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Capitolo XXXIV

Fabrice si sentiva irrequieto. Si infilò nella porta sul retro del Louisiana, si sforzò di chiuderla piano e di non sbatterla. Non voleva essere lì. L'unico posto in cui voleva trovarsi in quel momento era con Louise. Era tornato dall'Ohio da più di tre settimane e lei ancora non si era fatta viva. Tutti i tentativi per incontrarla erano stati vani.

Non era felice di fare l'uomo forte e sicuro che poteva sopportare di essere sempre messo in disparte. Non era felice di sapere che la sua vita era così, che il suo ruolo era già definito a priori: d'accordo, era l'uomo di cui tutte dicevano di innamorarsi follemente e che poi lasciavano per un altro, più solido, o per ritornare dal marito. Certo, Louise non lo aveva lasciato ma detestava la facilità con cui lo escludeva dalla sua vita. Lui smaniava dalla voglia di vederla, anche solo per scambiarsi un saluto, e lei si era arroccata dentro la fortezza di famiglia al Garden.

Non era felice di dover mandare giù il fatto di non meritare il minimo rispetto. Non era felice di vivere in una cultura in cui doveva tollerare l'esistenza di una discrasia tra quello che desiderava davvero e quello che doveva desiderare, che poi era ciò che gli imponevano dall'esterno. Non era felice di sentirsi condannato a cercare, e a non trovare mai, regole chiare che lo aiutassero in quel mondo caotico dei giochi di potere.

Come poteva pretendere Louise che lui capisse la sua ostinazione a restare con un marito che non amava, il quale non andava neanche a letto con lei e che, con molta probabilità, avrebbe tirato un respiro di sollievo se se ne fosse andata? E, ancora, come poteva capire Amanda che lo aveva lasciato perché non era alla sua altezza e che ora, alle soglie del matrimonio con un altro, tornava a cercarlo, non dandogli un attimo di tregua, attaccata come un cane all'osso? E dicevano di amarlo. Bugie! Non potevano lottare contro anni di educazione borghese, né contro il riconoscimento che dovevano ai genitori che le mantenevano, né contro anni di matrimonio parassitario, o altro.

Era stanco di constatare che a lui si facessero promesse che poi non potevano mantenere. Era stufo di dare ragione agli altri. Cosa le aveva scritto Louise nell'ultimo bigliettino che gli aveva lasciato? "La tua esistenza è per me un bisogno primario... sei diventata condizione unica e indispensabile per la vita... se non siamo una sola persona... in questo universo crudele e noioso... non permetterò che nulla ci separi..." Idiota! ricordava ogni singola parola a memoria. Lei aveva dato vita a quella loro interdipendenza, e l'aveva fomentata, gli aveva fatto credere che fosse possibile e, quel che era peggio, sapeva perfettamente di avere a che fare con una persona che non l'avrebbe presa alla leggera. Non poteva aspettarsi di fingere di stare bene quando si dimenticava di lui o che mantenesse una dignità in cui non credeva, perché non ci riusciva. Lui non le aveva mentito. Non le aveva detto di volere solo un'avventura. Aveva messo in chiaro cosa voleva e cosa cercava, e lei l'aveva accettato. Gli aveva chiesto tempo e lui l'aveva concesso. Ma era stanco e infelice. Troppo stanco e troppo infelice.

«Sei in ritardo» gli disse Jim, appena arrivò davanti al bacone del bar. «Dove diavolo sei stato?»
Fabrice lo ignorò e passò in rassegna i ragazzi già pronti agli ottoni. «Scusami,» gli rispose dopo un po'«ho avuto da fare questo pomeriggio.»
Jim gli lanciò un'occhiataccia, prima di andare a prendere una cassetta di bottiglie di liquore nel magazzino.

Lee entrò dalla porta principale. Rivolse uno sguardo sollevato a Fabrice, e andò verso di lui. «C'è qualcosa che non va, ragazzo?» chiese, scrutandolo con i suoi occhi miti.
Fabrice sospirò. Doveva proprio fare schifo come attore, visto che gli si leggeva tutto in faccia, pensò. Inclinò la testa verso Lee. «Non preoccuparti, hai già abbastanza rogne.» Il più anziano scrollò lo spalle. «Per qualunque cosa sai che ci sono... Attento comunque a Jim, è tutto il pomeriggio che è di cattivo umore.»
Fabrice sbuffò a sentire quelle parole. Jim di cattivo umore. Sai che novità! Il barista era sempre di cattivo umore.

