverberava dentro, aveva affondato la testa nel cuscino e dal petto erano sgorgati singhiozzi, incontenibili e urgenti. Nel giro di pochi secondi la federa era stata fradicia e gli aveva ottenebrato gli occhi di immensità bianca, ed era riuscito a vedere solo l'immagine cancellata di Louise, sempre Louise, che gli era rimasta impressa con un ferro rovente; neanche imbottendosi fino all'orlo per un mese intero di alcool e altre schifezze, era riuscito a cancellarla del tutto.
Aveva desiderato di poter tornare indietro a quando aveva sette anni, a quell'età estranea alla malizia e agli sfoghi, in cui non sapeva cosa fosse il sesso e neanche gli importava, allo stato di felice ignoranza che non avrebbe più potuto ritrovare.
Ogni notte la musica aveva accolto le sue lacrime, e lui l'aveva supplicata di cuore di fonderlo con essa, di farlo sparire, di compiere il miracolo e cancellare con un colpo di spugna l'amore e il dolore. Di riportarlo indietro a quei giorni in cui lei lo chiamava "mio". Ogni notte aveva suonato il piano e ogni notte aveva sentito di avere disperatamente bisogno di qualcosa, ma non sapeva bene cosa. E allora avvertiva l'ansia salirgli dentro così furiosa, così presente, da togliergli il respiro. Urlava muto che aveva bisogno di Louise. Voleva che Louise tornasse e lo portasse via da tutto quel dolore. Voleva che lei lo salvasse in qualche modo.
L'ultimo giorno del 1923 Fabrice suonava al Louisiana, nel locale del suo cuore. Nel locale che lo aveva tante volte visto lottare e soffrire. Suonava con la foga di un uragano quando, riflessa nello specchio che aveva davanti nella penombra del locale, aveva visto la figura di una donna che attraversava la pista da ballo. Avanzava rapida, come se nulla al mondo avesse potuto fermarla, cercando con lo sguardo qualcuno. Non lui. Sorrise a un uomo e una donna che le andavano incontro.
Non rimpiangiamo le persone che abbiamo amato, pensò. Quello che rimpiangiamo è la parte di noi stessi che si sono portati via con sé. Solo e vuoto, aveva chiuso gli occhi e lasciato che le note fluissero: non aveva un tema quella sera, solo un ritmo. Con Louise a poche passi da lui eppure lontana anni luce, capì che non l'avrebbe dimenticata un solo giorno.
Fu assalito dalla voglia di fuggire lontano. Ma ovunque fosse andato si sarebbe portato dentro la città e i suoi fantasmi. Poteva essere calda e luminosa, o magari umida e buia, ma in fondo era sempre lo stesso, un minuscolo puntino dentro un altro puntino minuscolo abitato da esseri impercettibili, versioni diverse di un unico modello, infinite combinazioni di un certo numero di elementi chimici. A New Orleans e a Chicago la gente ascoltava e ballava la stessa musica, si ubriacava con gli stessi liquori e cercava sempre sesso, amore e motivi per reggere un'altra notte. Ovunque fosse andato l'avrebbe vista sintonizzarsi al suono della musica. Bevendo e ballando i nostri antenati credevano di abbandonare i loro corpi a una divinità che li possedeva. Al Louisiana o al Savoy Ballroom, uomini e donne, scure radiografie di se stessi, si scolavano la notte tutto d'un fiato, assordati dalla stessa musica e con le piante dei piedi sganciate dal contatto con il suolo, con la vita. Abbandonavano i loro corpi a Bacco e a Dioniso, a chissà chi, per dimenticare almeno per qualche ora che avrebbero dovuto fare i conti con se stessi per tutta la vita.
Era quasi mezzanotte quando Fabrice smise di suonare, gli tremavano le mani, e non era colpa solo dei bicchieri di Negroni che aveva tracannato, uno dopo l'altro. Fece cenno a Dixon che si affrettò a prendere il suo posto, senza fare domande. Secondo una prassi ormai consolidata, quando lui era stanco di suonare, subentrava il giovane ragazzo di colore, arrivato da poco a New Orleans. Era strano che Fabrice gli lasciasse il posto in una serata importante come quella di Capodanno, ma era davvero stanco.
