Capitolo XXXV
Arturo Bosco, di ritorno da un evento di beneficenza, era in preda alla furia più nera. Scese dall'automobile senza aspettare che l'autista gli aprisse lo sportello. Ignorando l'uomo che gli augurava la buon notte, entrò in casa. Fece una smorfia e si strofinò il viso, nel tentativo di darsi una calmata. Non riuscì nell'intento. Non rispose neanche al timido "Buonasera, signore" del maggiordomo, e attraversò celere il lungo corridoio che si trovò davanti, svoltò e ne percorse un altro. I corridoi avevano lussuosi pavimenti di marmo. Opere d'arte originali erano appese sulle pareti. I quadri erano la passione della moglie, Victoire, lui non ne capiva niente, eccetto il costo e l'effetto che suscitavano sugli ospiti.
Si fermò davanti a una porta di legno chiaro. La aprì con una spinta. I piedi affondarono in una morbida moquette panna. Da un lato c'erano un camino a doppia facciata e un salotto incassato con divani e poltrone di pelle chiara. Un letto grosso quanto una barca, con una struttura in ferro battuto nero, stava dall'altro lato, coperto da cuscini e trapunte. In una nicchia della parete era infilato un angolo bar. Un'altra parete era fatta solo di finestre con porte a vetro. Da lì il panoramico trionfo di luci nel crepuscolo di New York gli trafisse gli occhi. Si voltò verso la porta aperta che conduceva a una cabina armadio e al bagno da cui uscì una donna bionda. La donna che aveva sposato, rinnegando Evelyn.
«Sei tornato presto» disse lei con voce atona. Indossava sul corpo longilineo un vestito azzurro all'ultima moda.
«Non c'era molto da fare oltre firmare qualche assegno» rispose laconico. L'affetto che Arturo nutriva per Victoire non era sostenuto, né lo era mai stato, dal fervore della passione né dal turbamento dei sensi; si basava piuttosto sulla routine, sull'abitudine e sulla tranquillità. Per Victoire non c'era bisogno di lottare o soffrire. Era lì. Arturo era riconoscente del fatto che non gli ricordasse mai le sue infedeltà (anche se pareva se ne fosse lamentata qualche volta con sua madre), gliene era riconoscente al punto che, di fatto, si sentiva unito a lei da un debito di gratitudine.
Quello che non sapeva era che Victoire gli era a sua volta grata perché alla fine tornava sempre a casa, e che per questo non si era mai neanche azzardata a menzionare il motivo per cui avrebbe potuto perderlo. Victoire non voleva nemmeno nominare nessuna delle sue amanti, anche se conosceva benissimo i loro nomi e i volti; soprattutto non voleva neanche accennare al primo amore del marito (a cui non poteva dare né un nome né una faccia) perché non si poteva mai sapere, che non dovesse fargli rivivere i ricordi o non attirasse su di lei la sfortuna. Sapeva però che era la madre di Antony, e per questo odiava il ragazzo con tutte le sue forze. L'unica volta che aveva litigato con il marito in modo feroce, perdendo la compostezza che la contraddistingueva, era stata la volta in cui Arturo aveva deciso di prendere il ragazzo con sé. Aveva strepitato, minacciato e alla fine dovuto cedere a malincuore.
«C'era gente interessante?»
«Qualcuno...», Arturo fece un gesto di noncuranza, non voleva ritornare con il pensiero alla conversazione che tanto l'aveva fatto infuriare. Doveva prima calmarsi e poi decidere il da farsi. Guardò la moglie, e ne invidiò la compostezza.
Dopo la sbandata per Evelyn e alle soglie del matrimonio, gli era parso che liberarsi dell'ossessione per la rossa fosse cosa buona e giusta. E così erano passati i giorni, susseguendosi sereni, ed era rientrato nelle fila della gente tranquilla, ben disposta che preferiva le cattive abitudini alle tante cose belle e nuove.
La sua però era una serenità solo apparente, perché invece, dentro, era divorato dai dubbi. Si sarebbe sposato con una donna che non amava? E perché no, se quel matrimonio poteva rappresentare la soluzione a tanti problemi? Perché no?... Era preferibile un matrimonio tranquillo a una passione tumultuosa. Arturo era arrivato alla conclusione che solo i giorni vissuti senza amore erano anche del tutto privi di dolore, benché a volte si chiedesse se il suo cuore non fosse diventato di pietra, se non si stesse già coprendo di muschio e verderame.