La stazza imponente di quest'ultimo si stagliò all'improvviso tra di loro. La furtività di Jim era leggendaria. Un momento non c'era e quello immediatamente dopo te lo ritrovavi davanti senza esserti accorto di nulla. «Sono l'unico che si preoccupa di non mandare tutto a puttane qui! Maledetto Volstead Act! C'è uno sbirro proprio in fondo alla strada» berciò.
«Me ne occupo io» rispose Lee, e si avviò verso l'uscita con la disinvoltura tipica di chi è abituato a risolvere problemi.
Jim, ignorando Fabrice, cominciò a pulire il bancone. Passava lo straccio con furia a stento trattenuta.

«Cos'è successo? Sei più orso del solito» chiese dopo un po'. Il barista non si scomodò a rispondergli, continuò imperterrito nell'operazione di pulizia. «Sai che non mollo...» lo pressò. Jim si strinse nelle spalle. «Tutto a posto.»
«E allora perché sei così?»
Il barista fece spallucce di nuovo.
Fabrice, spazientito, lo prese per un braccio, impedendogli di continuare a lucidare il bancone già perfettamente pulito.
«Certe volte mi fai prudere le mani» sbuffò Jim, liberandosi dalla presa.
«Sono sempre pronto, lo sai» ribatté.
«Naa, non voglio rovinare il bel faccino che ti ritrovi», un mezzo sorriso ammorbidì i tratti austeri di Jim.

Fabrice guardò verso la porta che dava sul bar, da dove era uscito Lee. «Non è il lavoro...» sussurrò.
«Magari fosse solo il lavoro», lo interruppe a denti stretti. «A parte gli sbirri che negli ultimi tempi saltano fuori a ogni apertura e Lee è costretto a sborsare sempre più soldi per non farci chiudere, Joseph vuole tornare.»
Poggiò lo straccio e cercò nelle tasche dei pantaloni scuri. Tirò fuori un foglietto spiegazzato e glielo porse. Fabrice lo prese dalle mani dell'altro con una certa apprensione e lo aprì. Joseph, nella sua grafia stentata, annunciava che avrebbe fatto ritorno a New Orleans per Natale. Lo riconsegnò a Jim come se scottasse.
«Non è detto che torni per quello...»
Jim emise un verso di disgusto. «Quello è il marito della tua amante.»

Gli occhi verdi di Fabrice si assottigliarono. «Che cosa vorresti dire?», il corpo si irrigidì mettendosi in posizione di difesa.
«Voglio dire che tu sei l'ultima persona a poter parlare, visto che di giudizio non ne hai più di Joseph...»
«È diverso!» obiettò.
Jim fece roteare gli occhi. «In cosa? Vi siete impelagati entrambi in storie senza futuro con gente che fa parte di una famiglia di criminali. Perché i Bosco, dietro la loro patina scintillante, sono criminali.»
Fabrice tentò di ribattere, ma Jim glielo impedì. «La cosa peggiore è che entrambi non pensate alle conseguenze che le vostre fregole potrebbero avere su tutti noi. Da quando avete iniziato ad amoreggiare con quelli, non abbiamo avuto un attimo di tregua qui. Prima il pestaggio e l'incendio, ora i continui controlli della polizia, nonostante Lee abbia sempre pagato bene per tenerli buoni.»
Jim ormai era un fiume in piena difficile da arginare, nonostante il tono di voce non si fosse mai alzato, ogni parola era intrisa di furore.
«Lee ci ha tirato fuori dalla merda in cui vivevano e voi lo ripagate dandogli altri problemi, solo perché non riuscite a tenervi l'uccello nei pantaloni.» Finita la lunga tirata, emise un sospiro profondo, e finì di pulire il bancone non degnando più Fabrice di uno sguardo.

***

Louise percorreva il Quartiere a passi lenti. Aveva già sbagliato strada una volta. Era uno di quei giorni che si chiedeva perché si preoccupava di lasciare villa Bosco.
«Quante volte una persona può perdersi in una città dove ha vissuto tutta la vita?»
Quel giorno il numero sembrava infinito. Naturalmente stare concentrata avrebbe aiutato, ma la sua soglia di attenzione era quella di una pulce malata. Si trovava su St Anne vicino alla caffetteria preferita di Elisa. Non che bere caffè l'avrebbe aiutata nella situazione in cui si trovava. Anzi le avrebbe di sicuro fatto venire la nausea, ma aveva bisogno di qualcosa che le desse un minimo di stimolo necessario per fare quello che si era riproposta uscendo di casa.

Non avrebbe bevuto caffè. Non le era mai particolarmente piaciuto e da un mese a questa parte ne detestava anche solo l'odore. Il Coffee Stain però aveva le pareti decorate in stile artistico e aveva bei ricordi di Elisa e Marguerite sempre pronte a bere quel liquido simile a catrame. Anche a Fabrice piaceva. Quello era il giorno in cui avrebbe dovuto mettere fine alla loro relazione. Scacciò il pensiero e la sua mente guizzò di nuovo sull'edificio.