«Hai fatto bene» gli disse Lee, sbucato da chissà dove, fermandolo. La tristezza di cui era intrisa la voce del più anziano lo raggelò. «Vai a casa, ragazzo, stare qui stasera non ti fa bene.»
Aprì la bocca, ma si limitò a scuotere la testa senza dire nulla. Non si sentiva in grado di fare un passo e lasciare quel posto dove aleggiava il profumo di lei. Gli sembrava di non riuscire a respirare. Fece un passo. Le ginocchia erano malferme; con i pensieri che gli vorticavano in testa, andò verso l'uscita, ma all'ultimo secondo deviò. Fermo al centro del Louisiana, la cercò tra la calca. Si concentrò sui polmoni per trovare un po' d'aria. Poi, lentamente, la vide girarsi verso di lui. Gli occhi di lei sembrarono spegnersi, mentre le labbra mimavano "addio".
Strinse i pugni per impedirsi di raggiungerla. Le lacrime gli pungevano gli occhi e la gola. Intrappolato nell'idea di un amore come in una ragnatela, non era più sicuro di niente, non sapeva più chi fosse il pazzo tra loro due, lui, lei o entrambi: non sapeva se era vero ciò che gli aveva detto, oppure se la paura di abbandonare ciò che conosceva l'avesse spaventata a tal punto da spingerla a fuggire. Sapeva solo che odiava se stesso per non essere stato in grado di tenerla legata a sé.
Fu assalito da una nausea così forte che fu costretto a chiudere gli occhi e a chinare la testa per non vedere tutto ciò che si muoveva intorno a lui. Fece appello a tutte le forze che gli erano rimaste per raggiungere la porta del locale e uscire. La voce, con cui si rivolse a Jim che lo aveva raggiunto per chiedergli se stesse bene, suonò talmente roca e scialba che quasi non la riconobbe come propria. Era come se gli fosse entrato un estraneo nella gola, qualcuno più forte di lui che assumeva il controllo delle sue azioni dal momento in cui lui non si sentiva più in grado di farlo.
Che fosse la sbornia, la stanchezza, la mancanza di sonno o l'angoscia, la testa gli doleva come se gliela stessero trapanando. Si sforzò di ricordarsi la strada di casa. Ma quell'amore che straripava e logorava, perché nessuno sapeva come contenerlo o cosa farne, fagocitava tutto il resto. E allora si chiese se avrebbe potuto recuperare almeno i cocci del recipiente che un tempo l'aveva racchiuso. Gli era costato tanto mantenersi esteriormente integro quando invece era ridotto a pezzi dentro, che non aveva potuto fare nulla quando il contenitore si era incrinato; non gli restavano più forze per cercare di arrestare la cascata, e quando si era rotta la campana di vetro in cui lui e Louise erano compressi, loro due erano stati sparati fuori in due direzioni opposte.
Era stufo di incalanare la propria collera verso se stesso, di nasconderla, di mangiarsela in silenzio, di partecipare al tacito patto di apparenze che esigeva da un uomo che non piangesse mai, soprattutto in pubblico. Aveva voglia di proiettare fuori la collera, di restituire i colpi e perdere le staffe. Qualsiasi relazione sentimentale era impregnata di violenza emotiva, di risentimenti amari, di richieste disattese, e non era facile essere tanto pragmatici e realistici, assennati, ragionevoli, subdoli, tanto sinistramente saggi da cercare di dominare i sentimenti che poi, in definitiva, erano quelli che definivano la personalità.
Aveva voglia di restare cocciutamente fedele alla propria natura cruda e mercuriale, alla propria immaturità emotiva, all'assoluta incapacità di mascherare i propri impulsi, come ultima e inutile forma di protesta, di ribellione contro un mondo che non capiva, un mondo che aveva sempre preteso che lui si adattasse a concetti che non lo soddisfacevano, un mondo che a forza di ripetergli quanto fosse strano aveva finito per farlo diventare strano davvero.
