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Capitolo XXIX

«Antony! Evelyn é una mia amica.»
La voce adirata di Tabitha scosse Evelyn. Batté le palpebre, come per mettere a fuoco la vista. Non riusciva a staccare gli occhi dal ragazzo e non capiva il perché. Non era molto più grande di Tabitha, o forse era la cascata di riccioli rosso-ramato a farlo sembrare tanto giovane. Un sopracciglio si inarcò e lei si perse negli occhi scuri e... familiari. Gli zigomi erano marcati, la mascella pronunciata e scolpita. Le labbra carnose si incurvarono in un sorriso di scherno, rivelando che aveva una fossetta sulla guancia destra.

«La tua amica si deve essere innamorata di me a giudicare dal modo in cui mi guarda.» Lo sguardo, tagliente, lasciò quello di Evelyn e guizzò verso Tabitha.
«Dille che le puttane non sono il mio tipo.»
Non si scomodò ad accertarsi di aver ferito la donna con il suo disprezzo, non ne aveva bisogno.
Tabitha era di nuovo furente, con lui questa volta. Si limitò a scrollare le spalle. «Be', è il suo mestiere, no?»
«Tu... Sparisci! Non voglio vederti mai più» gli urlò.
Lo sguardo di Antony vagò oltre il suo viso per un attimo, poi senza aggiungere altro le voltò le spalle e andò via.

Tabitha si avvicinò a Evelyn. La rossa alzò il mento verso di lei, la bocca secca come il deserto. La più giovane le toccò un braccio. «Lascialo stare, Antony è arrabbiato con il mondo intero» sospirò.
L'altra fece un cenno di noncuranza con la mano. «Ci sono abituata...»
Sì, c'era abituata e dopo tanti anni la cosa non la feriva più come le prime volte; le parole di disprezzo del ragazzo però erano riuscite a penetrare la sua corazza in un modo mai sperimentato prima. E non riusciva a spiegarsi il perché. Neanche lo conosco! pensò.

Tabitha la guardò poco convinta, a riprova del fatto che in faccia le si leggeva tutta l'umiliazione.
«Quando lo rivedrò, mi sentirà!» sbuffò.
«Gli hai appena detto che non lo vuoi rivedere più.»
«Era un modo di dire!»
«Forse lui l'ha inteso in senso letterale... Va' da lui.»
«Lo lascerò cuocere nel suo brodo...»
Evelyn, nonostante l'agitazione emotiva di cui era preda, sorrise. «Litigi tra innamorati...»
Tabitha la guardò allibita. «Non è il mio innamorato! Io non ho innamorati! Ho altro a cui pensare.»
«Lui lo sa che non è il tuo innamorato?»
La ragazza si passò una mano tra i capelli arruffati. «Anche lui ha altro a cui pensare.»

Normalmente Evelyn avrebbe lasciato cadere il discorso, ma il ragazzo aveva suscitato una morbosa curiosità in lei. «Raramente i ragazzi di quell'età pensano ad altro.»
La mora la guardò in modo strano. «Antony, per certi versi, ha più di sedici anni.»
Gli occhi verdi della donna si velarono di malinconia. Anche suo figlio, se fosse sopravvissuto, avrebbe avuto quell'età.

Tabitha si accorse della tristezza dell'altra e cercò di cambiare argomento. «A proposito, sai che giorno è oggi?»
Evelyn sembrò non aver sentito la domanda. «Non l'ho mai visto nel Quartiere...»
«È di New York... È qui da qualche mese con suo padre... un pezzo grosso...» si interruppe, forse non era il caso di raccontarle come l'aveva conosciuto, avrebbe dovuto tirare fuori un argomento spinoso, come l'amante di Fabrice. Evelyn però era una persona di fiducia, non avrebbe usato le informazioni contro l'uomo. Si convinse a vuotare il sacco, anche perché l'altra continuava a guardarla come in attesa.
«L'ho sorpreso sotto casa mia che spiava la donna di Fabrice, una certa Louise Bosco» disse in un sussurro.

