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Capitolo XXV

La gente si preoccuperebbe molto meno del giudizio altrui se si rendesse conto della scarsa considerazione che hanno tutti per il prossimo. Mentre due ore diventavano tre e poi quattro, Louise se la cavò in modo egregio a nascondere tutto ciò che le ribolliva dentro, evitando di parlare. Sembrava che la sua voce avesse deciso di andarsene in vacanza. Gli invitati, per fortuna, erano del tutto disinteressati alle sue opinioni e, per quanto fossero venuti alla festa per omaggiare la matriarca dei Bosco, inscenando una parvenza di vita sociale e sperticandosi in lodi per la festeggiata, in fondo stavano loro a cuore solo gli affari con cui incrementare il proprio patrimonio. A quanto poté desumere dal poco che lasciavano trapelare, chi più e chi meno era in affari con i Bosco. Gli uomini presenti si occupavano per lo più di fondi o di banche o di immobili. Tutti personaggi presentabili. Più o meno. Lo sguardo passò fugacemente su Donny Ryan, impegnato in una conversazione fitta fitta con uno dei pezzi grossi dell'amministrazione distrettuale. Represse un moto di disgusto. Passò poi a guardare Arturo, contornato da una claque di personaggi incredibilmente autocompiacenti, che passavano il tempo sforzandosi di fare battute più brillanti degli altri, in una gara a chi conosceva questa o quella persona 'utile' per un determinato affare.

Tutti gli uomini, più o meno panciuti, calvi e con un pestilenziale alito di sigaro erano, contrariamente a quanto Louise li vedeva nei locali 'nascosti', dove si accompagnavano con giovani ragazze, affiancati dalle mogli. Come alle 'amiche' anche alle consorti non era richiesto saper tenere una brillante conversazione. Perché la verità era che in quanto donne, indipendentemente dal ruolo che occupavano, erano destinate a essere semplici appendici del maschio. Elisa all'inizio aveva tentato di prendere le redini della conversazione, rispondendo a tono a ogni battuta e mostrando di saperne tanto quanto gli altri, ma poi era sprofondata pian piano in un silenzio incredulo e infastidito, mentre il rosé continuava a scorrere e gli uomini avevano smesso di fingere di ascoltarla. Louise sarebbe voluta intervenire, fare qualcosa per tappare la bocca a quegli idioti così sicuri di sé ma che non avevano un briciolo della competenza negli affari della cognata. Molte volte era stata proprio lei a togliere le castagne dal fuoco al marito e a Paul. Invece si sistemò una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio e andò verso la bionda. Fece un sorriso di circostanza e la prese sottobraccio, portandola verso un angolo, lontana dai vari capannelli, della grande sala.

«Sei cento volte più in gamba di quelli...» le sussurrò.
«Sembro presuntuosa se dico che lo so?» le rispose, mettendo su anche lei un sorriso finto mentre rispondeva a qualche cenno di saluto, e assumendo l'aria di stare parlando di cose frivole, 'da donne'.
«Per niente!»

«Beata lei che si diverte...» sospirò Elisa, indicando con un cenno del mento Carmela, impegnata a chiacchierare con un elegante signore. Questi sembrava davvero interessato a quello che diceva.
«Cosa avrà da raccontare a Lee Bailey...» si interrogò Louise.
«Ah, quello è il famoso Lee Bailey! Beh,  almeno l'ascolta.»
«Forse bisognerebbe salvarlo... Aspetta solo che lei sappia che oltre a essere ricco e vedovo, ha pure un titolo nobiliare.» Alle parole ironiche della mora scoppiarono a ridere, ma Elisa non si fece ingannare, notava negli occhi scuri dell'altra una sorta di disperazione a stento trattenuta. «Andiamo fuori sul terrazzo, ho bisogno di un po' d'aria» le disse.

Louise afferrò al volo una coppa di champagne dal vassoio che il cameriere portava in giro per la sala, e seguì la cognata. Il terrazzo era decorato con ghirlande di orchidee rosa, intrecciate alle ringhiere. Neanche fosse la festa di una debuttante! pensò Louise, arricciando il naso. Elisa la guardò, preoccupata. «Cos'è successo?» chiese, stringendo forte la mano dell'altra. 

Gli occhi limpidi e i capelli biondi e lucenti di Elisa le sembrarono una luce nell'oscurità della notte. Un peso le schiacciò il petto e si chiese se fosse giusto turbare la serenità della cognata con problemi suoi, suoi e di Paul, per quanto quest'ultimo sembrava non volersene fare carico. Avrebbe dovuto trovare alla svelta una soluzione. Elisa continuava a guardarla. Inclinò la testa e contrasse le labbra. No, non avrebbe mollato finché non avesse sputato la verità. 
«Quando sono andata a cercare Carmela per parlarle del maledetto appuntamento dal medico, ho incontrato Arturo... Mi ha minacciata.»
Elisa impallidì. «Come?»
«Se non riesco a farmi mettere incinta da Paul, lo farà lui.»