Che strana pretesa della vita moderna era mai quella di insistere nel negare il dolore e l'angoscia, di aspettarsi che uno passasse la propria vita adulta salterellando da una relazione all'altra, uscendo indenne da ogni catastrofe sentimentale, mettendo da parte i frammenti delle speranze infrante, nascondendoli sotto il tappeto, fingendo che il disamore fosse solo un piccolo inconveniente che non doveva mai interferire con la produttività, mandare all'aria le convenzioni sociali o ignorare le buone maniere? Era forse la stessa tirannica insistenza nel valore della razionalità, dell'intelletto, che portava i critici a disprezzare i romanzi d'amore e ad affermare invece che la Grande Letteratura, quella con la lettera maiuscola, era quella che si occupava dei poveri, degli emarginati e dei morti di fame, quella capace di fare venire i sensi di colpa a quel lettore bianco, giovane, sano, agiato - che si rendeva conto che né la salute né i soldi bastavano a placare la sua onnipresente sensazione di alienazione e vulnerabilità - e di convincerlo che la sua catastrofe sentimentale e la sua diversità erano gravi quanto un conflitto tra Nazioni.
Un rumore di voci, di bottiglie stappate e di brindisi lo avvertì che la mezzanotte era arrivata. Un nuovo anno. Il sole, la luna e le stelle spuntavano sempre a est e tramontavano a ovest. Resuscitavano ogni notte, e completavano cicli identici che si ripetevano in continuazione. Seguiteranno a farlo, pensò, anche se io muoio. Esisteva lassù un ordine, una prevedibilità una stabilità quasi rassicurante negli astri, che lo faceva sentire insignificante. Perché, indifferente a quanto gli succedeva, il mondo seguitava il suo corso, come dimostrava la sera che cadeva, inesorabilmente, spargendo nel cielo sprazzi di viola e grigio, come veniva facendo da trilioni di anni, come avrebbe continuato a fare per trilioni di anni, quando ormai il suo corpo fosse tornato nella ruota della natura e si fosse trasformato in terra, pianta, animale.
Si mise la mano nella tasca del cappotto e vi frugò dentro. Trovò un paio di foglietti, alcune pastiglie e un orecchino di perle a forma di fiore che Louise aveva dimenticato a casa sua e che lui non le aveva mai restituito. Lo gettò via. La caduta sulla strada gli sembrò più rumorosa dei festeggiamenti per il nuovo anno.
Il cielo, trasformatosi di notte in una tela brillante, vegliava la sua angoscia notturna. Aveva bisogno di piangere, aveva bisogno di una persona amica, di riempire il vuoto che sentiva allargarsi ogni secondo di più. E allora si diresse, a passi incerti, verso la maison e verso Evelyn.
***
Arturo era arrivato la mattina del 31 dicembre a New Orleans. Carmela era rimasta sorpresa del fatto che il primogenito si fosse precipitato da lei, invece di trascorrere il Capodanno con moglie e figli, ma non lo aveva dato a vedere, felice che per Arturo lei fosse sempre al primo posto. Il primo dei suoi figli era anche il preferito, inutile nasconderlo. Arturo aveva ereditato da lei la determinazione e dal defunto marito la mancanza di scrupoli. Un mix irresistibile per compiere la scalata sociale che aveva fatto dei Bosco una delle famiglie più influenti a New York e a New Orleans.
C'era qualcosa nello sguardo di Arturo, un'inquietudine, che le aveva messo un po' di agitazione in corpo; probabilmente suggestione, si era detta.
«Tutto bene a New York?» aveva provato a chiedere.
«Risolto tutto» aveva risposto lapidario. «Cosa avete organizzato per stasera?», si era informato, in modo quasi distratto. Il breve sconcerto di Carmela allora era svanito, come se non ci fosse mai stato.
«Paul e Frank ceneranno qui e poi andranno con quella coppia di amici strambi, anche se di ottima famiglia, in uno di quei postacci, tanto alla moda, dove suonano i negri. Ho fatto preparare le stanze perché tornino qui a dormire, così domani passeremo il primo dell'anno tutti insieme.»