Arturo si era illuso, perché in tutti quegli anni era stato divorato dall'amara consapevolezza del fallimento che emergeva al contatto con la realtà, proprio come un'eruzione cutanea quando si tocca un'ortica.
Dalla sera alla mattina più sperso di un bambino in un bosco, abbandonato da tutte le fedi un tempo professate, per prima cosa aveva smarrito la fede nella tradizione e nella forma che aveva ereditato dalla madre; perché dopo aver conosciuto Evelyn aveva cominciato a dubitare della bontà di un matrimonio di convenienza o della fedeltà come valore duraturo. Poi, era stata la volta di quella che aveva creduto una passione e un amore vero, perché la donna da lui venerata come una dea si era rivelata un'irriconoscente di prima categoria. Quando furono crollati tutti i suoi valori, quelli ereditati e anche gli altri, la sua angoscia prese a manifestarsi con tenebrosa intensità e cominciò a sentirsi dentro le rovine di una città immaginaria - una città dalle alte mura e dalle inferriate alle finestre, di ricerche torbide e di appuntamenti impossibili, dove milioni e milioni di uomini e donne convivevano senza conoscersi o parlarsi, una città minacciosa, notturna, acida, smunta e inabitabile - vi si aggiravano la frustrazione, l'insoddisfazione, lo scoramento, la delusione, riuniti per portare a termine i loro mille e uno soprusi con la complicità della notte.
Dopo la scissione del suo mondo sentimentale, Arturo non era stato in grado di ricomporre i pezzi ed era diventato un accolito di un segreto culto del nulla: la tristezza gli sembrava inutile, la felicità sterile. Si era dunque trasformato in un esistenzialista. Siccome però non aveva la vocazione dello scrittore o del poeta, il culto del nulla lo trasformò in una macchina per accumulare soldi e potere. Divenne più spietato, senza scrupoli e, nei sedici anni che seguirono, ogni volta che raggiungeva un obiettivo spingeva Evelyn sempre più in basso nei suoi ricordi. Per sedici anni aveva tentato di farla scomparire, e ci sarebbe pure riuscito, se non avesse ceduto per ben due volte: quando era andato a riprendersi il loro figlio e quando, qualche mese prima, aveva bussato alla porta della maison.
Ora, anche se non faceva altro che pensare a una reazione di difesa davanti alla sorpresa brutale, al colpo in piena nuca che era stato rivederla, non poteva dimenticare se stesso e il nome che si era creato per farla scomparire dalla sua testa. A maggior ragione dopo che, quella sera stessa, aveva incontrato il dottor Stunton che, per qualche dollaro in più per la sua fondazione, gli aveva venduto il segreto delle cognate.
L'affronto subito per un attimo lo aveva annichilito. Tutti gli sforzi, ciò che aveva rinnegato per il suo nome, per il nome dei Bosco non contava nulla se quelle due pensavano di poterla far franca. Avrebbe dato loro ciò che si meritavano, prima però avrebbe sferrato l'attacco finale a Evelyn, se la sarebbe ripresa con le buone o le cattive. Avrebbe finalmente avuto tutto e riempito così la città vuota che era la sua anima.
«Tutto bene? Mi sembri preoccupato.»
Arturo guardò la moglie che si avvicinava. Si conoscevano da anni e a volte, come in quel momento, la moglie credeva di poterlo davvero capire. La realtà però era molto diversa, Victoire non possedeva, e mai li aveva avuti, gli strumenti adatti a decifrarlo. Sarebbe stata anche una buona moglie - con quei capelli lisci e biondi, la pelle di porcellana e gli occhi marroni che ancora conservavano una certa ingenuità - se solo lui non l'avesse mortificata ogni istante con il ricordo di un'altra donna.
«Ho sistemato il guaio di tuo fratello con gli Agritera per le concessioni edilizie che ci ha fatto ottenere tuo padre. Ora però devo tornare a New Orleans.»
«Perché?» chiese allarmata.
«Mia madre è ancora là e i miei fratelli non sono in grado di gestire un cazzo!»