Entrò nella caffetteria e scoprì che neanche l'ambiente familiare le dava conforto. Ordinò qualcosa da portare via e si diresse decisa versa la meta. Era inutile tergiversare.

Quando giunse alla porta dell'appartamento di Fabrice, il senso di nausea aumentò. Si sentiva così sola. Le sue emozioni erano crude e a brandelli. Non si sentiva così da tanto. Credeva di aver imparato a seppellire le emozioni. Quel giorno sentiva davvero la solitudine della sua vita. Il doloroso bruciore di quella sensazione le lacerava il petto e dovette sforzarsi di respirare. Toccò la porta con reverenza. Non si sorprese di trovarla solo accostata, come se lui l'aspettasse. Una lacrima rischiò di traboccare dagli occhi, la ricacciò indietro.

Spinse la porta ed entrò. Lui stava ancora dormendo sul divano. Le sue labbra si contraevano mentre lei lo guardava. Pareva così adorabile e sembrava stare scomodo. Era troppo alto per il divano, e le braccia gli dondolavano nel vuoto. Giacca e camicia erano ripiegate in modo ordinato sul tavolino, e le scarpe consumate posate sul pavimento. I capelli biondi erano scarmigliati e le sue fattezze rilassate, mentre le ciglia erano annidate contro le guance. Teneva la bellissima mano mascolina ed elegante accanto al viso. Louise pensò all'Endimione dormiente del Canova. Non riuscì a reprimere un sospiro strozzato.

Con la gola serrata, Louise appoggiò la sua borsa e il pacchetto comprato alla caffetteria sul tavolo, poi si inginocchiò sul pavimento avvicinandosi alla sua testa. Fu investita da una sensazione di tenerezza. Fece scorrere la punta di un dito lungo la linea delle sue sopracciglia. Si sporse in avanti e lo baciò sulle labbra. Sorpreso, Fabrice si risvegliò all'istante con un sussulto tale che cadde proprio dal divano. «Mi dispiace» sussurrò lei.

Fabrice si guardò attorno assonnato mentre scivolava di nuovo sul divano e si metteva dritto. Gli occorse qualche secondo per ricordarsi dov'era. Schiarendosi la gola si accigliò verso Louise che era accovacciata sulle proprie gambe e lo osservava con una strana espressione piangente in volto. «Cosa stavi facendo?» le chiese.
«Stavo svegliando il Bello Addormentato con un bacio.»

Si incupì alle parole di lei, ricordandosi come le era stato facile dimenticarsi di lui per più di un mese, fin quando non fiutò qualcosa di allettante quasi quanto il suo profumo di tiglio. «Frittelle?»
Lei gli porse il pacchetto dal tavolino. «Pensavo che avresti preferito quelle al succo di guaiava invece dei soliti muffin ai mirtilli.»

Fabrice la guardò con sospetto. «Non sparirai di nuovo senza farmi sapere nulla?»
«È complicato...»

Louise distolse lo sguardo, incapace di sopportare il dolore nei suoi occhi. Un riflesso del suo. Non voleva farlo, non voleva nascondergli nulla. Ma non aveva scelta. Quella sarebbe stata la loro ultima volta. Cercò di scacciare il pensiero e tirò fuori una frittella ricoperta di zucchero dal sacchetto. «Affamato?»

Sì, lo era, e non solo del cibo. Aveva fame del suo corpo e della sua compagnia. Più di tutto bramava che i suoi occhi si accendessero di un sorriso per lui e non fossero ombreggiati dal dolore. Ci sarebbe stato tempo per parlare, discutere, giungere a un compromesso, ora però aveva bisogno di dimostrarle quanto gli fosse mancata, quanto la sua presenza gli riempisse la vita nel solo modo che conosceva, con il suo linguaggio.

Lei gli sollevò la mano verso le labbra, offrendogli il dolcetto. Lui non lo prese. Invece si sporse in avanti e gli diede un morso, osservando nel frattempo lei che lo guardava a sua volta. Louise rabbrividì quando lui mordicchiò la frittella e poi si mosse per baciarle le labbra. Gemette a quel suo sapore zuccheroso. Lo costrinse ad appoggiarsi contro lo schienale del divano in modo da potersi mettere a cavalcioni sopra di lui. Fece passare la mano attraverso i suoi capelli spettinati lasciando che quelle onde dorate le si avvolgessero per l'ultima volta intorno alle dita.

