Capitolo XXXI
«Hai proprio l'aria di una che è appena uscita 'felice' dal letto.»
Louise trasalì a quel commento, a voce fin troppo alta, nel piccolo Cafè dove era seduta con Marguerite, in procinto di terminare il loro pranzo a base di riso e fagioli rossi. Sfortunatamente per lei, la voce della sua compagna possedeva un'adorabile ottava in grado di essere udita con chiarezza nel bel mezzo di un uragano. E a essa fece seguito un repentino silenzio nella stanza affollata. Lanciando un'occhiata ai tavolini vicini, Louise notò che gli uomini avevano smesso di parlare e si erano voltati a fissarle con molto più interesse di quanto lei avrebbe gradito. Oh, diamine! Marguerite non imparerà mai a tenere la voce bassa?, pensò.
Per la milionesima volta da quando si erano conosciute, Louise desiderò che la donna fosse capace di provare imbarazzo. Ma la sua amica esuberante, spesso sopra le righe, non conosceva il significato di quella parola. In assenza di Elisa, Marguerite era l'unica altra persona di sesso femminile con cui aveva una certa confidenza; il loro rapporto non aveva però la profondità del legame che sentiva con la cognata. «Perché non parli più forte, Margue?» sussurrò.
Un cameriere bruno si fermò accanto al tavolo e rivolse loro un sorriso sardonico. «C'è qualcos'altro che posso portarvi, signore?» chiese.
«Penso che siamo a posto» disse Louise, lanciando un'occhiataccia all'altra donna. Frugò nella borsetta di perline per prendere i soldi che poi mise sul tavolo. Si alzò e andò verso la porta.
«Non arrabbiarti» disse Marguerite, seguendola fuori tra la brulicante calca di gente che affollava Jackson Square.
Un sassofono solitario suonava del jazz sopra la cacofonia di voci, cavalli e motori d'auto mentre l'ultima ondata di calore tipico della Louisiana assaliva Louise. Cercando di fare del suo meglio per ignorare l'aria calda tanto densa da poter essere a malapena inspirata (non sembrava neanche di essere a metà ottobre, ma nel pieno dell'estate), Louise si fece strada tra la folla.
«Sai che è vero» disse Marguerite, raggiungendola. «Voglio dire, per l'amor del cielo, Louise, quando mai ti ho vista così raggiante? Ma guardati!» ripeté ad alta voce in tono incredulo. Diversi passanti si fermarono, spostando lo sguardo da Marguerite a Louise. Incurante come al solito dell'attenzione che attirava, l'altra continuò imperterrita. «Non dirmi che è merito di Paul, perché non ci credo. Chi è?»
Louise le scoccò l'ennesima occhiataccia. Aveva forse intenzione di urlarlo affinché lo sentisse ogni essere umano (e anche cavallo, se per quello) nel Vieux Carré?
«Abbassa la voce» la pregò. Poi aggiunse in tono secco: «Non penso siano affari tuoi».
Marguerite sbuffò. «Sì, però scommetto che a Elisa hai raccontato tutto!» Dentro di sé Louise si sentì in colpa. Era innegabile che il rapporto con Elisa fosse diverso, più profondo. Nonostante Marguerite fosse una buona amica per certi versi. In quell'istante fu conscia come non mai delle differenze tra le due. Si sentì perciò quasi in dovere di risponderle. «Sì, c'è qualcuno... Ma non voglio parlarne.»
Gli angoli della bocca di Marguerite si sollevarono perfino mentre gli occhi di Louise si facevano più scuri in senso di avvertimento. Marguerite se ne stette per un attimo ferma in mezzo alla strada, con il leggero abito colore crema e i capelli scuri raccolti in un sofisticato chignon. «Ora devo proprio andare, ma non mi sfuggi, ragazzaccia!» disse infine, scuotendo la testa, e con una risatina che le aleggiava sulle labbra.
