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Capitolo XXVIII

Evelyn era cresciuta in un mondo di menzogne.
Bugiardo era stato il padre che, deciso a sostenere la parte del cristiano irreprensibile, si ostinava a negare che le donne che lo andavano a cercare alla piccola bottega da falegname fossero qualcosa di più che semplici clienti, e che le sue frequenti uscite notturne non fossero dovute, o non sempre, a qualche lavoro 'urgente'. Bugiarda sua madre che sapeva ma faceva finta di niente, per continuare a vivere con l'illusione di essere la famiglia più irreprensibile e virtuosa del Quartiere. E illudersi così di far dimenticare alla gente che sua cognata May fosse la tenutaria di un bordello. Bugiarda sua sorella Judith che, anche lei determinata a salvare le apparenze contro ogni ostacolo, non riusciva ad ammettere - Judith era allenata a fingere - quello che agli occhi di tutti era evidentissimo: che il suo matrimonio era una noia e la sua vita un deserto. Bugiardo era stato Arturo che, lasciata la ragazza ufficiale a New York, andava da lei per ottenere favori che la suddetta ufficialissima promessa sposa si rifiutava di concedere. Bugiarda pure zia May che alle ragazze della maison suggeriva, quando incontravano un nuovo cliente, di dire una formula rituale che si tramandavano le une alle altre: «Tu sei il terzo uomo con cui vado a letto», perché il primo avrebbe preteso la prova del sangue e il secondo avrebbe subito gli spiacevoli e costanti confronti con il primo. E bugiarda era la stessa Evelyn che non aveva mai detto a Fabrice ciò che provava per lui, nascondendo i sentimenti sotto la comoda coperta del piacere dei sensi.

Quando era adolescente e poi giovane, Evelyn aveva odiato a tal punto quel mondo di bugie che si era ripromessa di non ricaderci più, a qualunque costo. Il ritorno di Arturo, con il modo ossessivo con cui le imponeva la sua presenza, le faceva invece temere di dover fare della menzogna uno stile di vita. E ciò sarebbe stato, a lungo andare, impossibile da gestire. Perciò era necessario iniziare a rompere il muro delle menzogne. O almeno così credeva Evelyn.

E questo benché si rendesse conto perfettamente che la nozione di verità aveva un che di soggettivo o persino utopistico. La verità non era una cosa e neppure un sistema, era semplicemente una complessità in perenne crescita, perché la verità, come l'arte, risiede solo nella percezione di chi la sa comprendere. Ma, benché la verità pura non esiste, le bugie precipitavano nell'impossibilità di qualsiasi relazione. O almeno così credeva Evelyn.

Dalle donne ci si aspetta che mentano: che si depilino, che si lacchino le unghie, che usino reggiseni imbottiti per fingere di essere più prosperose, o pancere per essere spanciate. Che simulino orgasmi o che fingano di non averli, a seconda che giochino a fare le puttane o le vergini. Ed Evelyn era cresciuta convinta che la propria identità di donna si reggesse sulle bugie e i silenzi. Per questo aveva finito per diventare una fanatica della verità. Manteneva la sua sincerità contro ogni ostacolo, perché sentiva che era l'unica cosa che le restava intatta dal momento che, come donna, aveva fallito: siccome non aveva saputo fingere, siccome le era toccato di fare la puttana e l'abbandonata, allora non le restava altra scelta che fare della sconfitta una vittoria e della sua brutale onestà una bandiera. In definitiva lei era celtica, non poteva negarlo. I capelli rossi, gli occhi verdi e le lentiggini lo sbandieravano ai quattro venti, quella era l'eredità dei suoi antenati, il suo sangue, la sua essenza, benché non parlasse gaelico e fosse cresciuta a migliaia di chilometri dalla terra di Gaal. E non era forse "di' sempre la verità" il primo dei precetti dei druidi? Il peggior nemico dell'onore di un re è la mancanza di rispetto per la verità, l'alleanza con la menzogna.* Questo le avrebbero detto i suoi antenati. O almeno così credeva Evelyn.