Evelyn impallidì e non per il fatto di sapere che Fabrice aveva un'altra donna, lo aveva dato per scontato, visto che erano mesi che non frequentava la maison. Per un uomo con l'appetito sessuale come il suo significava una sola cosa: era innamorato. Di nuovo. Era il cognome della donna, quel cognome maledetto che perseguitava la sua esistenza a provocarle sgomento. «Perché?» chiese.
«È sua zia. La stava spiando per conto di suo padre. Non chiedermi altro perché Antony è stato piuttosto misterioso al riguardo.»
«E chi è il padre di Antony?» Il filo di voce con cui le uscì la domanda sembrò risucchiarle ogni energia.
«Arturo Bosco... Ma Antony non è il suo figlio legittimo.»

La strada intorno a Evelyn si mise a vorticare, e l'ultima parola che sentì prima che il mondo svanisse fu la secca imprecazione di Tabitha.

Quando riaprì gli occhi, granelli di polvere danzavano nella luce del sole che filtrava dalla finestra. Per un attimo non capì dove fosse né come ci fosse arrivata, ma, mentre osservava quei minuscoli frammenti scintillare e cadere, piano piano il puzzle dei ricordi si ricompose. Si trovava in un appartamento sconosciuto. Il locale era ampio, l'arredamento piuttosto minimale, eccetto che per i numerosi scaffali pieni di libri e dischi. Un vecchio pianoforte e un grammofono campeggiavano addossati a una parete. Accanto a quello che doveva essere un bagno, c'era un'altra stanza con la porta chiusa. Il divano su cui lei giaceva era comodo, e qualcuno le aveva rimboccato una coperta. Era svenuta per strada mentre stava parlando con Tabitha. Oddio! Il figlio di Arturo.

La porta chiusa si aprì. Una sagoma fendeva i raggi di luce e si dirigeva verso di lei. Fabrice. Occhi preoccupati saettarono su di lei. «Stai bene? Ci hai fatto spaventare...»
Sempre guardandola, afferrò una sedia e la piazzò accanto al divano con un tonfo. «Stai bene?» chiese di nuovo.
«Sì, sì...» gracchiò.

Lui inarcò un sopracciglio biondo. «Tabitha è corsa a chiamarmi terrorizzata. Mi ha detto che sei svenuta in mezzo alla strada. Ti abbiamo portata qui perché era il posto più vicino. Il dottore dovrebbe arrivare a momenti. Tabby è andata a chiamarlo.»
Evelyn fece un cenno di diniego. «Non è necessario, ho avuto solo un giramento di testa.»

Fabrice la scrutò ancora per qualche istante, quindi si protese verso un mobiletto vicino. «Sete?»
«Da morire. Mi sento la bocca come carta vetrata.»
Le porse un bicchiere d'acqua. «Vuoi una mano per sederti?» L'idea di avere le sue braccia attorno l'allettò come non mai, ma non voleva approfittare della situazione, né mostrarsi debole, perciò trasse un respiro profondo e scosse il capo, costringendosi a tirarsi su da sola.
Lui le porse l'acqua. «Bevila piano.»
Nel momento in cui le sfiorò le labbra, fu difficile non ingollarla d'un sorso, ma riuscì a trattenersi. Abbassò il bicchiere, ormai vuoto, e cercò di alzarsi in piedi.

Fabrice con delicatezza la spinse giù. «Finché non arriva il dottore non muoverti. D'accordo?»
Il tono serio non ammetteva repliche. Poi andò verso la porta chiusa e l'aprì; la fugace apparizione del letto dove lui dormiva la colpì in modo violento.