Louise la guardò allontanarsi e sorrise. Ripensò alle parole dell'impicciona che si voltò per farle un ultimo cenno di saluto con la mano, prima di sparire tra la folla. "Non ti ho mai vista così raggiante". Non poteva negarlo, le ultime due settimane, liberata dalla presenza opprimente di Arturo, partito per sistemare un affare a New York, si era tuffata tra le braccia di Fabrice ogni volta che aveva potuto. Aveva fatto castelli in aria, fingendo che il passato e il futuro non esistessero, che l'oblio fosse possibile, convinta di potersi rifugiare in quell'amore che la realtà rischiava di ridurre a brandelli da un momento all'altro. Neanche l'incombente realtà però poteva distoglierla dalla bolla di felicità che si era creata.
Anche quando non stava con Fabrice, il pensiero correva a lui e allora si illuminava da dentro.
Aveva l'abitudine di baciarla sulla schiena. Non erano baci normali. Posava le labbra sulla sua pelle, come ventose. Erano baci umidi. Le accarezzava la schiena per ore. La baciava senza mai fermarsi. La moltiplicazione dei pani e dei pesci. Più ne dispensava e più ce n'erano. Nessuno l'aveva mai baciata così, prima. Temeva che nessuno lo avrebbe fatto più. Ma scacciava quel pensiero, il pensiero della fine, con ostinazione, lo ricacciava indietro con violenza, perché altrimenti il mondo sarebbe tornato a essere un luogo inospitale per lei. E nel respingerlo si domandava le tre ragioni che la rendevano felice: Fabrice, Fabrice, Fabrice.
Non c'era niente di meglio di lui. Fabrice aveva la pelle chiara. Incredibilmente vellutata per un uomo. I capelli biondi e folti. Sapeva di campagna, di shampoo alle erbe. Lei dormiva chiusa in una tiepida prigione, stretta tra le sue gambe e braccia. Circondata di coccole e di cotone. Poteva chiedergli qualunque cosa. Fammi questo, fammi quest'altro, baciami qui, e adesso lì. Non la deludeva mai. Mai, mai, mai. Si sentiva la bambina più viziata della storia dei tempi. Facevano l'amore come e dove voleva. Sul divano, a letto, sul tavolo della sala, sul portone di casa sua. Sentiva i suoi baci sulla schiena e le sue mani sui fianchi e lo sentiva penetrarla. Chissà quante donne avevano sentito i suoi baci sulla schiena? Non glielo chiedeva perché temeva che lui a sua volta le avrebbe chiesto: con quanti sei andata a letto? E allora avrebbe dovuto rispondergli con molti, ma nessun uomo mi ha presa da dietro. Le dita di lui scendevano lungo la colonna vertebrale. All'inizio faceva male leggermente, poi era un misto di piacere e dolore, e alla fine il dolore si diluiva e rimaneva solo il piacere. Sentiva di avere un milione di labirinti nel suo corpo, passaggi segreti che collegavano ogni orifizio al cervello. Milioni di circuiti che trasmettevano scariche elettriche a tremila volt. Pura dinamite. Piccole esplosioni all'interno del suo corpo. Fabrice era il suo esercito di liberazione.
Persa in quei pensieri, era in ritardo per l'appuntamento con l'uomo che occupava i suoi pensieri, perciò, quando avvistò Mama Lousy, non si sorprese di vederlo in attesa fuori dal negozio di souvenir, appoggiato al muro. Con un paio di pantaloni scuri e una camicia sbottonata sul collo, aveva un aspetto comunque divino. Non la guardava, per cui vedeva solo la linea decisa della mascella, ma avrebbe giurato che aveva un mezzo sorrisetto sulle labbra. Con un tuffo allo stomaco rallentò il passo. Intorno a lui aleggiava una certa tensione trattenuta a stento. Poteva anche sembrare rilassato, là con le mani in tasca e le gambe incrociate all'altezza delle caviglie, ma a lei non sfuggiva che era in una posizione di vigile attesa.