Una relazione umana onesta, una relazione come quella che Evelyn desiderava instaurare, vale a dire, una relazione in cui due persone (amici, amanti o parenti che fossero) avessero il diritto di usare la parola amore per indicare il vincolo che le univa, una relazione del genere doveva comportare, inevitabilmente, un lungo processo di adattamento, uno sviluppo a volte delicato e a volte violento, a volte gratificante e a volte doloroso per chi ne era coinvolto. Evelyn aveva imparato, in base ai suoi rapporti con gli altri, che esprimersi con sincerità in una relazione di questo tipo era altamente complesso, e che farlo con precisione era un'impresa pressoché impossibile. Per esempio, cosa significava esattamente "mi manchi"? Significava la stessa cosa per chi lo dice e per chi lo ascolta, per chi lo scrive e per chi lo legge, esiste forse una verità allo stato puro quando risulta impossibile comunicarlo perché nessuno garantisce che un discorso abbia un'unica interpretazione? La parola è equivoca e, una volta pronunciata, resta, per quello che vale, con i suoi pro e i suoi contro. Le relazioni che avevano significato qualcosa per Evelyn le avevano imposto di indagare profondamente nelle proprie convinzioni e di non dare per scontato il senso apparente delle cose. Cosa voleva dire Fabrice quando affermava di stimarla più di chiunque altro? Che c'era la possibilità che la stima si trasformasse o celasse un sentimento d'amore oppure che lei per lui era un faro, una confidente? Che voleva dire Arturo quando asseriva, così spesso, di non poter vivere senza di lei? Che non poteva vivere senza scoparla, che senza di lei si annoiava, che un giorno avrebbe lasciato la moglie per stare con lei, o che pensava di portare avanti il morboso rapporto a tre per tutta la vita? Cosa significava, per esempio, "ho bisogno di te"? Si ha bisogno di cibo, di acqua, di ossigeno... Un amante va semplicemente desiderato. Se non altro in senso stretto. O almeno così credeva Evelyn.

Con tutte queste domande in testa Evelyn quel pomeriggio lasciò la maison con l'intenzione di mettere ordine nella sua vita, un ordine improntato a verità. O almeno così credeva.

Attraversò la strada e si avviò verso Royal Street. Il cielo era coperto, l'aria pregna di umidità. Non vedeva l'ora che rinfrescasse. Forse per via della cappa che aleggiava sulla città aveva la palpabile sensazione che stesse per accadere qualcosa di brutto. L'aveva già sentita nelle ultime due settimane. Persino Dora, una delle sue ragazze, le aveva detto che le ricordava l'atmosfera incombente sulla città prima che si abbattesse un violento temporale, uno di quelli che distruggono tutto ciò che trovano sulla loro strada.

Si guardò intorno, gli edifici del Quartiere erano sempre lì, solidi come una roccia; molti risalivano a prima che New Orleans venisse a far parte degli Stati Uniti, anche se vi erano alcune costruzioni recenti. La maggior parte delle architetture erano state costruite durante il periodo di influenza spagnolo e questo si rifletteva nella sua architettura. Il 'grande fuoco' di New Orleans del 1788 e l'altro grande incendio nel 1794 avevano distrutto gran parte del quartiere costruito secondo la vecchia architettura coloniale francese, lasciando ai nuovi signori spagnoli della colonia la possibilità di ricostruirlo secondo i loro gusti e più moderni e rigorosi codici antincendio, che prevedevano che tutte le strutture fossero adiacenti e vicine al cordolo del marciapiede per creare una barriera contro il fuoco. I vecchi tetti francesi a punta erano stati sostituiti con quelli piani piastrellati, ed erano state costruite pareti esterne in legno dando la precedenza allo stucco, dipinto con colori pastello dell'epoca. Di conseguenza abbondavano le pareti colorate, i tetti e i balconi in ferro battuto riccamente decorati e le gallerie, sia del XVIII secolo che del XIX.

Quando cominciarono a giungere gli americani anglofoni, dopo l'acquisto della Louisiana, la maggior parte di essi costruì a monte, di fronte alla moderna Canal Street, che divenne l'incontro di due culture, una francofona, i creoli e l'altra americana anglofona. Il centro dell'ampio viale divenne un luogo in cui le due culture potevano incontrarsi e fare affari bilingue. Lo chiamavano il "terreno neutro".

Così anche prima della guerra civile, i creoli francesi erano diventati una minoranza del Quartiere. E infatti nel tardo XIX secolo divenne la parte meno interessante della città, e vi si stabilirono molti emigrati provenienti da Italia e Irlanda.

Nel 1917, la chiusura di Storyville portò al trasferimento, nel Quartiere Francese, delle prostitute e del malaffare scacciato dalla zona chiusa e la maggior parte delle famiglie creole si trasferirono nella città nuova.