La bionda dovette appoggiarsi alla ringhiera. Un senso di nausea le premeva alla bocca dello stomaco. Il profumo dei fiori aggravò la situazione. Louise le toccò un braccio. «Elisa...» Che stupida era stata! Avrebbe dovuto sapere che non poteva affrontare l'argomento con lei, soprattutto con lei!
«Dobbiamo dirlo a Paul e a Frank... non lo permetteranno» singhiozzò.
L'altra l'afferrò e la strinse in un abbraccio. Elisa si aggrappò come un naufrago allo scoglio.
«Troverò una soluzione... Arturo non mi toccherà», tentò di rassicurarla Louise.

La bionda si staccò dall'abbraccio per guardarla in viso, gli occhi luccicanti di lacrime. Louise le passò con delicatezza le dita sul viso portandole via. A presiedere la scena, dal cielo nerissimo – un abisso cupo, impenetrabile, trafitto di stelle – un'immensa luna piena, minacciosa, veggente. Dentro, la festa aveva raggiunto il suo culmine. Il suono dei brindisi era assordante. 

«Scusami.»
«E di cosa? Non avrei dovuto parlartene.»
Elisa la guardò allarmata. «No, hai fatto bene. Prima o poi dovrò superarla.»

La mora scosse la testa e ripeté dentro di sé la frase che era solita dire quando la cognata aveva una crisi di panico al solo sentire nominare un qualsiasi tipo di violenza o costrizione, la cosa peggiore è quello che non si può definire. Se non dai un nome ai tuoi demoni non saprai mai combatterli. Louise glielo aveva ripetuto tante volte da quando era nata la loro amicizia. Devi aprire un determinato armadio della memoria, le diceva. Altrimenti non capirai perché di fronte a certi argomenti non reggi. Elisa però non ne aveva mai voluto sapere. Preferiva vivere con i suoi pochi ricordi, qualche foto e immagini perdute (la schiuma increspata del Mississippi, pezzi di erbe aromatiche sulle punture di zanzare, un vestitino rosso a pois, una bambola vestita con lo stesso abbigliamento...). Di quando in quando li spolverava e li rimescolava come un mazzo di carte usate. Sapeva quel che sapeva. E non voleva sapere di più. Eppure si sentiva oppressa da un bisogno tentacolare e invisibile, da un'ansia dispotica che le conficcava gli speroni nella carne straziata. Perciò si sforzò di ricacciare indietro la botola piena ricordi che Louise per un attimo era riuscita ad aprire. Elisa non sapeva, non voleva sapere, ma la sua anima era appesa al dolore, al presagio, al pericolo. Si gettò di nuovo tra le braccia di Louise, soffocando i singhiozzi, la implorò: «Dimmi che hai un piano».

«Forse ce l'ho» le rispose, poi la allontanò con delicatezza da sé.
«Pensi che il medico si possa corrompere?» aggiunse.
L'altra si asciugò le lacrime con stizza e poi la guardò pensierosa. «Dobbiamo mettere insieme una bella cifra, così gli sarà difficile rifiutare... Posso farli sparire dai conti della società, basterà informare Frank e Paul. Non faranno obiezioni, vedrai.»
«No, meno persone ne sono al corrente meglio è... Ho i soldi della vendita delle proprietà dei miei. Paul ha insistito perché rimanessero a me. So che odi tenere nascoste le cose a Frank, ma è meglio che anche lui venga tenuto all'oscuro.»

Elisa non si diede per vinta. «Frank potrebbe aiutarci, non è come Arturo ed è... più coraggioso di Paul quando si tratta di mettersi contro di 'loro'» aggiunse, imbarazzata. Le sembrava scorretto far notare a Louise che il marito era ancora troppo legato alla madre e al fratello maggiore e per questo non prendeva mai posizione contraria alla famiglia.
Louise scosse la testa. «Frank è coraggioso e non ci penserebbe due volte a mettersi contro la famiglia per te perché ti ama, ma io non sono te... Evitiamo di testare la sua lealtà ai Bosco... ti prego, non posso rischiare.»

«Va bene...» disse la bionda a malincuore. «Prenderò appuntamento con il dottore prima di quello tuo e lo convincerò... Ho anche io del denaro da parte.»
«No, non voglio che corri rischi per me!» obiettò la mora.
Elisa l'afferrò per un braccio. «Darò meno nell'occhio di te. Ho la scusa di un altro figlio. Inoltre è probabile che Arturo ti faccia seguire. Penserò a tutto io. Lasciami almeno fare questo per te.»

***

Antony non poteva dire di conoscere bene il Quartiere Francese, ma ogni volta che tornava a New Orleans, per un motivo o per un altro capitava che ci passasse del tempo. Tanto che ormai conosceva buona parte dei frequentatori della zona. Ovviamente, nel corso degli anni, le cose erano cambiate. Alcuni negozi avevano aperto e poi chiuso. C'erano sempre facce nuove, anche se alcune cose erano sempre le stesse. La panetteria, il Café Pontalba, il Café Du Monde e il Corner Café erano ancora al loro posto. I visitatori continuavano a riempire la piazza per ammirare la cattedrale e la pittoresca gente del posto che vi passava davanti... E gli affaristi con pochi scrupoli continuavano a usarla come base per i loro traffici, leciti e non.