Lei fece una smorfia. «Odio quando parli così.»
Ignorò il tono infastidito di lei e non le rispose, andando verso il bagno. Victoire, sbuffando, lo fermò. «Tua madre mi pare se la sappia cavare da sola. Perché non torna anche lei? Dice sempre che non può stare molto tempo lontana dai suoi nipoti. Paul e Frank sono grandi e vaccinati ormai...»
Carmela per lei era sempre stata una presenza ingombrante ma, per amore di Arturo e la pace familiare, la trattava con la massima deferenza, anche quando si intrometteva in questioni che non la riguardavano.
«Ho da fare a New Orleans» ribatté, secco. L'insistenza della donna cominciava a disturbarlo. Neppure nei momenti di maggiore infatuazione per Evelyn aveva smesso di conservare un posticino per Victoire nel suo cuore pieno di anfratti e angoli nascosti. Ammirava in lei qualità di cui lui era privo: la pazienza, l'equilibrio, una certa integrità morale.
Le rivolse uno sguardo penetrante. Perché quelle doti ora sembravano non bastare più per impedirgli di correre dall'altra?
Lei, con un gesto irruento che non le apparteneva, gli gettò le braccia al collo.
La creatura che lo abbracciava con pudore - quasi che quindici anni di matrimonio e due figli non ci fossero mai stati - che lo avvolgeva in un'aura di Chypre di Coty era Victoire, biondissima e bianchissima, con il polso sottile nobilitato da un Cartier, un braccialetto d'oro e perle, tutta meringhe e cornucopia come una torta nuziale. Molto bella, naturalmente, uno schianto, fine come corallo, ma quella bellezza a lui pareva come la più insipida perfezione del mondo. Non le mancava altro che un giglio in mano.
«Mi manchi quando non ci sei, tesoro...» gli sussurrò all'orecchio. Quell'appellativo affettuoso e stringato lo fece sentire tremendamente a disagio. In effetti dovette irrigidirsi tanto a rispondere talmente freddo a quell'abbraccio che Victoire si ritrasse e gli rivolse, dal palmo di distanza a cui si era fermata, una delle sue occhiate riservate e prudenti. «Cos'hai? Ti vedo strano...»
«Niente. Non ho niente, non ti preoccupare. È solo il lavoro. Sto bene.»
All'improvviso si sentì sprofondare in un mare di incertezza. Allora attirò Victoire verso di sé e la strinse forte. Affondò il viso tra i suoi capelli, aspirandone lo stordente profumo nel tentativo di perdercisi dentro, narcotizzarsi dall'ossessione che sentiva per l'altra.
Fece l'amore con lei, e per tutto il tempo non fece che pensare alla città inabitabile dentro di sé che si allargava ogni istante che passava, mentre continuava ad abbattersi su Victoire con una blanda ferocia, in un atto rituale in cui i corpi agivano per abitudine, quando un uomo e una donna sono a migliaia di chilometri di distanza dalla loro carne. Victoire era sua e di nessun altro, lui lo sapeva, e sedurla era stata un'impresa, c'era voluto il matrimonio per andare a letto insieme. Se avesse dovuto definire Victoire con una sola parola, questa sarebbe stata "moglie".
Il fatto di essere stato il suo unico amante avrebbe dovuto unirli maggiormente, e invece no, non li univa affatto. Non che lei fosse esattamente un disastro a letto. Di fatto mostrava un entusiasmo sorprendente per una tipa così convenzionale, ed era molto affettuosa, ma parlava appena e non rideva neanche e prendeva l'intera faccenda con una solenne serietà che, se in passato non lo aveva disturbato, adesso lo metteva a disagio.
La sostanziale differenza rispetto a quanto succedeva un tempo con Evelyn, e in misura minore anche con alcune delle sue amanti, era che con Victoire non perdeva mai la consapevolezza di quanto stava facendo. Con Evelyn Arturo si lasciava andare e si sentiva in balia di qualcosa di più forte di lui, di una volontà superiore, come stregato, mentre con Victoire era una questione meccanica, un esercizio ginnico tante volte ripetuto, e molto piacevole, questo sì.