Agli inizi del XX secolo, gli affari economici e l'aria decadente avevano attirato una comunità di artisti bohemien e ciò a sua volta suscitato l'interesse di molte persone che proprio in quegli anni si stavano attivando per preservare il Quartiere. C'era ancora molto da fare però, il degrado e il malaffare erano difficili da estirpare.

Scendendo da la Chartres, verso Jackson Square, mentre era ancora assorta nei suoi pensieri, Evelyn fu riportata alla realtà da un urlo acuto. Gli occhi verdi saettarono subito alla ricerca della provenienza del grido di dolore. Alla sua sinistra, davanti alla Belle Louisiana, un negozio che vendeva dolciumi, Tabitha Baker si era frapposta, rossa di rabbia e i pugni stretti lungo i fianchi, tra due ragazzini e una bimbetta di colore, accovacciata per terra, piangente e terrorizzata.

Si avvicinò senza pensarci due volte. «Cosa sta succedendo qui?»

«Vattene!» ringhiò uno dei due ragazzini.
«Fatti gli affari tuoi» aggiunse il secondo che aveva una straordinaria somiglianza con il primo, entrambi biondi e robusti, gli occhi di un azzurro acquoso incastonati in un viso su cui campeggiava un identico naso a patata. Evelyn lanciò un'occhiata intorno a lei, né i passanti, né gli avventori del negozio, davanti al quale stava avvenendo la colluttazione, sembravano essersi accorti di niente. Completamente indifferenti a qualsiasi cosa stesse accadendo sotto i loro occhi. Fece un passo in avanti, avvicinandosi a Tabitha. «Cosa succede qui?» ripeté.

La ragazza era furibonda. «Questi due delinquenti...», a sentire la parola 'delinquenti' i due ragazzi emisero in contemporanea un verso, a metà tra un sibilo e un ringhio. «Dicevo... questi due 'delinquenti' hanno spintonato Nelly, senza motivo» aggiunse, indicando la ragazza per terra.
«È una negra, non ce la vogliamo nel nostro Quartiere» disse uno dei due con voce stridula.

Evelyn lanciò un'occhiata di avvertimento ai due ragazzi, prima di addolcire la propria espressione e rivolgersi alla ragazzina terrorizzata. «Tutto bene, tesorino, ti sei fatta male?» La bimba, doveva avere sui dieci anni a giudicare dal visino paffuto e l'aspetto gracile, scosse la testa freneticamente, tuttavia non smise di singhiozzare. «Vuoi che ti accompagni a casa?» chiese.
Lei annuì. Non appena cercò di alzarsi, uno dei due ragazzi si fece più vicino con aria minacciosa. «Già, tesorino, torna dai tuoi simili, nella fogna.»

Prima che Evelyn potesse rendersi conto di ciò che stava per fare, Tabitha si scagliò sul ragazzo che aveva parlato, artigliandogli la faccia. Quello lanciò un urlo di dolore. Quattro lunghi graffi apparvero sul viso largo, mentre l'altro si scagliava su Tabitha.

«Fermi!» gridò Evelyn.
Dal negozio uscì un uomo calvo corpulento, con un grembiule bianco allacciato in vita, che prese per la collottola il ragazzo che aveva afferrato Tabitha.

«Era ora!» sussurrò la donna. L'uomo la guardò un po' vergognoso, aveva fatto finta, come i suoi clienti e i passanti, di non accorgersi dell'alterco scoppiato appena fuori dal negozio tra i ragazzi, ma quando aveva riconosciuto Madame, non aveva potuto far altro che intervenire. Era un cliente affezionato della maison. Si adoperò subito per sedare la lite, ammonendo tutti e quattro i ragazzini con piglio autoritario. Dopo qualche protesta e recriminazione era riuscito a rimandare a casa i due ragazzi. Si era allora voltato verso Evelyn con aria contrita. «Scusateli, i gemelli Goudeau sono un po' irrequieti.»

Tabitha sbuffò, sciogliendosi del tutto i folti capelli color mogano; nella colluttazione aveva perso i fermagli che le tenevano su l'acconciatura. «Irrequieti? Quelli sono due delinquenti che non fanno altro che prendersela con i più deboli.»
L'uomo la guardò con occhi di fuoco. «E tu, signorina, sei una screanzata! Ti pare questo il modo di comportarti?» Fatto un cenno di saluto deferente a Evelyn, rientrò nel suo negozio.