***

Con un sorriso soddisfatto, Tabitha si chiuse dietro il portone di casa Diallo e, dopo aver sceso i gradini, attraversò il giardino in cui il vecchio maestro passava molto del suo tempo. Faceva freddo, più del normale, ma non se ne lamentò. Qualche mese prima aveva sperato che un vortice polare mettesse New Orleans in ginocchio, cosa improbabile anche a fine novembre. Era pomeriggio inoltrato e il tragitto fino a casa non fu malvagio, a parte il fatto che avrebbe giurato di aver visto una chioma rossa a qualche passo dietro di lei. Fu solo quando giunse su Philip Street che Antony si palesò.

«Ora mi segui pure?» chiese, mentre rallentava il passo per aspettarlo.
«Ti ho dato il tempo necessario per metterti nei guai» ribatté lui. Si protese verso di lei e le tirò una ciocca sfuggita alle spesse trecce in cui aveva raccolto i capelli. Tabitha lo guardò indispettita. Lui ammiccò. «Devi imparare a tenerli in ordine per quando andrai nella tua bella scuola in Ohio. Sembri sempre una piccola selvaggia...» sospirò in modo teatrale sull'ultima frase.
Lei gli allontanò la mano e scosse la testa. «Risparmiami le tue battute, non mi hanno fatto ancora sapere nulla» disse, imbronciata.
«Ti prenderanno e tu ti dimenticherai in fretta di questo quartiere maleodorante e chiassoso.»
«Non mi dimenticherò del posto dove sono nata, né dei miei amici.»

Antony sbuffò, mentre Tabitha cercava di non pensare all'esito dell'esame che aveva fatto in Ohio. Aveva forse riposto troppa fiducia nelle sue capacità, portando un pezzo difficilissimo. Avrebbe dovuto seguire il consiglio del maestro Diallo e ripiegare su uno di più facile esecuzione. Con la testa piena di dubbi e la confortante presenza del ragazzo, scorse finalmente la palazzina dove abitava. I genitori erano ancora a lavoro per fortuna e non le avrebbero fatto storie sul fatto che Antony l'avesse accompagnata a casa.

Aprì il portone e si voltò per salutare l'amico, quando un rumore di vetri infranti la fece sobbalzare. «Cos..»
Un attimo di esitazione e poi entrò. Il rumore di oggetti scagliati e il sibilo di una voce adirata proveniva dal piano di sopra. Fabrice! Successe tutto molto in fretta. Un istante prima aveva un piede sul gradino, un istante dopo era immobilizzata con le braccia dietro la schiena, mentre Antony le stringeva talmente forte da farle male. «Stai buona...»
«Fa... brice» sibilò lei. Cercò di divincolarsi senza successo. La porta dell'appartamento di sopra si aprì e una donna bruna corse giù dalle scale con l'aria sconvolta. Nello stesso momento Antony lasciò la presa su di lei.

A Tabitha bastò un attimo per capire. Prima che la donna la superasse, l'afferrò per un braccio. «Stronza, cosa gli hai fatto?» le urlò.
I rumori di sopra crebbero di intensità. Louise fece per parlare, ma uscì un singhiozzo, di quelli scomposti, e le lacrime che tratteneva da un'eternità ruppero gli argini. Piangeva, ogni lacrima accompagnata da un fremito. Aveva le guance intrise. Fece un singhiozzo per ognuna delle cose che aveva detto a lui e per ogni gesto che aveva fatto per allontanarlo da lei. Per quello che aveva dovuto sacrificare per rimanere a galla. Sapeva che ci sarebbe voluto molto tempo prima che i fantasmi delle sue azioni smettessero di perseguitarla. Le lacrime provenivano dall'antro buio e freddo della sua solitudine che ancora una volta aveva cercato di riempire, fallendo miseramente. Furono gli occhi della ragazza che la guardavano spietati a farla reagire, si staccò dalla presa e fuggì via, chiudendo il portone dietro di sé con un tonfo.

Tabitha era combattuta tra inseguire lei o salire da Fabrice. Guardò Antony che, stranamente, taceva. Nessuna battuta cattiva. «Se la vedo un'altra volta qui, le spezzo le gambe!» esclamò, poi fece per salire le scale, ma Antony la fermò.
«Non puoi aiutarlo e non ti permetterò di andare da lui mentre sta facendo il pazzo.»
I rumori di sopra non accennavano a diminuire. Fece per protestare, ma si rese conto che lui aveva ragione. Senza pensare a quello che stava facendo, Tabitha si lanciò sul ragazzo e lo abbracciò. Il corpo di Antony si irrigidì e fece per allontanarla, ma lei si aggrappò alla camicia. Sul volto pallido del rosso baluginò qualcosa, un'emozione feroce. Si rilassò e la circondò con le braccia, impacciato. Tabitha con la sua camicia stretta tra le mani, gli premette il viso sul petto, il fresco profumo di aria aperta che lo contraddistingueva le diede un po' di conforto.

Sono qui, pensò, ma novembre è arrivato e se n'è andato lasciando il colore della tristezza.

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