Evelyn disse: «Mi sarebbe piaciuto averti nella mia vita». Non le pronunciò ad alta voce, ma sentì riecheggiare le parole dentro di sé, sorprendenti e intense. Erano anni ormai, da quando era finito il suo primo e ultimo amore, che sperava e temeva che le succedesse una cosa del genere. E quando, all'improvviso, le era piombata addosso l'enormità del suo stesso incantesimo, si era ritrovata davanti a un ostacolo che non aveva previsto: si era innamorata di una persona che non poteva innamorarsi di lei. Era triste, indubbiamente, ma era stata più triste la dilatata permanenza nell'arida terra degli annoiati, quelli che non hanno vicino nessuno da amare, da rimpiangere dolorosamente.

Quel giorno sarebbe stato quello propizio per consacrarsi al dio della Verità per parlare a Fabrice, aprirsi con lui sulla portata dei suoi sentimenti, ma il ragazzo, il figlio di Arturo, aveva cambiato tutte le carte in tavola.

Evelyn si considerava una persona assolutamente razionale, sapeva che l'universo era stato originato da una fluttuazione del vuoto (glielo aveva spiegato un vecchio amante) e che l'amore si spiegava con l'assuefazione alle proprie endorfine (la carriera che aveva intrapreso le aveva fornito prove in tal senso). Evelyn cercava di spiegarsi ogni cosa in modo logico e razionale e di non lasciare nella sua vita varchi aperti al mistero, anche se, suo malgrado, era già di per se stessa un mistero. Aveva infatti il potere di prevedere le cose importanti che stavano per succedere. Conosceva il sesso dei bambini prima della nascita e spesso aveva sognato che sarebbero morte persone che poi erano decedute di lì a poco. Anche se, in realtà, Evelyn cercava di non credere ai propri presentimenti, per precauzione o per paura, e si sforzava continuamente per sminuirli; proprio per questo aveva combattuto le voci che da dentro l'avevano avvertita che quel giorno stava per accaderle qualcosa di cruciale. E ora, a casa di Fabrice, a pochi passi dal letto dell'uomo di cui era innamorata, sentiva che tutto era diventato irrilevante. Doveva sapere di più del ragazzo, doveva parlare con Arturo, nonostante la sua razionalità voleva impedirglielo.

Per questo Evelyn aguzzò l'udito per contare i passi di Fabrice, per essere sicura che non tornasse indietro all'improvviso. Si alzò e attraversò la stanza con gli occhi fissi sulla porta. L'aprì e poi socchiuse senza far rumore. Scese i gradini due alla volta. Doveva trovare Arturo.

***

Antony si incamminò spedito dalla parte opposta a quella dove si trovavano le due donne, senza voltarsi indietro. Per quel giorno ne aveva abbastanza di isterismi femminili. Si fermò solo quando ritenne di essere abbastanza lontano. Era finito di fronte a un giardino. Le pervinche blu e viola e i fiori fucsia dell'ibisco che costeggiavano il vialetto si erano moltiplicati come conigli. I rampicanti verdi ricoprivano la recinzione e l'intricato cancello in ferro battuto. La vegetazione avrebbe inglobato tutto, a lui piaceva così, selvaggio e fuori controllo. Un ghigno si allargò sul volto quando vide uscire dal cancello una donna con due bambini. Sembravano felici. Un bel falò avrebbe eliminato tutta quella sterpaglia. Scacciò il pensiero come si fa con le mosche e riprese la strada.

Il clima non era più insopportabile, dovevano esserci venticinque gradi. Camminare lungo Coliseum Street faceva un effetto strano. A ogni passo si aspettava che Tabitha saltasse fuori da un cortile o da un cespuglio per rimproverarlo. Stava diventando ridicolo, pensò, da quando quello che pensava di lui una ragazzina aveva tanta importanza? 'Fanculo, Tabitha Baker! Cosa pretendeva da lui? E quell'altra poi... L'aveva riconosciuta subito: la puttana di Arturo. Eh sì, perché mica si era fatto ingannare dalle misteriose sortite del genitore a Storyville. Non voleva che nessuno lo accompagnasse in quelle occasioni, lui che per fare qualche metro pretendeva l'autista! E così un giorno l'aveva seguito e l'aveva visto sbavare sulla porta della maison per la rossa. Gli era stato chiaro allora che solo le puttane, come la madre che non lo aveva mai voluto, riuscivano a smuovere quel pezzo di ghiaccio che era suo padre.