Tabitha, indifferente alla paternale dell'uomo, intanto era corsa a dare una mano ad alzarsi alla ragazzina.
«State bene?» chiese Evelyn a entrambe. «Vi hanno fatto male?»
Nelly scosse la testa, continuando a tacere, non aveva ancora proferito parola. Si era messa in piedi con l'aiuto di Tabitha, tremava così forte che non riusciva a capire come le gambe riuscissero a sorreggerla. Si tese verso Tabitha per carezzarle un braccio, colma di gratitudine. Gli occhi della ragazza più grande si fecero cupi per la collera, quando si rese conto dello stato in cui i due gemelli l'avevano ridotta, avrebbe tanto voluto inseguirli e prenderli a calci.

«Tabitha...», la voce di Evelyn penetrò la cortina di rabbia che offuscava la sua mente.
«Sto bene... sto bene.» Poi rivolta a Nelly, che continuava a guardarla adorante disse: «Vieni, ti accompagno a casa». Voltò la testa verso la strada, la gratitudine dell'altra sembrava metterla a disagio. La ragazzina fece di no con la testa e indicò una donna di colore sbucata in quell'istante da chissà dove a pochi metri di distanza. Con un cenno di saluto a Tabitha e a Evelyn si congedò e corse verso la donna. La prese per mano e sparirono in uno dei tanti vicoli del Quartiere.

«Ora che hai fatto la tua opera pia, riprenditi questo aggeggio. Ho cose più importanti da fare che assistere ai tuoi stupidi gesti eroici.»
Evelyn si voltò verso la voce tagliente proveniente dalla sua sinistra. Un ragazzo alto dai capelli rossi marciava a passo spedito verso Tabitha brandendo la custodia di un violino. «Tieni, piccola stupida!», e gli mise in mano lo strumento con stizza.
«Piccola stupida!?» offesa, lei fece un passo avanti e afferrò il violino, poi gli si parò davanti, prima che lui se ne andasse. «Non dovevi venire con me?»

Tabitha aveva incontrato Antony all'uscita dalla lezione di violino del pomeriggio. Ormai era diventata un'abitudine per loro due incontrarsi, senza essersi dati appuntamento, in giro per il Quartiere. Dopo quattro chiacchiere gli aveva chiesto se voleva accompagnarla a casa di sua sorella per farsi prestare un vestito elegante. Mancava poco al suo esame di ammissione alla scuola in Ohio e Cheryl aveva insistito ché si presentasse vestita in modo adeguato. Visto che in casa di soldi per farsi un vestito nuovo non ce n'erano, aveva risolto chiedendone uno in prestito alla sorella maggiore. Antony aveva appena acconsentito ad andarci con lei quando si erano trovati davanti alla povera Nelly che veniva spintonata dai gemelli Godeau. Non ci aveva pensato due volte a intervenire; lasciato il violino ad Antony, si era lanciata nella mischia.

«Dopo lo spettacolo a cui ho assistito, mi è passata la voglia.» Abbassò il mento, e un raggio di sole gli illuminò gli zigomi pronunciati.
«Dovevo forse far finta di niente e lasciarla picchiare?» sibilò Tabitha.

«Affrontare due ragazzi che sono il doppio di te è da stupidi! E a me gli stupidi non piacciono!»
Tabitha era senza parole. Per un lungo momento riuscì solo a fissarlo, poi si riprese. «Non capisci nulla.»
«Di sicuro della vita capisco molto più di te. So che sei un vulcano stratosto, ma non sei in grado di affrontare chi è più grosso di te.» Con un moto di disgusto smise di fissarla e si girò accorgendosi di Evelyn che li guardava incuriosita. «E tu, che hai da guardare?»

L'astio che Evelyn percepì nella voce del ragazzo la investì come uno schiaffo. C'era qualcosa in lui. Aveva gli occhi neri, pungenti come spilli che le ricordavano qualcuno. Ed era rosso come lei. La luce del primo pomeriggio giocava intensa sulla capigliatura, come se gli accarezzasse la testa, e lei anche ebbe la tentazione di farlo e sentire sui polpastrelli il contatto di quei ricci ramati, che dovevano bruciare come una fiammata. Avevano gli stessi tratti, gli stessi capelli. Gli occhi no. Ansiosa come un cane che tira un guinzaglio, Evelyn si era fatta più vicina. E all'improvviso aveva avuto la sensazione di essere investita da un fiume in piena, dall'eco schiacciante di un vuoto senza nome rinchiuso nel tempo, nell'istante, nel pulsare del sangue.

* Secondo la leggenda sono le parole che il druido Cathba disse a Cúchalainn, il Mostro dell'Ulster, eroe delle saghe celtiche.

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