Arturo Bosco non sfuggiva a quest'abitudine. Aveva fatto tirare giù dal letto Antony da Luke. «Sbrigati, stiamo andando al Quartiere... Il signor Bosco ha degli affari da concludere lì oggi.» Il ragazzo aveva mugugnato un "sì" e poi si era dato una mossa.
Trovò suo padre già in auto quando arrivò alla rimessa. Si sedette davanti, accanto a Luke e partirono. Arturo aveva il solito sguardo accigliato, ma l'aria riposata. I bagordi della notte precedente sembravano non averlo toccato. «Ho appuntamento per pranzo con Ryan... Tu, oggi sei libero, fatti un giro mentre mi aspetti. Al ritorno riprenderai a seguire 'quella'... A proposito, possibile non hai ancora niente di rilevante da raccontarmi?» gli chiese.

«La 'signora' sta conducendo una vita piuttosto tranquilla. A parte qualche visita alla cognata e gli acquisti in vari negozi, si limita a uscire a volte la sera con il marito» rispose, voltandosi a guardarlo.
Mentire era un'arte e Antony era uno specialista. Non si spiegava perché non volesse mettere a parte Arturo dei suoi sospetti, ma l'intuito gli suggeriva di tenere la cosa per sé, almeno finché non avesse avuto la certezza, cogliendo i due amanti sul fatto. 

«Non mi deludere» gli intimò Arturo, chiudendo così il discorso.

Lasciati Luke e Arturo in Royal Street, Antony si fermò al Café Pontalba; era stato tirato giù dal letto di fretta e non metteva nulla sotto i denti dalla sera precedente, perciò aveva un gran fame. In onore alle sue origini per metà italiane, optò per una Muffuletta, che divorò in quattro e quattro otto. Poi comprò quattro piatti di riso con fagioli da portare via, quindi raggiunse un vicolo accanto a Royal Street, dove i senzatetto erano soliti raggrupparsi. Da quando le autorità avevano deciso di usare la mano pesante con vagabondi e mendicanti, non erano più numerosi come una volta. Ormai si nascondevano nell'ombra finché la gente non si dimenticava di loro. Ma Antony sapeva che erano lì, così come sapeva dove si trovavano a New York, non aveva mai permesso a sé stesso di dimenticarsi di loro. Lasciò il cibo su un vecchio bidone arrugginito e si voltò per andarsene. Perché un'anima nera – lui stesso amava definirsi così – potesse avere un simile istinto caritatevole era un mistero. E no, non era per lavarsi la coscienza perché Antony Hughes non andava molto d'accordo neanche con lei. Si diceva: lo faccio perché se non fossi stato il figlio bastardo di Arturo Bosco, sarei anche io come questi disgraziati a raccattare cibo nella spazzatura.
Non appena ebbe raggiunto il marciapiedi, li sentì correre verso il cibo. Ma prima che potesse voltarsi per guardarli, se n'erano già andati.

Sospirando si diresse verso la Royal. Senza una vera destinazione, passeggiò lungo le strade, c'era un gran fermento. «Ehi, Antony, vieni subito qui!»
Alzò lo sguardo su Luke Crenshaw, che stava camminando verso di lui. «Dobbiamo tornare a casa, è successo un bel guaio.»

Antony aggrottò la fronte e guardò l'uomo, visibilmente agitato, incuriosito. «Donny Ryan è stato trovato morto. Stanotte, al ritorno dalla festa, la sua auto si è schiantata contro un muro. È morto sul colpo, pare, l'autista invece è in ospedale in condizioni gravi.»
Il rosso si sforzò di mostrare una faccia sorpresa. «Davvero?» chiese.
«Certo! Il signor Bosco l'ha saputo poco fa, aveva appuntamento con lui», gli mise in mano un giornale spiegazzato. «Leggi!»

Antony lo prese e trovò subito la notizia in prima pagina. Nascose il ghigno di soddisfazione e mise su una faccia contrita. «Sarà stato un colpo per il signor Bosco, avevano fatto grandi progetti insieme.»

«Pensi sia stata colpa nostra, abbiamo fatto bere l'autista...» chiese timoroso, abbassando la voce, come se avesse paura che i passanti potessero sentirlo. 

«Naah, era lucido quando lo abbiamo lasciato andare via... E poi, era lui a doversi preoccupare di restare sobrio. Poteva rifiutarsi di bere, o no?»

«Sì, sì...», si affrettò a concordare l'altro. «Sarà meglio però che non diciamo niente al signor Bosco» aggiunse, circospetto.

«Certo, potrebbe farsi idee sbagliate» gli rispose Antony.
Trovava divertente osservare il senso di colpa dipinto sul volto di Luke. Povero diavolo! non poteva mica sapere che non era stato il whiskey, offerto con grande generosità a Maurice, la causa dell'incidente. Si doveva ricordare di mandare un regalo al signor Hughes che lo aveva fin da piccolo fatto trafficare nella sua autofficina. Manomettere i freni dell'auto era stato un gioco da ragazzi e il risultato meglio di quanto sperato. 



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