Nel corso della sua giovane vita, Antony aveva avuto giorni orribili, come buona parte delle altre persone. Gli sembrava però che i peggiori si fossero susseguiti senza sosta negli ultimi anni, quando Arturo Bosco si era presentato a casa degli Hughes e gli aveva detto di essere il suo vero padre. «E mia madre?» gli era sfuggito di bocca, prima di riuscirsi a frenare.
Il padre aveva fatto una smorfia di disgusto. «Tua madre è rimasta nel bordello dove l'ho trovata. Non ti ha voluto.»
Poi gli aveva spiegato quale ruolo avrebbe occupato nella sua vita e cioè che avrebbe provveduto a mantenerlo direttamente e gli avrebbe assicurato un futuro, ma non avrebbe abitato nella casa di famiglia, con la moglie e i figli legittimi, né avrebbe potuto usare il cognome dei Bosco.

Ad Antony di tutto quel discorso era rimasta impressa una sola frase: tua madre non ti ha voluto. La flebile speranza che lo aveva animato fino ad allora, di avere una vita come tutti gli altri, si era spenta in modo definitivo. Aveva capito che i suoi giorni avrebbero continuato a essere tutti orribili, con o senza padre. Perché cosa importa se hai un padre (e un padre come Arturo Bosco non era neanche granché!) quando sai che tua madre, la persona che ti ha tenuto in grembo per nove mesi, ti ha rifiutato?

Nonostante i giorni, Antony però aveva avuto notti francamente meravigliose. Per anni aveva passeggiato per interminabili spiagge di sabbia dorata, lambite da un mare argentato e immobile. Nei suoi sogni, lui era un bambino piccolo che attraversava un paesaggio completamente deserto, l'unica persona in uno scenario d'oro e d'argento da fiaba, e si sentiva tutto felice in quella solitudine. Sicurezza, fiducia, tranquillità, protezione. Quelle immagini sembravano troppo reali per non pensare che la spiaggia su cui aveva camminato per tante notti non esistesse in qualche angolo della terra. Solo che, quando si svegliava, si rendeva conto che quel posto non esisteva; e gli saliva da dentro un odio verso chiunque avesse intorno, perché pensava che gli altri avessero sì qualche giorno orribile ma non solo. Per gli altri c'erano anche giorni meravigliosi. Non come lui che custodiva solo nei sogni un tesoro di ricordi: giorni interminabili e gialli; la luce orizzontale; l'aria secca che appiattiva i colori. Pomeriggi e pomeriggi e pomeriggi ancora persi a non far niente o a fare tutto: giocare a costruire castelli di sabbia, a raccogliere conchiglie e lumache, a dormicchiare al sole o a cercare di scorgere dalla finestra di una stanza la fine della spiaggia. Era impossibile: anche se la si guardava dall'alto, la spiaggia non finiva mai.

Antony non aveva avuto mai amici. Conoscenti e rapporti di convenienza... forse. Ma nessuno a cui raccontare cosa stesse passando. Nessuno della cui discrezione si fidasse o del cui giudizio gli importasse. Nessuno, eccetto Tabitha Baker. Maledetta lei! come si fosse insinuata nella sua vita era un mistero.

Gli venne voglia di tornare indietro. Doveva fare tappa al Cafè Du Monde in Decatur Street. Gli serviva un bignè, un bignè fresco. Erano secoli che non ne mangiava uno tiepido... E vicino al Cafè c'era un negozio che faceva al caso suo. Doveva sbrigarsi, forse faceva ancora in tempo.

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