«Cominciavo a domandarmi se ti saresti fatta vedere», l'accolse senza guardarla. Louise si accigliò. Alla faccia della vista periferica! Si fermò accanto a lui. Appoggiando la testa contro il muro, Fabrice mise in mostra il lungo collo virile. A Louise non era mai capitato di pensare che il collo di un uomo potesse essere sexy, ma in quell'istante si rese conto di quanto lo potesse essere. Aveva gli occhi chiusi, le lunghe e folte ciglia aperte a ventaglio. Il sorrisetto continuava a guizzargli sulle labbra. «Sei seguita. Questo però non mi impedirà di portarti a casa mia e farti tutto quello che mi passa per la mente.»
Louise aveva le orecchie in fiamme. Per qualche ragione, con quel sorriso e quella voce roca, il fatto di essere pedinata non era così rilevante. «Cosa suggerisci?»
«Entra nel negozio. Compra qualcosa in fretta e poi chiedi alla signora al banco di poter uscire dalla porta sul retro. Non farà storie. Arriva all'angolo tra Bourbon Street e St Philiph Street.»
Louise lanciò un'occhiata circospetta alle sue spalle. Negli ultimi minuti la ressa era addirittura aumentata. Entrò nel negozio e comprò senza guardarli un paio di ninnoli. La vecchia signora seduta dietro il bancone strizzò solo gli occhi per metterla a fuoco, quando le chiese di poter uscire dal retro, prima di indicarle con un dito raggrinzito una porta mezza coperta da un orribile tendaggio damascato.
Si trovò dall'altra parte della strada. Scese dal marciapiede e girò intorno a un deliver vans mal ridotto da cui degli uomini stavano scaricando merci. Aggirò un nugolo di persone, evitando di guardarsi alle spalle. Arrivata all'angolo aspettò. Poco dopo due braccia le circondarono la vita e un calore le divampò nelle vene.
«Andiamo...» Fabrice la prese per mano e la trascinò per il breve tratto di strada che fecero per arrivare a casa dell'uomo.
Non disse nulla finché non giunsero davanti allo stabile in cui abitava. Si guardò intorno, poi aprì il portone. I suoi occhi sfavillavano nella luce del sole che filtrava tra gli edifici. Si limitò a fissarla per un po', quindi disse: «Entriamo, non è prudente stare qui».
Con un respiro profondo, Louise richiamò all'ordine la voglia di baciarlo mentre lui si faceva da parte con leggiadra cortesia. Per essere uno così alto, si muoveva come fosse fatto d'aria. In verità, tutto nel modo in cui si muoveva era affascinante da guardare. Scosse la testa ed entrò. Quando lui si chiuse la porta alle spalle gli chiese: «Cos'è successo?»
Fabrice voltò la testa nella sua direzione e sorrise, quindi allungò un braccio per afferrarla e stringerla tra le braccia. «Avevo deciso di venirti incontro, ma ti ho visto con quell'altra donna, così ho aspettato che rimanessi da sola. Mentre mi guardavo attorno, ho notato un ragazzo dai capelli rossi che si aggirava poco distante da dove eri tu, attento a non farsi notare», fece una pausa, «sono cresciuto sulla strada, mi sono accorto subito che ti stava seguendo». La strinse a sé. «Mi sono ricordato dell'uscita sul retro di Mama Lousy. La usavamo spesso da ragazzi per sfuggire agli sbirri.»
Il pensiero di Maurice, immobilizzato in un letto d'ospedale, lo colpì con violenza. Dopo l'incidente era andato a trovarlo più volte nella casa di cura in cui lo avevano portato. Lee Bailey si era addossato le spese delle sue cure. Ancora una volta l'angelo del Quartiere, come lo chiamavano alle spalle, aveva risolto la situazione. Non restava che aspettare che si rimettesse del tutto. Non aveva dimenticato quello che aveva provato a fare a Tabitha, ma non se la sentiva neanche di voltargli le spalle del tutto. Era stato un amico per la maggior parte della sua vita.
«Antony», sussurrò Louise, rabbrividendo e riportando Fabrice al presente. «Mi ha messo suo figlio alle costole.»
Lui si scostò da lei per guardarla in faccia. «Antony, l'amico di Tabitha?»
Lei scosse la testa. «Non lo so... È il figlio illegittimo di Arturo Bosco, mio cognato. È pericoloso...»