«Bene.» Arturo aveva sorriso soddisfatto, avrebbe avuto tutto il tempo di sistemare le due stronze, senza doversi scomodare troppo. Sua madre, senza saperlo, gliele aveva servite su un piatto d'argento.
Aveva dato un bacio sulla guancia alla madre e annunciato che andava a riposarsi. Carmela gli aveva rivolto un sorriso fugace.
Arturo invece di dirigersi nelle sue stanze, aveva svoltato verso la porta a due ante della biblioteca, che era spalancata. La stanza era spaziosa, un po' affollata di mobili di ottima fattura e dai colori neutri, organizzati intorno a un tappeto orientale; c'erano molti scaffali che ospitavano una collezione di classici in edizione rilegata, non che lui fosse appassionato di letteratura, era Paul quello che leggeva. La vera appassionata però era sua moglie. Avrebbe attirato Louise lì con il pretesto di una prima edizione acquistata a New York da Victoire con lo scopo di farle un regalo. La stronza non avrebbe resistito.
Lo sguardo gli era poi caduto sulla sontuosa vetrata Tiffany originale che dominava una delle pareti. Sulla finestra c'era raffigurato uno stagno illuminato a sole, in una foresta popolata di pesci fantastici e brillanti e di uccelli che non erano mai stati avvistati in quella parte della terra. Piaceva molto a sua cognata Elisa. Arturo aveva sempre guardato a lei con un misto di curiosità e ammirazione. Sembrava la più fragile delle creature, eppure intuiva in lei una forza misteriosa, a tratti selvaggia. A lei avrebbe pensato dopo, con calma; d'altronde la sua unica colpa era stata quella di essersi lasciata trascinare nelle nefandezze di quella puttana di Louise. Non per questo la colpa era meno grave. Il suo tradimento era quello che bruciava di più.
La sera a cena Arturo Bosco si presentò come il più amabile dei figli, dei fratelli, dei cognati. Espresse al cielo la gratitudine per avere una madre come Carmela, conversò amabilmente con i fratelli, rivolse addirittura qualche apprezzamento sui vestiti delle cognate. A un certo punto capì di stare esagerando dall'occhiata stranita che gli rivolse la madre. Assunse allora un atteggiamento più cauto e misurato.
Dopo cena declinò l'offerta di Frank di andare con gli altri al Louisiana, con la scusa di avere mal di testa. «Sarà stato il lungo viaggio da New York a New Orleans» disse.
Si ritirò nelle due stanze, dopo aver salutato in modo affettuoso le figlie di Frank. Un po' si dispiaceva di non aver avuto almeno una figlia femmina, forse sono ancora in tempo per averne una, pensò distrattamente.
Si chiuse in camera e attese che tutti fossero andati via, prima di infilarsi il cappotto e uscire di casa.
Era quasi arrivato alla rimessa delle automobili, quando qualcuno gli si parò di fronte. Per un attimo sembrò non riconoscere suo figlio. «Ah, sei tu! Cosa ci fai in giro?»
Antony gli fece un cenno con il mento a mo' di saluto. «Sei tornato» disse soltanto. Si scrutarono negli occhi identici. Fu Arturo per primo a distoglierli. «Torna nella tua stanza, fa un freddo cane stanotte.»
«Sto andando dai ragazzi ad aspettare la mezzanotte» rispose atono. Poi guardando la rimessa dove suo padre sembrava diretto, chiese: «Ti serve Luke?»
«No, ho voglia di guidare.»
Mentre parlava, Antony esaminava il suo viso, come a cercare di estorcergli un segreto. «Vai in città?» chiese a denti stretti. Arturo non rispose.
«Vai da lei?», lo incalzò Antony.
Lui si irrigidì. Strinse i pugni. Era un bene che non avesse a portata di mano un bastone. «Non sono fatti tuoi» disse, sorpassandolo e infilandosi nella rimessa.
«Ti sbagli, sono fatti miei» sussurrò Antony alle ombre della notte, mentre il motore della Lancia di suo padre andava su di giri.
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