Quando ebbero finito, sua moglie gli appoggiò la testa sul petto e se ne stette in silenzio, mentre lui guardava il soffitto e le accarezzava i capelli biondi e serici, incapace di trovare qualcosa di carino da dirle. Non aveva il coraggio di aprire bocca perché temeva che tutto sarebbe suonato falso.
L'unica verità era che sarebbe tornato a New Orleans e si sarebbe ripreso Evelyn.
La mattina seguente, dopo aver dato disposizioni a Luigi Giacalone, il suo braccio destro che gareggiava in spietatezza e determinazione con lui quando si trattava di gestire situazioni spinose, salutò moglie e figli, schierati in fila davanti l'automobile che lo avrebbe portato in Louisiana. Salutò i due ragazzi di quindici e dodici anni, che avevano preso il suo aspetto fisico e la compostezza di Victoire, orgoglio di sua madre Carmela e di tutta la famiglia Bosco. Dopo il saluto, una semplice stretta di mano, i figli rientrarono in casa, pensando che il padre volesse salutare la madre in santa pace, e non li sfiorò il sospetto che Arturo non volesse protrarre più del necessario la vicinanza con la moglie e la soggezione al suo sguardo inquisitorio che, per un attimo, gli sembrò uguale a quello di sua madre Carmela.
La voce monotona di Victoire intanto divorava ciascuno dei minuti che le restavano snocciolando obblighi e doveri: «Torna presto, non dimenticare di scrivere, ricordati di portare i miei saluti a tua madre, ai tuoi fratelli e alle loro mogli, mi raccomando i regali alle figlie di Frank ed Elisa...», e così, all'ora di salutarsi, l'intensità del momento fu guastata da dettagli volgari.
Si diedero un ultimo bacio. Fu un abbraccio goffo, giusto un veloce e breve avvicinamento. Arturo si separò e si fermò a guardarla per un istante. Victoire si asciugò una lacrima con il dorso della mano. Lui salì in auto e lei rimase ferma al suo posto, in attesa che l'autista mettesse in moto l'auto.
L'ultima immagine di lei che Arturo portò con sé fu quella di una fragile donna snella, anemica, pallida, scarnificata, una creatura mansueta e riservata che agitava goffamente la mano e si rimpiccioliva a vista d'occhio. Aveva bisogno di Victoire perché rappresentava una sovrastruttura e un ordine che amava e rispettava. Con il sostegno di sua moglie, con la sua presenza costante, in tutti quegli anni aveva sopportato la mancanza di Evelyn.
C'erano molti generi d'amore, si era sempre detto, e la passione è solo una delle tante manifestazioni possibili. Non aveva e non avrebbe mai provato passione per sua moglie, non si era e non si sarebbe tormentato per gelosia né sentito insicuro, non aveva e non avrebbe dovuto procedere con i piedi di piombo per evitare di infastidirla e, soprattutto, a causa sua non aveva e non avrebbe mai dovuto scontrarsi con la madre, perché Carmela aveva adorato Victoire fin da subito e, Arturo ne era sicuro, Evelyn non le sarebbe mai andata a genio, non solo per la vita dissoluta che aveva condotto, ma anche perché non era assolutamente il tipo di donna che poteva piacerle.
Con Victoire aveva e avrebbe continuato ad avere una vita serena e quello che la moglie non aveva da offrirle - grinta, entusiasmo, vitalità, energia, carne e sangue - glielo poteva dare solo Evelyn.
Durante il viaggio continuò a pensare a Evelyn - alla sua grinta, al suo entusiasmo, alla sua vitalità, alla sua energia, alla sua carne, la sua carne, la sua carne, alla sua pelle, al suo sangue, al rosso del suo spirito, delle sue labbra, del suo sesso, dei suoi capelli - perché non poteva, anche volendo, smettere di farlo. Non ci sarebbe mai riuscito.
Forse era vero quello che scriveva un poeta di cui non ricordava il nome, non era solito leggere poesia, ma a una serata mondana qualcuno aveva declamato quei versi e lui ne era rimasto colpito: L'amore non è volontà ma destino... Lui aveva tentato di non crederci. Arturo avrebbe voluto amare Victoire, non Evelyn. E finché non ci aveva creduto, la verità non aveva avuto voce, tanto meno i poeti. No, per carità, si disse, basta con i versi e con le farneticazioni di gente inutile come i poeti!
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