Fabrice fece un sospiro e guardò in alto verso l'appartamento dei Baker. «Dovrò parlare con Tabitha. Non ora però...»
Il sorriso tornò sul volto di Fabrice. Era cioccolato fondente, vellutato e corposo, pensò lei. Le prese la guancia, la mano gentile mentre le reclinava la testa all'indietro e, prima che il cuore di Louise potesse fare anche un solo altro battito, la baciò. Non fu un bacio tenero o provocante, ma come se avesse un qualche diritto sul corpo di lei, sulla sua anima, su tutta se stessa. Inclinò la testa, la bocca esigente, le labbra che si muovevano sulle sue, la lingua che tracciava le linee della sue labbra, deciso a schiuderle e lei... lei le dischiuse per lui. Le sue labbra si aprirono, e lui emise quel suono, quel gemito profondo, animale, che le provocava vampate di fiamme in tutto il corpo. Il bacio si approfondì e la sua lingua scivolò su quella di Louise, sul suo palato. La prese con la bocca, la assaporò e la reclamò come sua. Quando alzò la testa ansimava. La fissò negli occhi. I suoi sembravano vorticare in una miriade di verde mentre le passava il pollice lungo il labbro inferiore.
«A casa...» sussurrò Louise.
Prima di Fabrice, Louise si era chiesta spesso: "Che cos'è l'amore?", "Esiste?". Dopo averlo conosciuto non se lo domandava più. Esisteva un'affinità chimica, un ineluttabile amore epidermico che la trascinava verso di lui rendendo irrilevanti le domande, i dubbi e i pregiudizi. Perché vicino a Fabrice, non le importava di niente.
In sottofondo si sentiva una musica sommessa, un vecchio disco che lui metteva su, al quale si aggiungeva lo scricchiolio smorzato dalle molle del materasso. Dalla finestra, dalla strada giungeva un chiarore giallognolo che si disperdeva nella stanza. Mari d'ombra tremavano qua e là, nell'oscurità, e venivano incontro come immense onde in cui si immergevano, annegando in dimensioni tremanti di abbandono. Il tepore del giorno che volgeva al termine infiammava i loro abbracci, i sospiri cozzavano contro le lenzuola, davanti a Louise si ingigantivano quegli occhi appena percepibili, il naso di lui sfiorava il suo. Nel silenzio si sussurravano promesse incredibili, puerilità assurde, dichiarazioni scontate che a furia di ripetere riverberavano in molteplici vibrazioni, e il tempo volava mentre facevano e disfacevano il letto. Scivolando per raggiungerlo, sentiva la pelle di lui sulla sua. Si producevano scintille elettriche. Fabrice sussurrava strascinando le parole con una voce aranciata e le diceva cosa le avrebbe fatto. E poi sentiva come entrava in lei, un attimo luminoso che rischiarava le lenzuola. Lui era in lei e lei in lui. L'amava perché era diverso, perché non aveva niente a che vedere con lei, perché in fondo non riusciva a capirlo. Era felice Louise, apparteneva a quel letto e a quello spazio come apparteneva al padrone di quella casa. E in quei precisi momenti non sapeva perché, né aveva bisogno di saperlo. Ma ogni volta che lui le parlava, e la toccava, e l'abbracciava con le sue braccia forti e concrete, sapeva di trovarsi esattamente dove doveva essere, perché quello era il posto, lo spazio e il tempo che le spettavano. Anche quando non c'era era come se ci fosse, le bastava chiudere gli occhi ed eccola di nuovo a casa. Il suo corpo, la sua parte fisica, tutto quello che in lei vi era di irrazionale e incomprensibile, tutto quello che non si prospettava spiegazioni né futuro e neppure compromessi era suo, a lui tornava nel sogno e nella veglia, in un luogo intangibile e chiaramente irreale, in uno spazio e in un tempo non inquadrabili in coordinate precise, nella sua testa, nel più profondo della sua persona. Viaggiava dentro di lei e lo trovava. Quella parte di lei era sua, le apparteneva. Lui era la sua casa.
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